domenica 16 luglio 2023

L’ideologia nelle bolle. Intervista a Damiano Palano a cura di Giulio Pignatti


Intervista a Damiano Palano

di Giulio Pignatti

(da "Pandora Rivista")


Cosa ne è delle ideologie all’epoca del populismo, della disintermediazione e del dissolvimento dei partiti di massa? Un recente convegno, Cosa resta dell’ideologia? Concetti, teorie, metodi di ricerca, organizzato dagli Standing group “Teoria Politica” e “Politica e Storia” della Società Italiana di Scienza Politica e tenutosi alla sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il 4 e 5 maggio 2023, ha discusso, tramite l’apporto di metodi e discipline differenti, la permanenza e l’evoluzione delle ideologie politiche nei contesti contemporanei. Dopo l’intervista a Manuel Anselmi dedicata alle ideologie politiche e al loro rapporto col populismo, qui di seguito l’intervista a Damiano Palano, co-organizzatore del convegno, professore ordinario di Filosofia politica e direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le sue linee di ricerca più recenti vertono sulle trasformazioni delle democrazie contemporanee e sull’ascesa dei populismi. Tra le ultime pubblicazioni: Animale politico. Introduzione allo studio dei fenomeni politici (Scholé 2023), Democracy and disintermediation. A dangerous relationship (EduCatt 2022, curato con Antonio Campati), Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Scholé 2020) e La democrazia senza partiti (Vita e Pensiero 2015).

Il contesto politico in cui si muovono le nostre società occidentali è quello che, in un fortunato libro del 2020, lei ha definito “bubble democracy”. Che cosa si intende con questa categoria?

Il concetto di bubble democracy va inteso come uno strumento idealtipico che ci aiuta a comprendere alcune trasformazioni attuali della democrazia. In particolare, ci permette di valutare fino a che punto ci troviamo ancora oggi in una democrazia dell’audience e del pubblico come l’aveva descritta Bernard Manin negli anni Novanta o all’interno di una democrazia “classica” dei partiti. L’idea è che vada coniata una nuova categoria per comprendere la democrazia contemporanea, in contrapposizione soprattutto con la “democrazia del pubblico” che lo stesso Manin ha ridiscusso criticamente alcuni anni fa, ammettendo che la categoria non fosse più aggiornata. La visione di fondo di Manin era che in un contesto mediatico contrassegnato dalla centralità dello spettacolo televisivo anche la contesa politica si fosse spostata su quel versante e che quindi il pubblico che assisteva allo spettacolo politico fosse chiamato a reagire positivamente o negativamente alle performance dei vari attori. Questa lettura è stata sicuramente valida per interpretare una certa fase della storia europea e americana, però probabilmente a un certo punto qualcosa è iniziato a cambiare. A mutarne la logica è innanzitutto ciò che io ed altri abbiamo definito come la “frammentazione del pubblico”, o meglio la formazione di pubblici sempre più settoriali e specialistici. Questa tendenza si manifesta negli Stati Uniti già all’inizio del XXI secolo con la nascita di emittenti dalla forte connotazione politica (ad esempio Fox News), e quindi con una forte moltiplicazione dell’offerta televisiva che fa sì che le singole emittenti si specializzino sempre di più e vadano a pescare in un elettorato fortemente politicizzato, che possono polarizzare ulteriormente. Tale fenomeno esplode con la diffusione di massa di internet e soprattutto degli smartphone, che, a livello di cultura digitale, hanno comportato una rottura netta: oggi molti cittadini – delle nuove generazioni ma non solo – attingono alle informazioni politiche solo mediante i social media. La metafora della bolla, poi, viene suggerita soprattutto dai meccanismi di filtraggio più o meno automatico o volontario a cui siamo tutti soggetti quando ci esponiamo a notizie su internet. Un effetto che può essere contestato – alcuni studi hanno messo in dubbio la portata del filtraggio – ma senza togliere il dato della frammentazione del pubblico. Di fatto, viviamo in una sfera pubblica sempre più segmentata, in cui non assistiamo quasi mai ad un’unica scena politica ma a tanti spettacoli più o meno singolarizzati a seconda della nostra profilazione di utenti. Si formano così nicchie sempre più autoreferenziali e ciò ha dei grandi effetti sulla nostra visione della realtà. È così che si spiega la peculiare polarizzazione – di tipo diverso rispetto al passato – a cui abbiamo assistito in questi anni, a partire soprattutto dagli Stati Uniti.

Lei ha tracciato una scansione che dalla democrazia dei partiti passa per quella del pubblico e infine arriva alle “bolle” attuali. In vari contributi recenti ha ripreso la psicologia delle folle di Gustav Le Bon e ha discusso l’ipotesi di una “nuova era delle folle”. Quali sono affinità e differenze con quella fase di fine Ottocento che ha visto anche la nascita dei grandi partiti di massa?

Le Bon è un personaggio suggestivo, che peraltro lavora sulla suggestione: è un autore affascinante ma va studiato con cautela. C’è senza dubbio un elemento che accomuna l’indagine di Le Bon e l’aria del tempo presente, e cioè la sensazione – fortissima anche tra fine Ottocento e inizio Novecento – che tutte le credenze più consolidate si stiano sgretolando e che si stia entrando in una stagione di opinioni fluide, passeggere, che cambiano nell’arco di poco tempo. Ma Le Bon è un pensatore da guardare con più di qualche sospetto perché la sua costruzione teorica è finalizzata in gran parte a delineare un progetto di manipolazione: egli stesso rappresenta la propria psicologia delle folle come uno strumento adeguato a controllare le folle, di cui viene dimostrata la manipolabilità e dipendenza. Ciò che tuttavia rende così suggestiva la riflessione di Le Bon è l’idea che la politica sia anche e soprattutto emotività, e che chi trova le chiavi per controllare questa emotività sia in grado magari non di controllare pienamente le folle ma comunque di indirizzarne le azioni per un periodo determinato. È l’idea della politica emotiva, che gran parte della teoria politica contemporanea aveva trascurato perché riteneva che gli elettori fossero razionali e che agissero conseguentemente ad argomentazioni che tenessero in conto qualche criterio morale. Abbiamo invece ormai capito che molti elettori prendono le loro effimere decisioni sull’onda soprattutto di reazioni emotive davanti a eventi determinati.

