Di Damiano Palano
Alla fine degli anni Cinquanta, nelle pagine per gran parte autobiografiche di Donnarumma all’assalto, Ottiero Ottieri offriva una quasi paradigmatica raffigurazione delle contraddizioni laceranti, e forse persino insolubili, che l’industrializzazione apriva nel contesto sociale e politico del Mezzogiorno italiano. Agli occhi del selezionatore del personale protagonista del romanzo, inviato dal Nord in uno stabilimento da poco inaugurato vicino a Napoli, la contrapposizione tra la fabbrica e il panorama in cui essa si insediava acquistava il valore di uno scontro epocale tra modernità e tradizione. Mentre il paese di Santa Maria diventava il simbolo di un ordine sociale premoderno, ‘naturale’ e all’apparenza immobile, la fabbrica assumeva invece i contorni di «un’attrazione fantastica», un «castello illuminato», «un fine, non uno strumento», inducendo da un lato i dirigenti al «colonialismo» e, dall’altro, i nuovi assunti «all’orgoglio della aristocrazia operaia, la quale ancora più che nel nord taglia i legami con la plebe». Come in una sorta di rovesciamento delle speranze e dei timori di Ottieri, La dismissione di Ermanno Rea, dopo più di quarant’anni dalla pubblicazione di Donnarumma all’assalto, eleva invece una vera e propria elegia non solo per tutti i progetti di «industrializzazione» del Mezzogiorno varati nel corso del cinquantennio postbellico, ma anche per quell’ideologia della modernizzazione che ha raffigurato lo sviluppo politico ed economico nei termini di un progressivo affrancamento dai vincoli comunitari e tradizionali. La dismissione dell’Ilva di Bagnoli, un impianto ciclopico nelle sue proporzioni, che negli anni Settanta occupava circa seimila dipendenti, offre in effetti a Rea l’occasione per un malinconico addio al miraggio dell’industrialismo novecentesco, sconfitto dal riemergere dell’«economia del vicolo», di settori produttivi marginali, dell’economia criminale, e, dunque, dal riaffiorare di quegli stessi elementi che negli anni Cinquanta e Sessanta venivano interpretati soltanto come residui di un passato ormai anacronistico o come segnali di un ‘ritardo’ cronico. In qualche modo, come ha scritto Marco Revelli proprio riflettendo sul romanzo di Rea, la fine dell’Ilva viene a rappresentare, «anche dal punto di vista simbolico, la rivincita dell’esternità caotica sul ‘sistema chiuso’ della razionalità industriale», «il ritorno – fino a pochi anni prima impensabile – della ‘cultura del vicolo’ nei luoghi della precisione tecnica, quasi che, cadute le mura della cittadella, il reticolo melmoso ma vitale del disordine urbano tornasse a far valere le proprie pretese anche lì, un po’ come, nei luoghi delle antiche civiltà decadute, la jungla torna a prendere possesso delle rovine, ricoprendole di liane e licheni».
Preziosi
elementi per una ricostruzione della ‘sconfitta della modernizzazione’ e della
‘rivincita del disordine’, che hanno avuto come teatro alcune delle regioni
meridionali italiane, si trovano ora riuniti in Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo,
recente raccolta dei saggi dedicati al tema da Percy Allum, politologo già
autore di alcune tra le più acute ricerche sul contesto politico napoletano. Il
volume di Allum, oltre a tracciare un «consuntivo» su un cinquantennio di vita
politica, intende stilare anche il bilancio di una più che trentennale ricerca
focalizzata sulle dinamiche politiche partenopee e campane, di cui sono
testimonianza un volume come Politics and
Society in post-war Naples, o come il più recente Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra. Sotto un certo
profilo, perciò, Napoli punto e a capo
– come d’altronde avverte Allum nelle preziose pagine introduttive – deve
essere letto come una sorta di ‘autobiografia’ intellettuale da cui trapelano,
al tempo stesso, le disillusioni sui progetti di modernizzazione della politica
e dell’economia del Mezzogiorno e alcuni – estremamente significativi – rilievi
teorici autocritici. In effetti, il volume non segue soltanto i mutamenti
intervenuti sulla scena italiana e partenopea nell’arco di questo non breve
periodo, ma evidenzia anche gli aggiornamenti di cui sono state oggetto le
categorie analitiche utilizzate e la stessa prospettiva adottata dal
ricercatore, concentrandosi in particolare sulle implicazioni prodotte
dall’esaurimento delle ipotesi sulla modernizzazione elaborate dalla scienza
politica nordamericana negli anni Cinquanta e Sessanta.
