Intervista a Damiano Palano
di Giulio Pignatti
Cosa ne è delle ideologie all’epoca del populismo, della disintermediazione e del dissolvimento dei partiti di massa? Un recente convegno, Cosa resta dell’ideologia? Concetti, teorie, metodi di ricerca, organizzato dagli Standing group “Teoria Politica” e “Politica e Storia” della Società Italiana di Scienza Politica e tenutosi alla sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il 4 e 5 maggio 2023, ha discusso, tramite l’apporto di metodi e discipline differenti, la permanenza e l’evoluzione delle ideologie politiche nei contesti contemporanei. Dopo l’intervista a Manuel Anselmi dedicata alle ideologie politiche e al loro rapporto col populismo, qui di seguito l’intervista a Damiano Palano, co-organizzatore del convegno, professore ordinario di Filosofia politica e direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le sue linee di ricerca più recenti vertono sulle trasformazioni delle democrazie contemporanee e sull’ascesa dei populismi. Tra le ultime pubblicazioni: Animale politico. Introduzione allo studio dei fenomeni politici (Scholé 2023), Democracy and disintermediation. A dangerous relationship (EduCatt 2022, curato con Antonio Campati), Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Scholé 2020) e La democrazia senza partiti (Vita e Pensiero 2015).
Il contesto politico in cui si muovono le nostre società occidentali è quello che, in un fortunato libro del 2020, lei ha definito “bubble democracy”. Che cosa si intende con questa categoria?
Il concetto di bubble
democracy va inteso come uno strumento idealtipico che ci aiuta a
comprendere alcune trasformazioni attuali della democrazia. In particolare, ci
permette di valutare fino a che punto ci troviamo ancora oggi in una democrazia
dell’audience e del pubblico come l’aveva descritta Bernard Manin negli
anni Novanta o all’interno di una democrazia “classica” dei partiti. L’idea è
che vada coniata una nuova categoria per comprendere la democrazia
contemporanea, in contrapposizione soprattutto con la “democrazia del pubblico”
che lo stesso Manin ha ridiscusso criticamente alcuni anni fa, ammettendo che
la categoria non fosse più aggiornata. La visione di fondo di Manin era che in
un contesto mediatico contrassegnato dalla centralità dello spettacolo
televisivo anche la contesa politica si fosse spostata su quel versante e che
quindi il pubblico che assisteva allo spettacolo politico fosse chiamato a
reagire positivamente o negativamente alle performance dei vari attori. Questa
lettura è stata sicuramente valida per interpretare una certa fase della storia
europea e americana, però probabilmente a un certo punto qualcosa è iniziato a
cambiare. A mutarne la logica è innanzitutto ciò che io ed altri abbiamo
definito come la “frammentazione del pubblico”, o meglio la formazione di
pubblici sempre più settoriali e specialistici. Questa tendenza si manifesta
negli Stati Uniti già all’inizio del XXI secolo con la nascita di emittenti
dalla forte connotazione politica (ad esempio Fox News), e quindi con una forte
moltiplicazione dell’offerta televisiva che fa sì che le singole emittenti si
specializzino sempre di più e vadano a pescare in un elettorato fortemente politicizzato,
che possono polarizzare ulteriormente. Tale fenomeno esplode con la diffusione
di massa di internet e soprattutto degli smartphone, che, a livello di
cultura digitale, hanno comportato una rottura netta: oggi molti cittadini –
delle nuove generazioni ma non solo – attingono alle informazioni politiche solo
mediante i social media. La metafora della bolla, poi, viene suggerita
soprattutto dai meccanismi di filtraggio più o meno automatico o volontario a
cui siamo tutti soggetti quando ci esponiamo a notizie su internet. Un effetto
che può essere contestato – alcuni studi hanno messo in dubbio la portata del filtraggio
– ma senza togliere il dato della frammentazione del pubblico. Di fatto,
viviamo in una sfera pubblica sempre più segmentata, in cui non assistiamo
quasi mai ad un’unica scena politica ma a tanti spettacoli più o meno
singolarizzati a seconda della nostra profilazione di utenti. Si formano così
nicchie sempre più autoreferenziali e ciò ha dei grandi effetti sulla nostra
visione della realtà. È così che si spiega la peculiare polarizzazione – di
tipo diverso rispetto al passato – a cui abbiamo assistito in questi anni, a
partire soprattutto dagli Stati Uniti.