Durante il Novecento l’egemonia di questa politica delle emozioni l’hanno mantenuta soprattutto i partiti, e la democrazia del pubblico è stata forse l’apice di questa fase. Che ne è invece del partito politico all’epoca della democrazia delle bolle? In un libro del 2015 lei ha parlato di Democrazia senza partiti…

I partiti hanno attraversato tante trasformazioni. Non possiamo dire che siano defunti perché sono ancora i protagonisti, ancorché in maniera decisamente mutata, della contesa politica. Ciò che invece è sicuramente venuto meno è il forte rapporto di identificazione che legava cittadini e partiti – e questo è un fenomeno relativamente di lungo periodo. Ciò si lega al discorso su Le Bon perché al venir meno di appartenenze solide, collegate a visioni del mondo definite che orientino le scelte degli elettori, a diventare sempre più centrale è la dimensione emotiva, che i partiti non riescono del tutto a controllare e che devono dunque soprattutto inseguire. Per quello che possono cercano di coltivarla attraverso la personalizzazione della politica, ma questo di fatto è l’unico strumento in loro possesso, in assenza di una capacità di creare quei legami simbolici forti tipici dei partiti del passato. Quali che siano le cause, sociali o culturali, di questo fenomeno, si osserva che fiducia e attaccamento simbolico ai partiti si indeboliscono non solo in Italia ma in gran parte dell’Occidente. Nei prossimi anni vedremo se si tratta di una congiuntura più o meno passeggera e se questa fase porterà a una nuova strutturazione politico-sociale.

Come si innesta in questo scenario di crisi delle tradizionali visioni del mondo il tema dell’ideologia? Che genere di ideologie sono quelle che risuonano nelle bolle?

Questa era la domanda centrale del convegno, nata – presso chi lo ha pensato e organizzato – in seno alla discussione sul populismo. In un’epoca in cui si continua a sostenere che le ideologie sono finite e che la scena è completamente dominata dalla personalizzazione, la riflessione sul successo dei movimenti populisti ha fornito una nuova centralità alle ideologie, inducendo al tempo stesso a ripensare questo concetto. La definizione più nota di populismo è infatti quella proposta dal politologo Cas Mudde, il quale sostiene che il populismo deve essere considerato come un’“ideologia sottile”. Su questo Mudde si è appropriato di un concetto elaborato da Michael Freeden – che tra l’altro non ha mai sposato questa lettura del populismo –, che distingue le ideologie tradizionali, dotate di un nucleo robusto contornato da concetti adiacenti, dalle attuali ideologie sottili. Freeden parla di “ideologia dal centro sottile” in particolare in relazione al nazionalismo: si tratta cioè di un’ideologia con un nucleo concettuale molto leggero, che può poi essere ibridato attingendo da altre tradizioni. Mudde ha ripreso quest’idea e ha sostenuto che il populismo è un’ideologia sottile, caratterizzata, nel suo nucleo minimo, dall’idea che ci sia una divisione della società in due parti, il popolo buono e le élite corrotte, e da quella che il potere debba essere riconsegnato al popolo. Questa definizione di populismo a molti non risulta del tutto convincente – a mio avviso il populismo è piuttosto una forma di rappresentazione del conflitto, anche perché se fosse un’ideologia col suo contenuto determinato vorrebbe dire che tutti gli attori dovrebbero avere la stessa ideologia, dal momento che sono tutti, a diversi gradi, populisti –, però sicuramente ha messo in luce la necessità di ripensare il concetto di ideologia tenendo conto del fatto che le appartenenze e le identificazioni attuali sono molto più deboli – e tuttavia possono ancora essere considerate nei termini di ideologie. Il convegno voleva riflettere sui vari modi in cui oggi l’ideologia può essere concepita, rinunciando ad alcune componenti distintive della lettura tradizionale, ereditata in parte dal marxismo e dalla scia aperta da Karl Mannheim, e cercando dunque di capire come possono essere strutturate queste ideologie più leggere.

Un concetto che ha a che vedere con le ideologie sottili e col populismo è quello di disintermediazione. Lei ha sostenuto che ci troviamo in un mondo disintermediato ma anche neo-intermediato: di che genere è questa nuova intermediazione, ad esempio operata dalle piattaforme?

Il concetto di disintermediazione è stato molto utilizzato – anche politicamente – in questi anni e quindi deve essere guardato con un po’ di sospetto. Essenzialmente identifica il processo con cui viene meno il ruolo di quegli attori che detenevano un qualche tipo di capitale utilizzabile per porsi come mediatori nella società, come i partiti politici o i sindacati. I corpi intermedi sono tali perché, in una determinata fase storica, fungono da collettori di risorse e di informazioni indispensabili per attivare un’azione collettiva. In parte le fondamenta storiche ed economiche di questi attori intermediari sono venute meno. Oggi organizzare una manifestazione politica, ad esempio, richiede un lavoro di intermediazione molto inferiore rispetto al passato: la tecnologia ha reso alcuni passaggi molto più semplici. Ovviamente ciò non significa che dobbiamo cedere totalmente all’ideologia della disintermediazione, anche perché siamo allo stesso tempo di fronte a un processo di neo-intermediazione, per il semplice motivo che i luoghi dove scambiamo le nostre informazioni e svolgiamo parte delle discussioni pubbliche non sono luoghi neutrali ma posseduti da proprietari privati. Abbiamo a che fare con una discussione pubblica che si svolge paradossalmente in spazi privati, di cui non conosciamo esattamente le regole di funzionamento, né tantomeno siamo noi a deciderle. I proprietari di Twitter o Facebook possono modificare le regole a nostra insaputa e dispongono di una serie di informazioni che ci riguardano: noi abbiamo dato – spesso tacitamente – il consenso, ed esse possono essere utilizzate per finalità non pienamente controllabili da nessuno Stato. Questo è un processo di neo-intermediazione che può anche essere pericoloso per le forme di mobilitazione collettiva. È un fenomeno, infatti, che crea un’asimmetria di fatto tra il semplice cittadino e chi possiede i luoghi dove si svolgono le intermediazioni e ne gestisce i dati. C’è poi un altro aspetto che riguarda la disintermediazione, che non ha tanto a che vedere con gli elementi tecnici dell’organizzazione quanto con i processi culturali. I partiti politici erano degli intermediari sociali non soltanto in quanto strumenti tecnici necessari a organizzare delle mobilitazioni, ma anche perché detenevano in maniera relativamente monopolistica un capitale simbolico e culturale. Erano i dirigenti e la struttura organizzativa a stabilire chi fosse un degno membro del partito, quale fosse la linea corretta da seguire o quali fossero i padri da onorare. Questo tipo di monopolio simbolico-culturale si è disgregato, ma per motivi che non hanno a che fare strettamente con la trasformazione tecnologica: è una svolta culturale che ci ha resi molto meno rispettosi in generale nei confronti dei monopolisti del capitale simbolico, che siano i vertici delle Chiese, dei partiti politici o del sapere scientifico. Questa è una componente essenziale della nostra condizione di cittadini del XXI secolo, caratteristica a cui non rinunceremmo molto volentieri ma che, d’altro canto, costituisce un ostacolo a possibili processi di re-intermediazione simbolica. In assenza di un’autorità simbolica riconosciuta è difficile pensare un’organizzazione che non solo orienti gli elettori ma che riesca anche mobilitare i cittadini su obiettivi politici di più lungo periodo.

