di Damiano Palano
Questo articolo è apparso sulla newsletter VP Plus+ il 17 giugno 2023.
Una
volta Silvio Berlusconi confessò di avere una “concezione eroica della vita”. Come
avviene per gli eroi, l’ombra della morte, prima di raggiungerlo nel reparto
del San Raffaele in cui era ricoverato, lo ha davvero inseguito da sempre. Fin
da quando, ancora relativamente giovane, il fondatore di Mediaset volle far
erigere nel giardino della propria villa il mausoleo funebre che avrebbe custodito
i suoi resti. O quando chiese a don Verzé di consentirgli di arrivare fino a
centocinquant’anni.
Se
Silvio Berlusconi è stato davvero un eroe, certo non lo è stato nel significato
ordinario che attribuiamo a questo termine. Ha indubbiamente lasciato una
traccia indelebile nella storia, nella cultura e nella società del nostro Paese,
prima come imprenditore, poi ridisegnando il sistema della comunicazione e
rivoluzionando il mondo del calcio, infine diventando un leader politico. Ma il
suo eroismo sui generis è stato molto diverso da quello celebrato nei
pantheon ideologici della modernità, da quello dei martiri politici otto e
novecenteschi, disposti a sacrificare la vita per coronare la missione storica
di nazioni, partiti e classi. Silvio Berlusconi è stato piuttosto l’eroe di
un’Italia “impolitica”, se non addirittura “antipolitica”.
Molto
prima della sua “discesa in campo”, seppe infatti stabilire una sorta di connessione
sentimentale con un Paese che le mappe ufficiali non registravano. Un’Italia in
gran parte sotterranea che, negli anni Settanta e Ottanta, votava ancora per i partiti
di massa, ma che era sempre più distante, spesso insofferente nei confronti delle
identità subculturali e delle ambizioni ideologiche dei protagonisti della
“Prima Repubblica”. Berlusconi riconobbe in tutta la sua portata il potenziale
di quell’Italia che allora per lo più si biasimava sottovoce come “qualunquista”.
Con le sue televisioni, contribuì a farla emergere, persino a plasmarne i
gusti, gli orientamenti, le ambizioni.
Rompendo
con l’impostazione ingessata e la vocazione pedagogica della Rai, le sue reti
portarono sul piccolo schermo un intrattenimento privo di qualsiasi pretesa
intellettuale, anche se a confezionarne i prodotti erano spesso professionisti raffinati,
capaci di cogliere le tendenze di una società in trasformazione, di
intercettarne i desideri ancora inespressi, talvolta di utilizzare le sperimentazioni
contro-culturali degli anni Sessanta e Settanta per creare nuovi stili di
comunicazione. Nel decennio in cui si consumò l’effimera gloria della “Milano
da bere”, quelle emittenti non si limitarono a rompere il monopolio pubblico,
ma modificarono in modo irreversibile il gusto degli italiani. Sul piccolo
schermo i telespettatori potevano infatti scoprire l’esaltazione di una
vocazione edonistica, mentre la celebrazione di un’opulenza sfarzosa, talvolta
piuttosto grossolana ma da esibire senza esitazioni, doveva suonare come un
invito a seguire quello che stava diventando un nuovo modello culturale. Un
modello destinato a contribuire non poco al processo di secolarizzazione del
paese, oltre che per molti versi a quella che Pasolini aveva definito come una
radicale “mutazione antropologica”, in grado di dissolvere qualsiasi traccia
delle antiche culture contadine.
Dopo
il 1994, il successo di Forza Italia dipese in gran parte dall’intuizione di
poter dare una forma politica a quell’Italia fino a quel momento invisibile. L’orizzonte
culturale era in fondo lo stesso che le emittenti dell’imprenditore di Arcore avevano
iniziato a elaborare. Un orizzonte culturale che non aveva più nulla a che
vedere con le aspirazioni pedagogiche che avevano contrassegnato le diverse
fasi della storia unitaria, fin da quando la classe politica risorgimentale
aveva concepito il progetto di “fare gli italiani”. Alla base del partito fondato
da Berlusconi stava infatti la scelta radicale di costruire un progetto
politico rinunciando a ogni pedagogia. Promettendo al tempo stesso di dar
libero sfogo agli “spiriti animali” di un’imprenditoria diffusa, germogliata
spesso in territori lontani dalle grandi industrie, ai sogni di ascesa sociale,
all’ostentazione talvolta scomposta della ricchezza. Tutte componenti che le principali
famiglie politiche avevano spesso condannato o guardato con malcelato
imbarazzo, che la commedia all’italiana aveva a lungo sbeffeggiato, ma che erano
state per molti versi ingredienti del “miracolo economico” e della crescita del
Paese. E che in Silvio Berlusconi trovarono invece il profeta indiscusso, che non
solo invitava a cercare il successo, ma anche a esibirne i contrassegni senza
più sensi di colpa e complessi.