Lei ha tracciato una scansione che dalla democrazia dei partiti passa per quella del pubblico e infine arriva alle “bolle” attuali. In vari contributi recenti ha ripreso la psicologia delle folle di Gustav Le Bon e ha discusso l’ipotesi di una “nuova era delle folle”. Quali sono affinità e differenze con quella fase di fine Ottocento che ha visto anche la nascita dei grandi partiti di massa?
Le Bon è un
personaggio suggestivo, che peraltro lavora sulla suggestione: è un autore
affascinante ma va studiato con cautela. C’è senza dubbio un elemento che
accomuna l’indagine di Le Bon e l’aria del tempo presente, e cioè la sensazione
– fortissima anche tra fine Ottocento e inizio Novecento – che tutte le
credenze più consolidate si stiano sgretolando e che si stia entrando in una
stagione di opinioni fluide, passeggere, che cambiano nell’arco di poco tempo. Ma
Le Bon è un pensatore da guardare con più di qualche sospetto perché la sua
costruzione teorica è finalizzata in gran parte a delineare un progetto di
manipolazione: egli stesso rappresenta la propria psicologia delle folle come
uno strumento adeguato a controllare le folle, di cui viene dimostrata la
manipolabilità e dipendenza. Ciò che tuttavia rende così suggestiva la
riflessione di Le Bon è l’idea che la politica sia anche e soprattutto
emotività, e che chi trova le chiavi per controllare questa emotività sia in
grado magari non di controllare pienamente le folle ma comunque di indirizzarne
le azioni per un periodo determinato. È l’idea della politica emotiva, che gran
parte della teoria politica contemporanea aveva trascurato perché riteneva che
gli elettori fossero razionali e che agissero conseguentemente ad
argomentazioni che tenessero in conto qualche criterio morale. Abbiamo invece
ormai capito che molti elettori prendono le loro effimere decisioni sull’onda
soprattutto di reazioni emotive davanti a eventi determinati.
Durante il Novecento l’egemonia di questa politica delle emozioni l’hanno mantenuta soprattutto i partiti, e la democrazia del pubblico è stata forse l’apice di questa fase. Che ne è invece del partito politico all’epoca della democrazia delle bolle? In un libro del 2015 lei ha parlato di Democrazia senza partiti…
I partiti hanno
attraversato tante trasformazioni. Non possiamo dire che siano defunti perché
sono ancora i protagonisti, ancorché in maniera decisamente mutata, della
contesa politica. Ciò che invece è sicuramente venuto meno è il forte rapporto
di identificazione che legava cittadini e partiti – e questo è un fenomeno
relativamente di lungo periodo. Ciò si lega al discorso su Le Bon perché al
venir meno di appartenenze solide, collegate a visioni del mondo definite che orientino
le scelte degli elettori, a diventare sempre più centrale è la dimensione
emotiva, che i partiti non riescono del tutto a controllare e che devono dunque
soprattutto inseguire. Per quello che possono cercano di coltivarla attraverso
la personalizzazione della politica, ma questo di fatto è l’unico strumento in
loro possesso, in assenza di una capacità di creare quei legami simbolici forti
tipici dei partiti del passato. Quali che siano le cause, sociali o culturali,
di questo fenomeno, si osserva che fiducia e attaccamento simbolico ai partiti
si indeboliscono non solo in Italia ma in gran parte dell’Occidente. Nei
prossimi anni vedremo se si tratta di una congiuntura più o meno passeggera e
se questa fase porterà a una nuova strutturazione politico-sociale.
Come si innesta in questo scenario di crisi delle tradizionali visioni del mondo il tema dell’ideologia? Che genere di ideologie sono quelle che risuonano nelle bolle?