Accanto all’aspetto tecnologico e a quello culturale-simbolico dell’intermediazione c’è anche il lato più strettamente politico. I partiti erano le organizzazioni protagoniste della rappresentanza politica. È dal loro tramonto – e dal passaggio del dibattito pubblico su piattaforme private esterne al sistema politico – che viene la spoliticizzazione che caratterizza il nostro presente?

In parte sì, ma la spoliticizzazione dei partiti è qualcosa che inizia ancora prima delle trasformazioni tecnologiche e digitali del presente. Le radici vanno ritrovate nella svolta di smobilitazione degli anni Ottanta, che, da una parte, ha fatto perdere ai partiti una parte considerevole del proprio radicamento sociale e territoriale e, dall’altra, li ha spinti a cercare un radicamento diverso, di tipo economico. I partiti si sono trasformati in attori quasi economici, che si muovono sul terreno della contrattazione con i gruppi di pressione privati e che cercano un genere di legittimazione di tipo diverso da quello strettamente politico. Tra gli anni Ottanta e Novanta la società cambia radicalmente: anche i meccanismi di legittimazione dei leader presso la comunità internazionale mutano, e lì avviene una trasformazione che è precedente a quella delle piattaforme tecnologiche. Ciò spinge i partiti a diventare molto più dei soggetti che vivono dentro allo Stato e alle sue risorse piuttosto che dei protagonisti della vita sociale. Il che non può far altro che sancire la loro delegittimazione presso gli elettori.

Tornando al lato tecnologico dell’intermediazione, lei ha parlato di un duplice impatto delle tecnologie: da una parte esse possono riattivare le piazze e una politica dal basso, ma dall’altra possono anche costituire uno strumento di repressione e manipolazione da parte dei regimi autoritari.

È un’ambivalenza che abbiamo visto negli ultimi anni, anche se forse abbiamo osservato maggiormente la componente di mobilitazione che le piattaforme sono in grado di esercitare. Non dobbiamo esagerare pensando che siano solo questi gli strumenti che permettono di mobilitare e creare consenso, però senza dubbio i costi iniziali per entrare nella discussione pubblica si sono notevolmente abbassati rispetto al passato, e anche un soggetto che non dispone di grandi risorse finanziarie ma che riesce a utilizzare efficacemente gli strumenti comunicativi può riuscire, in determinate fasi critiche, ad avere un riscontro notevole dal punto di vista dell’opinione pubblica. Bisogna vedere se ciò è legato a un momento di passaggio in cui gli strumenti della rete si sono sviluppati in maniera relativamente incontrollata e se non ci sarà invece un ritorno del controllo da parte degli Stati anche su questi mezzi. Sicuramente sappiamo che per motivi di sicurezza nazionale si potrebbe accedere alle informazioni riservate di cui dispongono i social media, e sappiamo che nei Paesi non democratici questi strumenti vengono utilizzati per mappare i possibili oppositori e per controllarli stabilmente. Non possiamo negare che questa sia una possibilità concreta. Pensiamo alle dinamiche del terrorismo tradizionale che in Italia si sviluppò negli anni Settanta: oggi quel tipo di terrorismo non sarebbe minimamente possibile in nessuno Stato, né autoritario né democratico, perché i mezzi tecnologici consentirebbero di individuare e sventare progetti del genere. Ma nel caso degli Stati autoritari possiamo temere concretamente che ciò si applichi anche a movimenti di resistenza, che farebbero fatica ad emergere. È uno squilibrio di cui bisogna tenere conto, sperando che non sia totalmente a favore dei detentori del potere: ciò inciderebbe molto sulle possibilità della società di auto-organizzarsi e di far valere le proprie proteste. 

Quella che passa attraverso le piattaforme digitali potrebbe essere una nuova forma della partecipazione politica nel quadro della crisi rappresentanza classica?

Per adesso si tratta di una scommessa che abbiamo in buona parte perso: i tentativi di riformare i partiti grazie agli strumenti offerti dalla tecnologia non hanno prodotto nessun risultato significativo. Basti pensare ai casi del Movimento 5 Stelle in Italia o di Podemos in Spagna: alla fine le componenti più tradizionali hanno prevalso. Se poi si tratta di immaginare un partito del futuro, non si può fare a meno di concepire dei meccanismi di partecipazione che comprendano l’utilizzo delle nuove tecnologie. Ma ciò è inevitabile, dato che gran parte della nostra vita si svolge in questa dimensione.

Talvolta lo scenario di una frammentazione in bolle autoreferenziali sembrerebbe applicarsi anche alla descrizione del dibattito intellettuale, sempre più in difficoltà nell’avere una presa sulle trasformazioni sociali. Quale le sembra il suo stato di salute?

Ovviamente non è uno stato confortante, però probabilmente ciò dipende anche dalle eccessive ambizioni che continuiamo a nutrire nei confronti dell’intellettuale. Siamo ancora abituati a pensare nei termini novecenteschi dei grandi intellettuali da cui ci si aspetta la parola definitiva ed è inevitabile che quando poi ascoltiamo qualche grande maestro che interviene in un talk show rimaniamo delusi. In senso positivo bisogna però prendere atto che il livello medio della produzione intellettuale si è sicuramente accresciuto rispetto al passato. Forse non ci sono più i grandi intellettuali, ma ci sono molti più operatori intellettuali che comunque contribuiscono alla discussione pubblica. Forse il problema è piuttosto che la discussione pubblica non esiste più, perché ampiamente frammentata e spettacolarizzata. Però ciò dipende sempre dalla prospettiva che si adotta: non è che i grandi intellettuali del passato parlassero effettivamente alle grandi masse; ad essere coinvolti erano sempre circoli abbastanza limitati, e le rare volte che le grandi idee uscivano allo scoperto riuscivano ad avere maggiore seguito. Oggi invece il tentativo maldestro di accreditarsi presso i media più attrattivi induce anche gli operatori intellettuali a semplificare i termini della discussione, a cercare di rendersi appetibili, contribuendo così allo scadimento generale del dibattito pubblico. Si tratta di un circolo vizioso, ma credo che sottraendosi alla logica della spettacolarizzazione si possa portare avanti una discussione culturale del tutto degna del passato.

domenica 9 luglio 2023

Italia, un “tripolarismo imperfetto” nel tempo della rassegnazione


A conclusione del suo primo anno di attività, Polidemos, il 19 e 20 luglio, organizza un workshop per riflettere sul futuro della democrazia italiana all’interno della suggestiva sede della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, cui va un sentito ringraziamento per la generosa ospitalità. L’obiettivo del workshop è riflettere sui cambiamenti intervenuti nell’ultimo anno, sia per effetto del mutamento internazionale (fine dell’emergenza pandemica, scoppio della guerra in Ucraina, ridefinizione delle linee strategiche del blocco occidentale, “crisi” della globalizzazione), sia in seguito all’esito delle elezioni politiche del settembre 2022, al successo di Fratelli d’Italia e alla formazione dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni.

