di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Mariano Croce e Andrea Salvatore, Cos’è lo stato di eccezione (Nottetempo, pp. 221, euro 16.00), è apparso sul quotidiano "Avvenire" il primo maggio 2022.
Nel 1922, l’allora trentaquattrenne Carl Schmitt diede alle stampe un volumetto sulla dottrina della sovranità dal titolo evocativo (e un po’ criptico) Teologia politica. Non si trattava propriamente di un testo di teoria del diritto, né di una trattazione organica. I quattro capitoli in cui il volume si articolava apparivano infatti legati solo da un filo sottile e ognuno di essi sembrava sviluppare un ragionamento in gran parte autonomo. Nonostante fosse per molti versi un testo meno significativo di quelli che Schmitt avrebbe scritto in quegli stessi anni Venti, quel piccolo libro era destinato a conoscere una fortuna duratura e a introdurre nella discussione nozioni che ancora oggi, un secolo dopo, continuano a orientare l’interpretazione del presente. Alcune delle frasi roboanti di quel testo erano in effetti destinate a identificare la posizione del giurista e a essere lette in seguito quasi come slogan illustrativi della sua posizione. In quelle pagine si leggeva per esempio: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Ma era probabilmente sull’incipit lapidario del libro che si doveva concentrare l’attenzione dei lettori di Schmitt: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione». In effetti, se all’ambito della «teologia politica» si sono rivolti nel tempo molti studiosi, una fortuna davvero singolare è toccata proprio al concetto di «stato di eccezione». E anche nei due anni di pandemia quella nozione è stata spesso adottata per suggerire l’idea che l’emergenza sanitaria abbia fatto precipitare le società occidentali in una condizione di sospensione del diritto, tale persino da rendere le democrazie contemporanee simili ai regimi totalitari del Novecento.
Il
libro di Mariano Croce e Andrea Salvatore, Cos’è lo stato di eccezione (Nottetempo,
pp. 221, euro 16.00), si propone innanzitutto di contrastare le letture che riprendono
la nozione di Schmitt per interpretare la logica dei provvedimenti emergenziali
di oggi. I due studiosi non intendono negare che, a partire soprattutto dall’11
settembre 2001, i provvedimenti di emergenza siano divenuti, sempre più spesso,
strumenti operativi ‘normali’, al punto da mettere in discussione la classica
divisione dei poteri e il ruolo dei parlamenti. Ma puntano piuttosto a contestare
l’utilità del concetto di «stato di eccezione» per classificare e comprendere le
odierne disposizioni di emergenza. E si propongono di farlo mostrando come
nelle pagine di Schmitt il concetto fosse piuttosto evanescente, tanto da
indurre il giurista a liberarsene molto presto, per cercare un fondamento più
solido.
In
effetti, Croce e Salvatore chiariscono come i saggi raccolti in Teologia
politica fossero nati dall’incontro con Max Weber, di cui Schmitt a Monaco aveva
frequentato alcuni seminari (oltre che la famosa conferenza sulla politica come
«professione»). La frase altisonante sullo «stato di eccezione» è così da intendersi
come una sorta di compendio alla riflessione di Weber, relativa in particolare all’idea
che la politica sia identificata dal monopolio legittimo della coercizione. Ma la
Teologia politica era anche uno dei tanti episodi della polemica di
Schmitt contro Hans Kelsen e la sua teoria del diritto. Se per Kelsen era
necessario concepire ogni ordinamento giuridico come fondato su una norma di
base, per Schmitt era invece indispensabile riconoscerne il fondamento politico.
Davvero «sovrano», all’interno di un assetto costituzionale, era dunque il
soggetto capace della decisione sovrana, in grado cioè di sospendere le leggi e
dichiarare l’«eccezione». Ed era per questo che Schmitt poteva sviluppare la
metafora teologica, in cui il sovrano può essere concepito come una divinità in
grado di porre le leggi ma di sottrarsi alla loro vigenza.
Nata
da un intento polemico, l’idea dello «stato di eccezione», come mettono in luce
Croce e Salvatore, apparve però a Schmitt ben presto insoddisfacente. L’idea di
un «decisore» sovrano poteva infatti essere utile per chiarire che la politica
non era interamente riducibile alle norme, ma lasciava senza risposta quesiti
cruciali, relativi per esempio alle condizioni che consentono al «sovrano» di
diventare tale o al rapporto tra l’«eccezione» e la norma. Anzi, il giurista di
Plettenberg divenne consapevole dei rischi impliciti nella visione decisionista,
che tendeva a rappresentare il sovrano come un soggetto capace di imporre con
la forza qualsiasi norma. L’espressione «stato di eccezione» non ricompare d’altronde
negli scritti successivi. E, per trovare un fondamento più solido, Schmitt
abbandonò il decisionismo, approdando a una prospettiva istituzionalista che
assegnava al sovrano il compito di ‘proteggere’ il diritto esistente in una
comunità.
Nel
dibattito successivo proprio questi elementi sono invece stati fraintesi. In
particolare, si è letto lo «stato di eccezione» alla luce della concezione del
«politico» avanzata da Schmitt. La decisione sull’«eccezione» è stata cioè interpretata
come la strategia con cui, grazie alla contrapposizione con un nemico (reale o
inventato), un ordine politico può essere rafforzato o costruito. Sulla scorta
di quanto scriveva Walter Benjamin in una delle sue tesi sulla filosofia della
storia, si è vista così nella proliferazione delle disposizioni emergenziali la
conferma dell’ipotesi che lo «stato di eccezione» diventasse la regola. Ma un
concetto come quello di «eccezione» si rivela, secondo Croce e Salvatore, una
vera e propria lente deformante. Adottando quel concetto, non si è infatti in
grado di riconoscere le diverse modalità in cui l’«emergenza» – politica,
economica, sanitaria – viene effettivamente affrontata. E si finisce col
rimanere imprigionati nelle spire di un concetto claustrofobico, senza riuscire
a cogliere, insieme ai rischi, lo spettro di possibilità che l’emergenza talvolta
può aprire.
Damiano Palano
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