Questa era la
domanda centrale del convegno, nata – presso chi lo ha pensato e organizzato –
in seno alla discussione sul populismo. In un’epoca in cui si continua a sostenere
che le ideologie sono finite e che la scena è completamente dominata dalla
personalizzazione, la riflessione sul successo dei movimenti populisti ha fornito
una nuova centralità alle ideologie, inducendo al tempo stesso a ripensare
questo concetto. La definizione più nota di populismo è infatti quella proposta
dal politologo Cas Mudde, il quale sostiene che il populismo deve essere
considerato come un’“ideologia sottile”. Su questo Mudde si è appropriato di un
concetto elaborato da Michael Freeden – che tra l’altro non ha mai sposato
questa lettura del populismo –, che distingue le ideologie tradizionali, dotate
di un nucleo robusto contornato da concetti adiacenti, dalle attuali ideologie
sottili. Freeden parla di “ideologia dal centro sottile” in particolare in
relazione al nazionalismo: si tratta cioè di un’ideologia con un nucleo concettuale
molto leggero, che può poi essere ibridato attingendo da altre tradizioni.
Mudde ha ripreso quest’idea e ha sostenuto che il populismo è un’ideologia
sottile, caratterizzata, nel suo nucleo minimo, dall’idea che ci sia una
divisione della società in due parti, il popolo buono e le élite corrotte, e da
quella che il potere debba essere riconsegnato al popolo. Questa definizione di
populismo a molti non risulta del tutto convincente – a mio avviso il populismo
è piuttosto una forma di rappresentazione del conflitto, anche perché se fosse
un’ideologia col suo contenuto determinato vorrebbe dire che tutti gli attori
dovrebbero avere la stessa ideologia, dal momento che sono tutti, a diversi
gradi, populisti –, però sicuramente ha messo in luce la necessità di ripensare
il concetto di ideologia tenendo conto del fatto che le appartenenze e le
identificazioni attuali sono molto più deboli – e tuttavia possono ancora
essere considerate nei termini di ideologie. Il convegno voleva riflettere sui
vari modi in cui oggi l’ideologia può essere concepita, rinunciando ad alcune
componenti distintive della lettura tradizionale, ereditata in parte dal
marxismo e dalla scia aperta da Karl Mannheim, e cercando dunque di capire come
possono essere strutturate queste ideologie più leggere.
Un concetto che ha a che vedere con le ideologie sottili e col populismo è quello di disintermediazione. Lei ha sostenuto che ci troviamo in un mondo disintermediato ma anche neo-intermediato: di che genere è questa nuova intermediazione, ad esempio operata dalle piattaforme?
Il concetto di
disintermediazione è stato molto utilizzato – anche politicamente – in questi
anni e quindi deve essere guardato con un po’ di sospetto. Essenzialmente
identifica il processo con cui viene meno il ruolo di quegli attori che
detenevano un qualche tipo di capitale utilizzabile per porsi come mediatori
nella società, come i partiti politici o i sindacati. I corpi intermedi sono tali
perché, in una determinata fase storica, fungono da collettori di risorse e di informazioni
indispensabili per attivare un’azione collettiva. In parte le fondamenta
storiche ed economiche di questi attori intermediari sono venute meno. Oggi
organizzare una manifestazione politica, ad esempio, richiede un lavoro di
intermediazione molto inferiore rispetto al passato: la tecnologia ha reso
alcuni passaggi molto più semplici. Ovviamente ciò non significa che dobbiamo
cedere totalmente all’ideologia della disintermediazione, anche perché siamo
allo stesso tempo di fronte a un processo di neo-intermediazione, per il
semplice motivo che i luoghi dove scambiamo le nostre informazioni e svolgiamo
parte delle discussioni pubbliche non sono luoghi neutrali ma posseduti da
proprietari privati. Abbiamo a che fare con una discussione pubblica che si