Questo testo è apparso sulla Newsletter 6/2023 di Polidemos - Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici

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di Damiano Palano

La morte di Silvio Berlusconi è stata letta da molti osservatori come l’episodio conclusivo della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Ma, se certo la scomparsa del Cavaliere avrà conseguenze sugli assetti politici e sulla stessa coesione della maggioranza di governo, è piuttosto scontato osservare che la configurazione che abbiamo a lungo definito – un po’ impropriamente – come “Seconda Repubblica” non esiste più da parecchio tempo. Almeno da quel fatidico 12 novembre del 2011, in cui il governo presieduto dal tycoon di Arcore fu costretto alle dimissioni dalle turbolenze finanziarie e dall’impennata dello spread.

Benché Forza Italia sia stata in grado di sopravvivere alle traversie giudiziarie del suo fondatore e alle sue altalenanti condizioni di salute, proprio dal 2011 – e, soprattutto, dalle successive elezioni politiche del 2013 – il sistema partitico italiano ha smarrito la configurazione bipolare che aveva assunto dal 1994. L’ascesa del Movimento 5 Stelle, cominciata proprio nei mesi della crisi del debito sovrano, non ha infatti rappresentato soltanto l’episodio più eclatante dell’ondata populista degli anni Dieci, ma è stata soprattutto il battesimo di un inedito assetto tripolare. Un assetto che era la conseguenza della capacità della formazione fondata da Beppe Grillo di spezzare la contrapposizione tra destra e sinistra (oltre che tra “berlusconismo” e “antiberlusconismo”) su cui si era fondato il bipolarismo della “Seconda Repubblica” e che, in fin dei conti, aveva contribuito a stabilizzare coalizioni sempre più orfane di solide identificazioni partitiche.

Il tripolarismo nato nel 2013 non poteva che rivelarsi instabile, come ogni sistema tripolare. Se le elezioni del 2018 e il clamoroso successo pentastellato confermarono l’esistenza di tre poli, la crisi del governo giallo-verde e la successiva formazione dell’esecutivo Conte II per molti versi segnarono un punto di svolta per il M5S. Non solo perché, a partire da quel momento, l’emorragia di consensi iniziò a palesarsi in modo piuttosto netto, ma in particolare perché prese ad attenuarsi la sua capacità di intercettare voti in modo trasversale rispetto all’asse destra-sinistra. Come sappiamo, il responso (annunciato) delle elezioni del settembre 2022 ha innanzitutto visto l’affermazione di Fratelli d’Italia, che ha raccolto i benefici derivanti dal fatto di essere rimasta l’unica voce di opposizione al governo guidato da Mario Draghi nell’ultima fase della pandemia, oltre che della coalizione formata di FdI, Lega e Fi. Ma l’esito era in gran parte prevedibile soprattutto per ciò che è avvenuto sul versante di centro-sinistra. La mancata alleanza fra i tre principali attori di quest’area – M5S, Partito democratico e il cosiddetto “Terzo polo” formato da Azione e Italia Viva – rendeva infatti pressoché scontata la vittoria della coalizione di destra in molti dei collegi uninominali previsti dell’attuale legge elettorale. Ciò nondimeno, l’annunciata débacle pentastellata non si è verificata. Il partito guidato da Giuseppe Conte è stato comunque in grado di conservare un significativo livello di consensi, indubbiamente molto inferiore rispetto ai valori di quattro anni e mezzo prima, ma in grado di incidere sulla dinamica complessiva.

Salvatore Vassallo e Luca Verzichelli – sintetizzando i risultati di un’indagine condotta per l’Istituto Cattaneo – sostengono che il sistema politico italiano sia oggi configurato da una logica di “bipolarismo asimmetrico” (Il bipolarismo asimmetrico. L’Italia al voto dopo il decennio populista, Il Mulino, Bologna, 2023). Nei collegi uninominali, le tracce del precedente tripolarismo sarebbero pressoché inesistenti: mentre uno dei due poli – quello di destra (destra-centro o centro-destra) – appare ben presente e piuttosto compatto, quello di centro-sinistra è sostanzialmente assente (in quanto polo unitario). Più in particolare, secondo Vassallo e Verzichelli, dopo il 2019 la destra bicefala composta da FdI e Lega è riuscita a riconquistare molti elettori che, pur avendo votato in passato per il polo “berlusconiano”, nel 2013 e nel 2018 si erano rivolti al M5S. Ciò non è accaduto sul versante di centro-sinistra, sia per l’assenza di una coalizione in grado contrastare la vittoria avversaria, sia perché una parte considerevole dell’elettorato pentastellato – come mostra anche l’indagine di Itanes (Svolta a destra? Cosa ci dice il voto del 2022, Il Mulino, Bologna, 2023) è andata a confluire nel bacino dell’astensione. Ed è anche per questo motivo che Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini e James L. Newell – nel rapporto Cambio di rotta. L’Italia al voto del 2022 (Fondazione Feltrinelli, Milano, 2023) – ritengono che il tripolarismo sia tutt’altro che evaporato e che la spinta alla bipolarizzazione, sperimentata con i governi Conte II e Draghi, non si sia compiutamente realizzata.

Più che riproporre uno scenario analogo a quello bipolare – seppure di “bipolarismo frammentato” – della fase 1994-2011, l’attuale geometria sembra riconducibile a una sorta di “tripolarismo imperfetto”. Benché con ben differente peso elettorale, i tre poli emersi nelle elezioni del 2013 e del 2018 continuano infatti a esistere. E con ogni probabilità continueranno a sopravvivere nel prossimo futuro, dal momento che ogni ipotesi di alleanza strutturata tra Pd e M5S appare piuttosto remota, in virtù di differenze nette su questioni politicamente cruciali. Ma questo tripolarismo non può che risultare “imperfetto”, proprio come il bipartitismo di cui scrisse Giorgio Galli a proposito dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta: si tratta cioè di un “tripolarismo” che, per le sue caratteristiche, rende del tutto improbabile un’alternanza di governo. E non solo con l’attuale sistema elettorale.

