di Damiano Palano
Questo articolo è apparso come editoriale sul "Giornale di Brescia" il 2 giugno 2023, in occasione della Festa della Repubblica
Dopo la chiusura della tornata amministrativa Giorgia Meloni
ha invitato la maggioranza a procedere a spron battuto sul terreno delle riforme
istituzionali, indicando una preferenza per l’elezione diretta del premier.
Dopo più di quarant’anni di infruttuose discussioni sulla revisione della
nostra Carta costituzionale, è quasi inevitabile nutrire più di qualche
scetticismo. I mesi che ci attendono prima delle elezioni europee del 2024 ci
diranno se seguiranno passi concreti. Il sentiero appare comunque già piuttosto
accidentato, soprattutto perché la discussione è destinata a intrecciarsi con quella
sul progetto di “autonomia differenziata”. E non è escluso che i veti
incrociati possano vanificare ogni ambizione riformatrice.
Al di là di quelli che potranno essere gli esiti del
confronto, le prime battute del dibattito non sembrano però molto promettenti.
Non solo perché le proposte gettate un po’ frettolosamente sul tappeto sono
piuttosto generiche. Ma anche perché tendono a riproporre – in modo un po’
semplificato – ipotesi formulate trenta o persino quarant’anni fa, in un
contesto politico abissalmente diverso da quello odierno. Senza dunque
considerare che le strategie elaborate allora potrebbero non essere più valide
oggi.
L’idea di far eleggere dai cittadini il Presidente della
Repubblica è forse l’esempio più emblematico in questo senso. Un’innovazione di
questo genere non va confusa con il “presidenzialismo”, un sistema nel quale
(come negli Usa, in Brasile, ecc.) il capo dello Stato detiene il potere
esecutivo. L’elezione diretta del presidente non modificherebbe infatti i
poteri del Capo dello Stato e dunque, di per sé, non andrebbe formalmente ad
alterare il ruolo di garanzia che la nostra Costituzione gli assegna. Quando
questa ipotesi iniziò a circolare in Italia, parecchi decenni fa, l’obiettivo
era rafforzare il legame identitario dei cittadini con le istituzioni. In un
contesto politico dominato dai partiti e dalle loro rivalità interne, un
presidente eletto dai cittadini avrebbe rappresentato simbolicamente la
Repubblica, rinsaldando il vincolo con i cittadini. Ma oggi il panorama è
davvero cambiato. Dei partiti non resta che qualche sbiadita etichetta e la
disaffezione nei confronti della politica è stata curata con dosi massicce di
personalizzazione (e polarizzazione). L’elezione diretta del Capo dello Stato
comporterebbe un’ulteriore iniezione di personalizzazione, ma non è detto che sarebbe
in grado di irrobustire la fiducia nelle istituzioni. Come molti osservatori
hanno sottolineato, il sostegno di cui gode il Presidente della Repubblica
dipende proprio dal fatto di essere percepito come super partes. Un’elezione
diretta – a prescindere dal profilo dei candidati – colorerebbe politicamente
la contesa, con la possibilità concreta di acuire la polarizzazione. E dunque di
minare il ruolo stesso di “arbitro” previsto per il Presidente.
Un esempio ulteriore è offerto dall’idea del cosiddetto
“sindaco d’Italia”, ossia l’elezione diretta del premier: la proposta oggi
sposata dalla maggioranza, oltre che dal “terzo polo”. Anche in questo caso si
tratta di un’idea originariamente formulata quando si vedeva nella
personalizzazione la soluzione all’ingerenza dei partiti nella vita pubblica. Applicare
al governo nazionale il medesimo sistema introdotto trent’anni fa a livello
locale, con l’elezione diretta dei sindaci, sembrerebbe una soluzione efficace
per limitare l’instabilità degli esecutivi, il problema endemico della politica
italiana. Ma proprio l’esperienza dei sindaci – che certo ha dato molti frutti
positivi – ci deve mettere in guardia da alcuni rischi non secondari.
L’elezione diretta dei sindaci ha comportato infatti una
sostanziale riduzione del ruolo di indirizzo e di controllo dei consigli
comunali, che di fatto hanno oggi un ruolo “ancillare” rispetto al sindaco e
alla giunta. Certo esiste formalmente un rapporto di fiducia tra maggioranza e
giunta, ma la decadenza del sindaco comporta anche la decadenza del consiglio,
e ciò ridimensiona notevolmente l’effettivo peso dell’assemblea. Replicata a
livello nazionale, questa soluzione ne amplificherebbe gli effetti. Eleggendo
contestualmente il parlamento e il capo del governo, i cittadini
consegnerebbero al premier anche un formidabile strumento di pressione nei
confronti del parlamento. Di fatto, il capo del governo si troverebbe a
disporre del potere di sciogliere le camere. La forma di governo – pur
rimanendo formalmente parlamentare – subirebbe un effettivo slittamento verso
il presidenzialismo, perché i poteri del premier risulterebbero notevolmente
rafforzati. Ma – a differenza di ciò che avviene nel presidenzialismo –
verrebbero in gran parte meno pesi e contrappesi, perché si realizzerebbe una sostanziale
fusione di esecutivo e legislativo. Con un peso schiacciante del governo sul
parlamento.
Modificare alcuni aspetti della carta redatta dai padri
costituenti eletti il 2 giugno di settantasette anni fa non deve certo essere
un tabù. Ma la sensazione generata dalle prime battute del confronto politico è
che, anche per pigrizia intellettuale, si ripropongano vecchie ricette, concepite
quando la malattia italiana era l’ingerenza della “partitocrazia”. Oggi il
problema dell’instabilità degli esecutivi non è certo tramontato. Anzi, la
“transizione” interminabile degli ultimi tre decenni ne ha enfatizzato gli
aspetti negativi. Di fronte alla realtà di una democrazia senza partiti, molte
delle ricette di riforma avanzate negli anni Ottanta e Novanta rischiano però di
rivelarsi scadute. Perché, per molti versi, oggi il problema non è più
“scavalcare” i partiti, ma rafforzarli, irrobustendo il loro legame con una
società smobilitata. E ricalibrare quel sistema di pesi e contrappesi che rimane
l’argine fondamentale per limitare gli effetti più insidiosi della
personalizzazione.
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