svolge paradossalmente in spazi privati, di cui non conosciamo esattamente le
regole di funzionamento, né tantomeno siamo noi a deciderle. I proprietari di
Twitter o Facebook possono modificare le regole a nostra insaputa e dispongono
di una serie di informazioni che ci riguardano: noi abbiamo dato – spesso
tacitamente – il consenso, ed esse possono essere utilizzate per finalità non
pienamente controllabili da nessuno Stato. Questo è un processo di neo-intermediazione
che può anche essere pericoloso per le forme di mobilitazione collettiva. È un fenomeno,
infatti, che crea un’asimmetria di fatto tra il semplice cittadino e chi
possiede i luoghi dove si svolgono le intermediazioni e ne gestisce i dati. C’è
poi un altro aspetto che riguarda la disintermediazione, che non ha tanto a che
vedere con gli elementi tecnici dell’organizzazione quanto con i processi
culturali. I partiti politici erano degli intermediari sociali non soltanto in
quanto strumenti tecnici necessari a organizzare delle mobilitazioni, ma anche
perché detenevano in maniera relativamente monopolistica un capitale simbolico
e culturale. Erano i dirigenti e la struttura organizzativa a stabilire chi
fosse un degno membro del partito, quale fosse la linea corretta da seguire o
quali fossero i padri da onorare. Questo tipo di monopolio simbolico-culturale si
è disgregato, ma per motivi che non hanno a che fare strettamente con la trasformazione
tecnologica: è una svolta culturale che ci ha resi molto meno rispettosi in
generale nei confronti dei monopolisti del capitale simbolico, che siano i
vertici delle Chiese, dei partiti politici o del sapere scientifico. Questa è
una componente essenziale della nostra condizione di cittadini del XXI secolo, caratteristica
a cui non rinunceremmo molto volentieri ma che, d’altro canto, costituisce un
ostacolo a possibili processi di re-intermediazione simbolica. In assenza di un’autorità
simbolica riconosciuta è difficile pensare un’organizzazione che non solo orienti
gli elettori ma che riesca anche mobilitare i cittadini su obiettivi politici
di più lungo periodo.
Accanto all’aspetto tecnologico e a quello culturale-simbolico dell’intermediazione c’è anche il lato più strettamente politico. I partiti erano le organizzazioni protagoniste della rappresentanza politica. È dal loro tramonto – e dal passaggio del dibattito pubblico su piattaforme private esterne al sistema politico – che viene la spoliticizzazione che caratterizza il nostro presente?
In parte sì, ma la
spoliticizzazione dei partiti è qualcosa che inizia ancora prima delle
trasformazioni tecnologiche e digitali del presente. Le radici vanno ritrovate
nella svolta di smobilitazione degli anni Ottanta, che, da una parte, ha fatto
perdere ai partiti una parte considerevole del proprio radicamento sociale e
territoriale e, dall’altra, li ha spinti a cercare un radicamento diverso, di
tipo economico. I partiti si sono trasformati in attori quasi economici, che si
muovono sul terreno della contrattazione con i gruppi di pressione privati e
che cercano un genere di legittimazione di tipo diverso da quello strettamente
politico. Tra gli anni Ottanta e Novanta la società cambia radicalmente: anche
i meccanismi di legittimazione dei leader presso la comunità internazionale
mutano, e lì avviene una trasformazione che è precedente a quella delle
piattaforme tecnologiche. Ciò spinge i partiti a diventare molto più dei
soggetti che vivono dentro allo Stato e alle sue risorse piuttosto che dei
protagonisti della vita sociale. Il che non può far altro che sancire la loro
delegittimazione presso gli elettori.
Tornando al lato tecnologico dell’intermediazione, lei ha parlato di un duplice impatto delle tecnologie: da una parte esse possono riattivare le piazze e una politica dal basso, ma dall’altra possono anche costituire uno strumento di repressione e manipolazione da parte dei regimi autoritari.