Al di là delle formule, gli attori del sistema politico italiano – un sistema uscito dalla pandemia e alle prese con il mutato contesto internazionale, della “crisi della globalizzazione”, del “ritorno dello Stato”, oltre che con le conseguenze della vittoria della coalizione di destra (o destra-centro) – sembrano ancora in gran parte alla ricerca di un’identità, o di un’identità rinnovata. Lo sono senz’altro gli sconfitti, ma lo sono anche i vincitori. Innanzitutto, Forza Italia, rimasta priva del suo fondatore e capo carismatico, ma anche la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia. E benché gli orientamenti degli elettori di destra siano in fondo estremamente coerenti e compatti sui temi salienti, è piuttosto scontato che i vertici di questi partiti non perderanno l’occasione di trovare nuovi motivi di contesa (o di rispolverare quelli vecchi) per ridefinire identità e rapporti di forza, specialmente in vista delle elezioni europee (dove si voterà con il sistema proporzionale).

A rimanere in larga parte un’incognita è proprio la capacità di questo assetto di stabilizzarsi nel tempo. Molto dipenderà dai risultati e dell’efficacia (reale e percepita) dell’esecutivo, ma è difficile dimenticare la parabola che, nel recente passato, hanno percorso leadership a loro tempo definite come “carismatiche” e dipinte da molti commentatori come destinate a durare un ventennio. Non si può comunque correre il rischio di confondere il nuovo quadro con una riedizione del vecchio bipolarismo della stagione berlusconiana, con Giorgia Meloni nel ruolo che occupò il Cavaliere per circa un ventennio. A dispetto di alcune analogie apparenti, il quadro appare modificato su alcuni punti sostanziali.

Innanzitutto, l’intensità della polarizzazione odierna sembra molto inferiore rispetto a quella che segnò i periodi più infuocati delle contrapposizioni fra “berlusconismo” e “antiberlusconismo”. La situazione tra questo fronte potrebbe anche modificarsi, ma al momento anche per questo l’assetto sembra lontano da una stabilizzazione.

In secondo luogo, è necessario riconoscere che l’ondata populista dell’ultimo decennio ha modificato il quadro della discussione pubblica. Il “momento populista” in senso proprio – la fase in cui le identità politiche vengono ridefinite da una nuova offerta politica – si è probabilmente davvero concluso. E la stessa contrapposizione “alto/basso”, che in Italia ebbe una delle manifestazioni più eclatanti nella retorica dell’“uno vale uno”, sembra aver smarrito l’originaria forza propulsiva, anche per effetto della rapida trasformazione del Movimento 5 Stelle e della parabola politica di alcuni dei suoi leader un tempo più rappresentativi. Ciò che invece ha conquistato il centro della scena è la versione “esclusivista” della retorica populista, ossia quella che contrappone “dentro” e “fuori”, facendo leva su paure più o meno razionali e su ciò che resta di sentimenti nazionalistici. Come hanno sottolineato diversi osservatori (si veda per esempio la discussione condotta sulle pagine di “Vita e Pensiero”), ha preso forma una sorta di radicale mutamento, che segna davvero un passaggio netto rispetto alla “Seconda Repubblica”. La destra – che proprio su questo piano si differenza nettamente rispetto al “centro-destra” della stagione berlusconiana – sembra infatti aver conquistato un’egemonia incontrastata nella discussione pubblica, imponendo temi e stili dinanzi a cui il campo di sinistra (comunque lo si intenda) non sembra in grado di contrapporre sostanziali argini, se non sul tema dei “diritti civili”.

Un terzo fattore che differenzia l’attuale scenario non solo da quello della “Seconda Repubblica”, ma anche da quello del “decennio populista”, è infine relativo al clima emotivo complessivo in cui si svolge la contesa politica. Nella stagione del berlusconismo, l’intensità della polarizzazione e la spinta alla personalizzazione rappresentarono un antidoto formidabile – o forse solo una cura palliativa – alla strisciante disaffezione, alla sfiducia, al risentimento, che poi esplose dopo il 2011. L’ondata populista riuscì a dare a quel risentimento un indirizzo politico, trasformando il disprezzo nei confronti della “casta” in una speranza di rinnovamento che riavvicinò alla politica molti elettori delusi o persino “alienati”. Ma gli effetti di quell’ondata si sono rivelati in gran parte effimeri e non sono stati in grado di attivare – se non parzialmente – nuovi meccanismi di identificazione. Un effetto della disillusione post-populista è riconoscibile innanzitutto nelle dimensioni di quella “Repubblica degli assenti” rappresentata dagli astenuti alle elezioni del settembre 2022. Ma un effetto ulteriore è anche il clima di rassegnazione in cui sembra svolgersi la discussione pubblica italiana, perché – nonostante le tensioni internazionali e nonostante gli sforzi degli attori politici – la società italiana pare in gran parte osservare da spettatrice passiva quanto avviene nel Palazzo, senza far trapelare tracce significative di quelle spinte partecipative che contrassegnarono tanto la “Prima” quanto la “Seconda Repubblica”.

Per quanto indagare ciò che avviene nelle dimensioni “pre-politiche” di una società sia sempre molto più di difficile che esaminare quanto avviene nelle istituzioni e negli equilibri tra forze politiche, è proprio a quel livello che si dovrebbero probabilmente cercare le risposte alle tante domande sulle possibili direzioni future dell’infinita transizione italiana. E forse solo interrogando quanto si muove al di sotto della superficie delle istituzioni e nel ventre della sfuggente e indecifrabile “Repubblica degli assenti”, potremmo davvero capire se il futuro riservi incognite insidiose e se siano ancora solide le fondamenta della nostra democrazia.

domenica 18 giugno 2023

L’eroe sui generis di un’Italia senza politica. Silvio Berlusconi, "Citizen Kane" a via Volturno



di Damiano Palano

Questo articolo è apparso sulla newsletter VP Plus+ il 17 giugno 2023.

Una volta Silvio Berlusconi confessò di avere una “concezione eroica della vita”. Come avviene per gli eroi, l’ombra della morte, prima di raggiungerlo nel reparto del San Raffaele in cui era ricoverato, lo ha davvero inseguito da sempre. Fin da quando, ancora relativamente giovane, il fondatore di Mediaset volle far erigere nel giardino della propria villa il mausoleo funebre che avrebbe custodito i suoi resti. O quando chiese a don Verzé di consentirgli di arrivare fino a centocinquant’anni.

Se Silvio Berlusconi è stato davvero un eroe, certo non lo è stato nel significato ordinario che attribuiamo a questo termine. Ha indubbiamente lasciato una traccia indelebile nella storia, nella cultura e nella società del nostro Paese, prima come imprenditore, poi ridisegnando il sistema della comunicazione e rivoluzionando il mondo del calcio, infine diventando un leader politico. Ma il suo eroismo sui generis è stato molto diverso da quello celebrato nei pantheon ideologici della modernità, da quello dei martiri politici otto e novecenteschi, disposti a sacrificare la vita per coronare la missione storica di nazioni, partiti e classi. Silvio Berlusconi è stato piuttosto l’eroe di un’Italia “impolitica”, se non addirittura “antipolitica”.