I saggi
riuniti in Napoli punto e a capo sono
suddivisi in due grandi sezioni, dedicate rispettivamente agli «aspetti» e agli
«elementi della lotta politica», cui si aggiunge, in una breve appendice, una
riflessione sulle vicende processuali di Giulio Andreotti. In alcuni di questi
scritti, Allum riprende e sviluppa, secondo specifiche varianti, le tesi di
fondo che già avevano costituito il cuore teorico di Potere e società a Napoli nel dopoguerra. Se certo da alcuni di
questi saggi trapelano, insieme alle tensioni dei differenti periodi cui risale
la loro stesura, anche alcune previsioni fin troppo ottimistiche, che i decenni
seguenti non hanno mancato di deludere, le linee portanti della lettura di
Allum conservano ancora gran parte della loro validità. Tra gli elementi di
maggior interesse rimane ad esempio l’indagine della stratificazione di gruppi
sociali che Allum ritiene caratteristica peculiare del contesto partenopeo. La
condizione di ex capitale avrebbe infatti favorito la formazione, dopo
l’unificazione, di una struttura di classe che, «invece di essere piramidale»,
sarebbe stata composta da «due blocchi nel senso gramsciano del termine: da una
parte i proprietari di piccole, medie e qualche grande impresa, legati ai
politici e all’apparato burocratico; dall’altra, il popolino» (p. 29). La
profondità del solco esistente tra questi due blocchi sarebbe stata causata
dalla debolezza dei ceti con funzioni di mediazione sociale e politica. Nella
vecchia capitale del Regno borbonico, infatti, la classe media (benché si
distinguesse dal «popolino» e dal vertice sociale, sotto il profilo del livello
di vita e del prestigio) risultava economicamente dipendente dalle «élite»
cittadine, stabilendo così con queste ultime un legame di alleanza, per così
dire, ‘organico’. L’unificazione italiana, senza mutare sostanzialmente il
quadro, avrebbe contribuito a marcarne ulteriormente alcuni tratti. Secondo
Allum - che riprende in questo caso una tesi risalente almeno a Rosario Romeo -
l’unificazione avrebbe determinato una sorta di «compromesso» tra la classe
dirigente del Nord e quella del Sud, la quale, accettando i principi liberoscambisti,
avrebbe ottenuto «l’appoggio statale per la protezione dei suoi privilegi
locali» (p. 40). Gli orizzonti della classe dirigente meridionale sarebbero
dunque rimasti centrati sulla dimensione locale, in cui affondavano le radici
delle clientele dei notabili. Proprio questo assetto generale, caratterizzato
dall’appoggio statale ai notabili finalizzato a mantenere i privilegi locali,
avrebbe definito il «sistema meridionale», di cui Allum colloca l’età di
massimo fulgore nel cinquantennio compreso tra il 1875 e il 1925. All’indomani
della caduta del fascismo e dell’occupazione alleata - a dispetto della
necessità di rinnovamento della classe politica, sostenuta dai partiti
progressisti e dai meridionalisti più coerenti, come Guido Dorso - il «sistema
meridionale» si sarebbe ricostituito, sebbene in forme differenti rispetto a
quelle di fine Ottocento.
Dopo la
vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del ’46, le élite
meridionali avrebbero compreso che lo status
quo sarebbe stato conservato soltanto grazie all’appoggio della Democrazia
cristiana, anche perché, dopo la scomparsa della monarchia, il Vaticano era
rimasto «il più importante canale istituzionale dello status quo nel paese» (p. 51). L’espulsione di socialisti e
comunisti dalla coalizione governativa fu compensata così dall’ingresso degli
uomini politici liberali del Sud, i quali, secondo Allum, avrebbero concesso
agli operatori economici settentrionali «l’assoluto controllo sulla gestione
della ricostruzione economica» (e soprattutto dei fondi del piano Marshall), in
cambio di un’alleanza politica finalizzata a mantenere l’assetto dei privilegi
consolidati nelle regioni meridionali. Un segnale della nuova alleanza tra la
Dc e i notabili del Sud sarebbe ravvisabile soprattutto nelle vicende dell’Uomo
Qualunque di Guglielmo Giannini, dissolto da De Gasperi grazie a metodi
analoghi a quelli utilizzati dal clientelismo tradizionale. Le elezioni del
’48, con la sconfitta del Fronte popolare e la vittoria della Dc, avrebbero
iniziato a delineare un assetto analogo a quello descritto da Namier per
l’Inghilterra della fine del Settecento. In altre parole, secondo Allum, il
quadro, da allora in avanti, avrebbe compreso quattro forze: «un partito
permanente di governo, o di ‘corte’, la Democrazia cristiana; un partito di
opposizione permanente (il Pci, o il fronte popolare Pci-Psi negli anni Cinquanta);
un gruppo di partiti disposti ad appoggiare il governo (i partiti minori di
coalizione); un gruppo alternativo di partiti disposti ad appoggiare il governo
(i partiti minori all’opposizione della coalizione in essere, ma che sperano di
entrare a far parte della successiva)» (p. 55).