È un’ambivalenza che abbiamo visto negli ultimi anni, anche se forse abbiamo osservato maggiormente la componente di mobilitazione che le piattaforme sono in grado di esercitare. Non dobbiamo esagerare pensando che siano solo questi gli strumenti che permettono di mobilitare e creare consenso, però senza dubbio i costi iniziali per entrare nella discussione pubblica si sono notevolmente abbassati rispetto al passato, e anche un soggetto che non dispone di grandi risorse finanziarie ma che riesce a utilizzare efficacemente gli strumenti comunicativi può riuscire, in determinate fasi critiche, ad avere un riscontro notevole dal punto di vista dell’opinione pubblica. Bisogna vedere se ciò è legato a un momento di passaggio in cui gli strumenti della rete si sono sviluppati in maniera relativamente incontrollata e se non ci sarà invece un ritorno del controllo da parte degli Stati anche su questi mezzi. Sicuramente sappiamo che per motivi di sicurezza nazionale si potrebbe accedere alle informazioni riservate di cui dispongono i social media, e sappiamo che nei Paesi non democratici questi strumenti vengono utilizzati per mappare i possibili oppositori e per controllarli stabilmente. Non possiamo negare che questa sia una possibilità concreta. Pensiamo alle dinamiche del terrorismo tradizionale che in Italia si sviluppò negli anni Settanta: oggi quel tipo di terrorismo non sarebbe minimamente possibile in nessuno Stato, né autoritario né democratico, perché i mezzi tecnologici consentirebbero di individuare e sventare progetti del genere. Ma nel caso degli Stati autoritari possiamo temere concretamente che ciò si applichi anche a movimenti di resistenza, che farebbero fatica ad emergere. È uno squilibrio di cui bisogna tenere conto, sperando che non sia totalmente a favore dei detentori del potere: ciò inciderebbe molto sulle possibilità della società di auto-organizzarsi e di far valere le proprie proteste.
Quella che passa
attraverso le piattaforme digitali potrebbe essere una nuova forma della
partecipazione politica nel quadro della crisi rappresentanza classica?
Per adesso si tratta di una scommessa che abbiamo in buona parte perso: i tentativi di riformare i partiti grazie agli strumenti offerti dalla tecnologia non hanno prodotto nessun risultato significativo. Basti pensare ai casi del Movimento 5 Stelle in Italia o di Podemos in Spagna: alla fine le componenti più tradizionali hanno prevalso. Se poi si tratta di immaginare un partito del futuro, non si può fare a meno di concepire dei meccanismi di partecipazione che comprendano l’utilizzo delle nuove tecnologie. Ma ciò è inevitabile, dato che gran parte della nostra vita si svolge in questa dimensione.
Talvolta lo
scenario di una frammentazione in bolle autoreferenziali sembrerebbe applicarsi
anche alla descrizione del dibattito intellettuale, sempre più in difficoltà
nell’avere una presa sulle trasformazioni sociali. Quale le sembra il suo stato
di salute?
Ovviamente non è
uno stato confortante, però probabilmente ciò dipende anche dalle eccessive
ambizioni che continuiamo a nutrire nei confronti dell’intellettuale. Siamo
ancora abituati a pensare nei termini novecenteschi dei grandi intellettuali da
cui ci si aspetta la parola definitiva ed è inevitabile che quando poi ascoltiamo
qualche grande maestro che interviene in un talk show rimaniamo delusi. In
senso positivo bisogna però prendere atto che il livello medio della produzione
intellettuale si è sicuramente accresciuto rispetto al passato. Forse non ci
sono più i grandi intellettuali, ma ci sono molti più operatori intellettuali
che comunque contribuiscono alla discussione pubblica. Forse il problema è
piuttosto che la discussione pubblica non esiste più, perché ampiamente
frammentata e spettacolarizzata. Però ciò dipende sempre dalla prospettiva che si
adotta: non è che i grandi intellettuali del passato parlassero effettivamente
alle grandi masse; ad essere coinvolti erano sempre circoli abbastanza
limitati, e le rare volte che le grandi idee uscivano allo scoperto riuscivano
ad avere maggiore seguito. Oggi invece il tentativo maldestro di accreditarsi
presso i media più attrattivi induce anche gli operatori intellettuali a
semplificare i termini della discussione, a cercare di rendersi appetibili,
contribuendo così allo scadimento generale del dibattito pubblico. Si tratta di
un circolo vizioso, ma credo che sottraendosi alla logica della
spettacolarizzazione si possa portare avanti una discussione culturale del
tutto degna del passato.
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