Molto prima della sua “discesa in campo”, seppe infatti stabilire una sorta di connessione sentimentale con un Paese che le mappe ufficiali non registravano. Un’Italia in gran parte sotterranea che, negli anni Settanta e Ottanta, votava ancora per i partiti di massa, ma che era sempre più distante, spesso insofferente nei confronti delle identità subculturali e delle ambizioni ideologiche dei protagonisti della “Prima Repubblica”. Berlusconi riconobbe in tutta la sua portata il potenziale di quell’Italia che allora per lo più si biasimava sottovoce come “qualunquista”. Con le sue televisioni, contribuì a farla emergere, persino a plasmarne i gusti, gli orientamenti, le ambizioni.

Rompendo con l’impostazione ingessata e la vocazione pedagogica della Rai, le sue reti portarono sul piccolo schermo un intrattenimento privo di qualsiasi pretesa intellettuale, anche se a confezionarne i prodotti erano spesso professionisti raffinati, capaci di cogliere le tendenze di una società in trasformazione, di intercettarne i desideri ancora inespressi, talvolta di utilizzare le sperimentazioni contro-culturali degli anni Sessanta e Settanta per creare nuovi stili di comunicazione. Nel decennio in cui si consumò l’effimera gloria della “Milano da bere”, quelle emittenti non si limitarono a rompere il monopolio pubblico, ma modificarono in modo irreversibile il gusto degli italiani. Sul piccolo schermo i telespettatori potevano infatti scoprire l’esaltazione di una vocazione edonistica, mentre la celebrazione di un’opulenza sfarzosa, talvolta piuttosto grossolana ma da esibire senza esitazioni, doveva suonare come un invito a seguire quello che stava diventando un nuovo modello culturale. Un modello destinato a contribuire non poco al processo di secolarizzazione del paese, oltre che per molti versi a quella che Pasolini aveva definito come una radicale “mutazione antropologica”, in grado di dissolvere qualsiasi traccia delle antiche culture contadine.

Dopo il 1994, il successo di Forza Italia dipese in gran parte dall’intuizione di poter dare una forma politica a quell’Italia fino a quel momento invisibile. L’orizzonte culturale era in fondo lo stesso che le emittenti dell’imprenditore di Arcore avevano iniziato a elaborare. Un orizzonte culturale che non aveva più nulla a che vedere con le aspirazioni pedagogiche che avevano contrassegnato le diverse fasi della storia unitaria, fin da quando la classe politica risorgimentale aveva concepito il progetto di “fare gli italiani”. Alla base del partito fondato da Berlusconi stava infatti la scelta radicale di costruire un progetto politico rinunciando a ogni pedagogia. Promettendo al tempo stesso di dar libero sfogo agli “spiriti animali” di un’imprenditoria diffusa, germogliata spesso in territori lontani dalle grandi industrie, ai sogni di ascesa sociale, all’ostentazione talvolta scomposta della ricchezza. Tutte componenti che le principali famiglie politiche avevano spesso condannato o guardato con malcelato imbarazzo, che la commedia all’italiana aveva a lungo sbeffeggiato, ma che erano state per molti versi ingredienti del “miracolo economico” e della crescita del Paese. E che in Silvio Berlusconi trovarono invece il profeta indiscusso, che non solo invitava a cercare il successo, ma anche a esibirne i contrassegni senza più sensi di colpa e complessi.

La “rivoluzione liberale” che Berlusconi annunciò si rivelò ben presto una promessa destinata a non essere mantenuta, così come le grandi riforme incompiute, e talvolta neppure avviate. Ma quel destino era per molti versi scritto nella stessa vocazione radicalmente impolitica del progetto berlusconiano. Senza costruire un’identità, una tradizione, una classe dirigente (oltre che un vero e proprio partito), non poteva infatti che rivelarsi fallimentare la grande ambizione di poter dare una forma politica a una somma di interessi individuali, al complesso di piccoli e grandi egoismi, ai mille campanili del Belpaese. In assenza di quegli elementi, a fare da collante simbolico di quell’Italia – di quel “popolo della libertà” – rimasero solo la figura dello stesso Berlusconi, la sua personalità istrionica, il suo insaziabile desiderio di piacere a tutti, l’indiscutibile fascino che sapeva esercitare, il suo corpo costantemente esibito tanto da diventare simile a una sorta di maschera teatrale, le sue controversie giudiziarie. Se infatti il cavaliere divenne il perno di coalizioni eterogenee, più che “federare” forze differenti, finì in gran parte per coagularle attorno a sé facendo progressivamente sfumare i loro tratti specifici e inducendole a diventare esse stesse, prima di tutto, “berlusconiane”, in modo esattamente speculare a quanto tutti i suoi avversari diventavano, prima di tutto, “antiberlusconiani”. Proprio quella centralità, saturando la scena pubblica, finì anche col diventare l’ostacolo principale per la trasformazione di Forza Italia in un partito capace di allevare una classe politica, di affrancarsi dalla matrice originaria di partito “personale”, di preparare la successione al fondatore. E soprattutto inchiodò il bipolarismo imperfetto della “Seconda Repubblica” su una linea di confine invalicabile.

Sull’eredità politica di Silvio Berlusconi è destinata ad aprirsi una partita complicata. Non tanto perché il bacino di voti che Forza Italia conservava possa rivelarsi decisivo per la costruzione di maggioranze alternative o nuove coalizioni, quanto perché il tycoon di Arcore ha rappresentato un costante punto di equilibrio negli ultimi trent’anni, sia per la sua capacità di attrarre consensi attorno alla sua figura, sia per quella di compattare contro di sé schiere di avversari. È probabile che, sul breve periodo, Fratelli d’Italia sarà in grado di esercitare una notevole forza di attrazione per buona parte della residua pattuglia di Forza Italia. Non è da escludere che l’uscita di scena del cavaliere possa dare nuovamente fiato ai progetti di formazioni neo-centriste fino a questo momento bocciate dagli elettori. Ed è anche possibile che possa prendere forma una sorta di processo costituente di una rinnovata forza di centro-destra, capace non solo di dare una casa agli orfani di Forza Italia, ma anche di rinsaldare il rapporto con il Partito Popolare Europeo.