La
“rivoluzione liberale” che Berlusconi annunciò si rivelò ben presto una
promessa destinata a non essere mantenuta, così come le grandi riforme incompiute,
e talvolta neppure avviate. Ma quel destino era per molti versi scritto nella
stessa vocazione radicalmente impolitica del progetto berlusconiano. Senza
costruire un’identità, una tradizione, una classe dirigente (oltre che un vero
e proprio partito), non poteva infatti che rivelarsi fallimentare la grande
ambizione di poter dare una forma politica a una somma di interessi
individuali, al complesso di piccoli e grandi egoismi, ai mille campanili del
Belpaese. In assenza di quegli elementi, a fare da collante simbolico di quell’Italia
– di quel “popolo della libertà” – rimasero solo la figura dello stesso
Berlusconi, la sua personalità istrionica, il suo insaziabile desiderio di
piacere a tutti, l’indiscutibile fascino che sapeva esercitare, il suo corpo costantemente
esibito tanto da diventare simile a una sorta di maschera teatrale, le sue
controversie giudiziarie. Se infatti il cavaliere divenne il perno di
coalizioni eterogenee, più che “federare” forze differenti, finì in gran parte
per coagularle attorno a sé facendo progressivamente sfumare i loro tratti
specifici e inducendole a diventare esse stesse, prima di tutto,
“berlusconiane”, in modo esattamente speculare a quanto tutti i suoi avversari
diventavano, prima di tutto, “antiberlusconiani”. Proprio quella centralità, saturando
la scena pubblica, finì anche col diventare l’ostacolo principale per la
trasformazione di Forza Italia in un partito capace di allevare una classe
politica, di affrancarsi dalla matrice originaria di partito “personale”, di
preparare la successione al fondatore. E soprattutto inchiodò il bipolarismo
imperfetto della “Seconda Repubblica” su una linea di confine invalicabile.
Sull’eredità
politica di Silvio Berlusconi è destinata ad aprirsi una partita complicata.
Non tanto perché il bacino di voti che Forza Italia conservava possa rivelarsi
decisivo per la costruzione di maggioranze alternative o nuove coalizioni,
quanto perché il tycoon di Arcore ha rappresentato un costante punto di
equilibrio negli ultimi trent’anni, sia per la sua capacità di attrarre
consensi attorno alla sua figura, sia per quella di compattare contro di sé
schiere di avversari. È probabile che, sul breve periodo, Fratelli d’Italia
sarà in grado di esercitare una notevole forza di attrazione per buona parte
della residua pattuglia di Forza Italia. Non è da escludere che l’uscita di
scena del cavaliere possa dare nuovamente fiato ai progetti di formazioni
neo-centriste fino a questo momento bocciate dagli elettori. Ed è anche
possibile che possa prendere forma una sorta di processo costituente di una rinnovata
forza di centro-destra, capace non solo di dare una casa agli orfani di Forza
Italia, ma anche di rinsaldare il rapporto con il Partito Popolare Europeo.
Ben
più ingombrante è probabilmente l’eredità che la parabola di Silvio Berlusconi
– persino suo malgrado – consegna alla cultura politica del Paese. Senza il
Cavaliere, l’Italia si troverà naturalmente dinanzi agli stessi problemi che gli
ultimi trent’anni hanno lasciato insoluti. Problemi che hanno a che vedere soprattutto
con le riforme mai realizzate e le tante occasioni mancate, ma le cui responsabilità
vanno imputate a un’intera classe politica, e non certo solo al fondatore di
Forza Italia. Ma il può pesante lascito deriva probabilmente da quella stessa centralità
– politica, culturale e simbolica – che l’imprenditore milanese seppe
conquistare. Di tutta quella lunga storia – una storia segnata dalla
personalizzazione, dall’esaltazione di un edonismo compiaciuto, dalla
liquidazione di ogni pedagogia politica, dalla legittimazione di un individualismo
senza complessi, in fondo non molto lontano dal vecchio “familismo amorale” che
attraversa la storia italiana – lascia sul terreno la difficoltà, forse persino
l’impossibilità, di ricostruire identità collettive, forme politiche capaci di
resistere al logoramento di una politica fluida fondata solo sulla
personalizzazione, forme in grado di mobilitare verso progetti di lungo periodo
e di indurre al perseguimento ‘disinteressato’ di una causa comune. E, d’altronde,
il lascito di un leader “impolitico” e “anti-politico” come Berlusconi non
poteva che essere un paese orfano della politica, forse persino incapace di trasformare
una congerie di bisogni, aspettative, paure e risentimenti in qualcosa di
simile a una vera “res publica”.
È
anche per questo che – dopo trent’anni di interminabili discussioni sui suoi
casi giudiziari e sulla cultura del “berlusconismo” – del cavaliere si continuerà
a parlare. Non solo in virtù del suo ruolo nella società italiana, ma
soprattutto perché non si intravedono all’orizzonte leader in grado di colmare
quello spazio che egli fu in grado di riempire per un lungo tratto della nostra
storia recente. E così continueremo a dividerci tra suoi avversari e suoi sostenitori,
magari attribuendo alla sua figura, alle sue avventure e alle sue ambizioni
significati di volta in volta differenti.
È
in fondo ciò che accade agli eroi, persino agli eroi più controversi. Ed è
probabilmente anche ciò che accadrà anche a quella sorta di Citizen Kane
di via Volturno, a quell’eroe sui generis di un’Italia impolitica che,
nel corso della sua vita, volle sempre essere Silvio Berlusconi.