Ben più ingombrante è probabilmente l’eredità che la parabola di Silvio Berlusconi – persino suo malgrado – consegna alla cultura politica del Paese. Senza il Cavaliere, l’Italia si troverà naturalmente dinanzi agli stessi problemi che gli ultimi trent’anni hanno lasciato insoluti. Problemi che hanno a che vedere soprattutto con le riforme mai realizzate e le tante occasioni mancate, ma le cui responsabilità vanno imputate a un’intera classe politica, e non certo solo al fondatore di Forza Italia. Ma il può pesante lascito deriva probabilmente da quella stessa centralità – politica, culturale e simbolica – che l’imprenditore milanese seppe conquistare. Di tutta quella lunga storia – una storia segnata dalla personalizzazione, dall’esaltazione di un edonismo compiaciuto, dalla liquidazione di ogni pedagogia politica, dalla legittimazione di un individualismo senza complessi, in fondo non molto lontano dal vecchio “familismo amorale” che attraversa la storia italiana – lascia sul terreno la difficoltà, forse persino l’impossibilità, di ricostruire identità collettive, forme politiche capaci di resistere al logoramento di una politica fluida fondata solo sulla personalizzazione, forme in grado di mobilitare verso progetti di lungo periodo e di indurre al perseguimento ‘disinteressato’ di una causa comune. E, d’altronde, il lascito di un leader “impolitico” e “anti-politico” come Berlusconi non poteva che essere un paese orfano della politica, forse persino incapace di trasformare una congerie di bisogni, aspettative, paure e risentimenti in qualcosa di simile a una vera “res publica”.

È anche per questo che – dopo trent’anni di interminabili discussioni sui suoi casi giudiziari e sulla cultura del “berlusconismo” – del cavaliere si continuerà a parlare. Non solo in virtù del suo ruolo nella società italiana, ma soprattutto perché non si intravedono all’orizzonte leader in grado di colmare quello spazio che egli fu in grado di riempire per un lungo tratto della nostra storia recente. E così continueremo a dividerci tra suoi avversari e suoi sostenitori, magari attribuendo alla sua figura, alle sue avventure e alle sue ambizioni significati di volta in volta differenti.

È in fondo ciò che accade agli eroi, persino agli eroi più controversi. Ed è probabilmente anche ciò che accadrà anche a quella sorta di Citizen Kane di via Volturno, a quell’eroe sui generis di un’Italia impolitica che, nel corso della sua vita, volle sempre essere Silvio Berlusconi.

domenica 11 giugno 2023

Qualcosa è cambiato. Democrazie in mutamento (in Italia e nel mondo)

di Damiano Palano

Questo testo è apparso come editoriale sulla Newsletter di Polidemos (maggio 2023).

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Ormai è chiaro a chiunque che il 24 febbraio 2022 è iniziata una nuova fase politica. Mentre si chiudeva gradualmente l’emergenza pandemica, si materializzavano nuove emergenze, probabilmente destinate a ridefinire strategie di medio e lungo periodo. L’aggressione militare all’Ucraina riportava in cima alle priorità la sicurezza militare nel Vecchio continente. Ma rafforzava anche l’idea che, per garantire davvero quella sicurezza, diventava necessario riconquistare il controllo su risorse energetiche, processi economici e competenze tecnologiche.

Non pochi ritengono che nell’ultimo anno si sia aperta una nuova fase anche per le nostre democrazie, e che in qualche misura quella lunga “recessione democratica”, iniziata più di quindici anni fa, stia conoscendo una svolta, se non proprio un’inversione di marcia. Il rapporto 2023 di Freedom House – l’istituto i cui dati hanno fornito in passato maggior sostegno alla tesi della “recessione democratica” – segnala infatti che nel corso dell’ultimo anno il ritmo del deterioramento sembrerebbe essersi ridotto. Anche il 2022 è stato – secondo FH – un anno di declino democratico, per la precisione il diciassettesimo anno consecutivo in cui i valori complessivi, relativi al rispetto dei diritti politici e delle libertà civili, hanno fatto registrare un peggioramento.

Ciò nondimeno, sembrerebbero esserci segnali positivi, perché la differenza tra Paesi che registrano un peggioramento e quelli che invece mostrano un miglioramento delle condizioni di democraticità non è mai stata tanto ristretta negli ultimi diciassette anni. In parte questo risultato è un effetto della chiusura della parentesi pandemica. Il superamento dell’emergenza sanitaria ha comportato infatti il ritiro delle restrizioni che, a partire dal 2020, avevano contribuito (soprattutto in alcuni casi) a ridurre gli spazi di manifestazione del dissenso e della partecipazione. Ma un ruolo importante è anche stato giocato da alcune scadenze elettorali che – per esempio in Lesotho e in Colombia – si sono svolte in modo regolare.

Anche se le rilevazioni di Freedom House sono molto utili, quantomeno per disporre di un quadro completo delle tendenze globali, è sempre bene tenere presente i limiti di questo genere di indagini. Per quanto possano dare l’impressione di una straordinaria “oggettività”, i dati quantitativi con cui viene “misurato” il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili nei quasi duecento Stati del mondo non possono che essere sempre filtrati dalle percezioni “soggettive” degli osservatori. In altre parole, per quanto possano essere rigorose, queste misurazioni operano sempre a partire dalle valutazioni degli esperti dei singoli Paesi: valutazioni che sono ovviamente “soggettive” e che, soprattutto, risentono più o meno direttamente del clima di opinione nel quale ogni singolo osservatore si trova collocato. E proprio questo limite rischia di generare una sorta di “cortocircuito”, per effetto del quale, per esempio, un esperto che assista quotidianamente a discussioni sulla “crisi” della democrazia potrebbe essere indotto, nelle proprie valutazioni, a dare un peso maggiore proprio a quegli aspetti che sono più connessi all’idea di un declino democratico. Viceversa, l’osservatore che si trovi circondato da un’opinione pubblica e da una comunità accademica che sostengano in modo entusiastico le istituzioni democratiche potrebbe essere indotto a sottovalutare gli espetti più problematici e a enfatizzare quelli più positivi.  In parte, è proprio ciò che è avvenuto negli ultimi anni.

Dopo il 2016, l’esito della Brexit e la vittoria di Trump hanno rapidamente portato la questione della possibile caduta delle democrazie consolidate dalle narrazioni distopiche al dibattito politologico. L’ondata populista, la polarizzazione e l’emergere di nuove formazioni di destra sono state interpretate da molti studiosi come segnali di un logoramento del tessuto valoriale delle democrazie, o anche come un sintomo di un processo di “deconsolidamento” democratico. Ora potrebbe invece verificarsi l’opposto. Dopo aver trovato (o ritrovato) un nemico, le democrazie occidentali potrebbero apparire molto più in salute di quanto non ci sembrassero qualche anno fa. E l’idea che stia cominciando una nuova e lunga contrapposizione fra democrazie e autocrazie potrebbe indurci – come cittadini, ma anche come studiosi – a interpretare positivamente, come un bicchiere mezzo pieno, quella stessa situazione che qualche anno fa vedevamo come un bicchiere quasi vuoto.

Nell’ultimo anno sicuramente qualcosa è cambiato. Ed è cambiata anche la nostra percezione dello stato di salute della democrazia. Ma dobbiamo evitare il rischio di passare dal pessimismo dell’apocalisse democratica all’autocelebrazione di una democrazia soddisfatta. Più che accontentarsi della “misurazioni” quantitative sullo stato di salute della democrazia, dovremmo essere capaci di guardare in profondità a ciò che sta avvenendo nei sistemi politici. E interpretare i mutamenti che si stanno realizzando nelle modalità della partecipazione, nella struttura dei partiti, nei meccanismi di identificazione, nella stessa concezione che i cittadini e le forze politiche hanno della democrazia. Perché solo portando alla luce le traiettorie di queste trasformazioni possiamo cogliere i segnali che ci vengono dalla cronaca politica. E sperare di capire cosa è davvero cambiato.

domenica 4 giugno 2023

Riformare la Costituzione, il rischio delle vecchie ricette


di Damiano Palano

Questo articolo è apparso come editoriale sul "Giornale di Brescia" il 2 giugno 2023, in occasione della Festa della Repubblica

Dopo la chiusura della tornata amministrativa Giorgia Meloni ha invitato la maggioranza a procedere a spron battuto sul terreno delle riforme istituzionali, indicando una preferenza per l’elezione diretta del premier. Dopo più di quarant’anni di infruttuose discussioni sulla revisione della nostra Carta costituzionale, è quasi inevitabile nutrire più di qualche scetticismo. I mesi che ci attendono prima delle elezioni europee del 2024 ci diranno se seguiranno passi concreti. Il sentiero appare comunque già piuttosto accidentato, soprattutto perché la discussione è destinata a intrecciarsi con quella sul progetto di “autonomia differenziata”. E non è escluso che i veti incrociati possano vanificare ogni ambizione riformatrice.

Al di là di quelli che potranno essere gli esiti del confronto, le prime battute del dibattito non sembrano però molto promettenti. Non solo perché le proposte gettate un po’ frettolosamente sul tappeto sono piuttosto generiche. Ma anche perché tendono a riproporre – in modo un po’ semplificato – ipotesi formulate trenta o persino quarant’anni fa, in un contesto politico abissalmente diverso da quello odierno. Senza dunque considerare che le strategie elaborate allora potrebbero non essere più valide oggi.

L’idea di far eleggere dai cittadini il Presidente della Repubblica è forse l’esempio più emblematico in questo senso. Un’innovazione di questo genere non va confusa con il “presidenzialismo”, un sistema nel quale (come negli Usa, in Brasile, ecc.) il capo dello Stato detiene il potere esecutivo. L’elezione diretta del presidente non modificherebbe infatti i poteri del Capo dello Stato e dunque, di per sé, non andrebbe formalmente ad alterare il ruolo di garanzia che la nostra Costituzione gli assegna. Quando questa ipotesi iniziò a circolare in Italia, parecchi decenni fa, l’obiettivo era rafforzare il legame identitario dei cittadini con le istituzioni. In un contesto politico dominato dai partiti e dalle loro rivalità interne, un presidente eletto dai cittadini avrebbe rappresentato simbolicamente la Repubblica, rinsaldando il vincolo con i cittadini. Ma oggi il panorama è davvero cambiato. Dei partiti non resta che qualche sbiadita etichetta e la disaffezione nei confronti della politica è stata curata con dosi massicce di personalizzazione (e polarizzazione). L’elezione diretta del Capo dello Stato comporterebbe un’ulteriore iniezione di personalizzazione, ma non è detto che sarebbe in grado di irrobustire la fiducia nelle istituzioni. Come molti osservatori hanno sottolineato, il sostegno di cui gode il Presidente della Repubblica dipende proprio dal fatto di essere percepito come super partes. Un’elezione diretta – a prescindere dal profilo dei candidati – colorerebbe politicamente la contesa, con la possibilità concreta di acuire la polarizzazione. E dunque di minare il ruolo stesso di “arbitro” previsto per il Presidente.

Un esempio ulteriore è offerto dall’idea del cosiddetto “sindaco d’Italia”, ossia l’elezione diretta del premier: la proposta oggi sposata dalla maggioranza, oltre che dal “terzo polo”. Anche in questo caso si tratta di un’idea originariamente formulata quando si vedeva nella personalizzazione la soluzione all’ingerenza dei partiti nella vita pubblica. Applicare al governo nazionale il medesimo sistema introdotto trent’anni fa a livello locale, con l’elezione diretta dei sindaci, sembrerebbe una soluzione efficace per limitare l’instabilità degli esecutivi, il problema endemico della politica italiana. Ma proprio l’esperienza dei sindaci – che certo ha dato molti frutti positivi – ci deve mettere in guardia da alcuni rischi non secondari.

L’elezione diretta dei sindaci ha comportato infatti una sostanziale riduzione del ruolo di indirizzo e di controllo dei consigli comunali, che di fatto hanno oggi un ruolo “ancillare” rispetto al sindaco e alla giunta. Certo esiste formalmente un rapporto di fiducia tra maggioranza e giunta, ma la decadenza del sindaco comporta anche la decadenza del consiglio, e ciò ridimensiona notevolmente l’effettivo peso dell’assemblea. Replicata a livello nazionale, questa soluzione ne amplificherebbe gli effetti. Eleggendo contestualmente il parlamento e il capo del governo, i cittadini consegnerebbero al premier anche un formidabile strumento di pressione nei confronti del parlamento. Di fatto, il capo del governo si troverebbe a disporre del potere di sciogliere le camere. La forma di governo – pur rimanendo formalmente parlamentare – subirebbe un effettivo slittamento verso il presidenzialismo, perché i poteri del premier risulterebbero notevolmente rafforzati. Ma – a differenza di ciò che avviene nel presidenzialismo – verrebbero in gran parte meno pesi e contrappesi, perché si realizzerebbe una sostanziale fusione di esecutivo e legislativo. Con un peso schiacciante del governo sul parlamento.

Modificare alcuni aspetti della carta redatta dai padri costituenti eletti il 2 giugno di settantasette anni fa non deve certo essere un tabù. Ma la sensazione generata dalle prime battute del confronto politico è che, anche per pigrizia intellettuale, si ripropongano vecchie ricette, concepite quando la malattia italiana era l’ingerenza della “partitocrazia”. Oggi il problema dell’instabilità degli esecutivi non è certo tramontato. Anzi, la “transizione” interminabile degli ultimi tre decenni ne ha enfatizzato gli aspetti negativi. Di fronte alla realtà di una democrazia senza partiti, molte delle ricette di riforma avanzate negli anni Ottanta e Novanta rischiano però di rivelarsi scadute. Perché, per molti versi, oggi il problema non è più “scavalcare” i partiti, ma rafforzarli, irrobustendo il loro legame con una società smobilitata. E ricalibrare quel sistema di pesi e contrappesi che rimane l’argine fondamentale per limitare gli effetti più insidiosi della personalizzazione.