All’interno di
questo assetto sarebbe maturata anche la ridefinizione del vecchio «sistema
meridionale»: se in precedenza la partecipazione al governo aveva rappresentato
la via per utilizzare le istituzioni statali al fine di rafforzare la base
locale delle clientele, con l’avvento dei partiti organizzati di massa il «sistema
meridionale» si sarebbe ricostituito proprio puntando sul livello sempre più
decisivo del partito, e cioè della Dc, all’interno della quale, nelle zone meridionali,
molti dei vecchi notabili e dei loro seguaci riuscirono rapidamente a
conquistare i vertici locali. Nei primi anni del dopoguerra, secondo Allum, si
sarebbe profilata una vera e propria «divisione dei compiti fra uomini di
governo e operatori economici» (p. 94), nel senso che i primi avrebbero
garantito la stabilità politica, mentre i secondi si sarebbero occupati
dell’economia e della ricostruzione. Tale equilibrio sarebbe stato raggiunto
grazie all’espulsione di Pci e Psi, alla garanzia della «pace sociale in
fabbrica», all’organizzazione di un «blocco sociale» anticomunista da parte
della Dc, e alla costruzione, in funzione conservatrice, di «una classe media
burocratica e parassitaria» (p. 94). Nell’analisi di Allum, proprio
quest’ultimo elemento – la spinta a creare un ceto medio «politicamente
conformista perché ricattabile» - sarebbe stato particolarmente evidente
soprattutto nel Mezzogiorno: «Il qui pro
quo di questa linea» - scriveva ad esempio, in un saggio del 1978,
anticipando delle ipotesi sulla logica dell’assistenzialismo che negli anni
Novanta sarebbero state utilizzate all’interno di una prospettiva differente,
seppur non del tutto divergente - «fu una politica di rendita o di sussidi a
favore dei ceti medi, portata avanti in tutti i settori: nelle campagne, per
mezzo di quegli autentici feudi che sono tuttora la Coldiretti e la
Federconsorzi; nella burocrazia, con l’enorme proliferazione degli impieghi
pubblici […]; nell’edilizia, con lo scatenamento della speculazione sui terreni
e sulle abitazioni di lusso e la spinta verso la realizzazione di opere
pubbliche non produttive; infine, con la politica tributaria, che ha favorito i
ceti medi, sia professionisti che piccoli imprenditori, artigiani e commercianti
(p. 95).
Contestualmente,
a livello locale, «a un certo numero di notabili democristiani, per lo più
sottosegretari», era lasciata «mano libera nella gestione in prima persona del patronage – cioè la distribuzione delle
cariche e degli appalti – nelle loro province locali» (ibidem). Un caso
particolare della «ricostituzione del sistema meridionale» sarebbe proprio
quello offerto dalle vicende di Napoli, dove le organizzazioni politiche
«moderne e di massa» sorte nel periodo della ricostruzione furono estremamente
deboli ed incapaci di promuovere una modificazione degli assetti di potere
consolidati. Le dinamiche del capoluogo si distinguerebbero però non solo da
quelle del resto del Meridione, ma anche da quelle del circondario provinciale.
Se infatti nei centri della provincia emersero subito dopo il ’45 i nuovi
notabili democristiani, in città la struttura organizzativa della Dc rimase
estremamente debole, a fronte, invece, del grande consenso detenuto per quasi
un decennio da Achille Lauro. Allum considera però il «laurismo» come uno
strumento utilizzato della stessa Democrazia cristiana. La forza di Lauro si
sarebbe fondata per gran parte sul sostegno di una sorta di «blocco edilizio»,
in cui si aggregavano gli interessi di armatori, «imprenditori edili e piccoli
appaltatori di lavori pubblici, di speculatori e affaristi», che «sfruttavano
il controllo dell’apparato comunale per aggiudicarsi delle concessioni di
approvvigionamento e degli appalti pubblici» (p. 197).. La speculazione
edilizia degli anni della ricostruzione garantiva inoltre benefici a una vasta
manodopera edile, producendo effetti positivi sull’insieme dell’economia cittadina.
Se il decennio
di Lauro, agli occhi di Allum, non rappresentava un’eccezione ma una ‘variante’
della più generale logica di ricostituzione del sistema meridionale, anche il
«gavismo» - e cioè la fase del predominio sulla scena napoletana di Silvio Gava
- viene considerato come la specifica declinazione locale del «doroteismo»
democristiano. La trasformazione della Democrazia Cristiana, durante la
segreteria di Fanfani (1954-1959), avrebbe dato corpo nel Sud al passaggio
verso una nuova forma di clientelismo burocratico, come d’altronde sostenuto
anche da Sidney Tarrow in un suo noto lavoro degli anni Sessanta, Partito comunista e contadini nel
Mezzogiorno. Al fine di rafforzare l’organizzazione democristiana e dare
autonomia al partito, Fanfani avrebbe puntato a costruire una nuova classe
dirigente, grazie a due principali meccanismi: «da una parte s’impadronì
sistematicamente del potere reale a tutti i livelli (centrale, provinciale,
comunale); sul piano locale, ciò significava banche, enti finanziari, apparato
statale, ospedali, enti assistenziali, cioè tutto quanto serviva a procacciare
voti; dall’altra parte, egli valorizzò i funzionari di partito aprendo loro la
porta delle cariche elettive (soprattutto parlamentari), fino a quel momento
riservate esclusivamente ai notabili della più varia provenienza» (p. 100).
L’eccezionalità di Napoli, rispetto a questo scenario, sarebbe consistita più
che altro nella difficoltà per la Dc di conquistare uno spazio di manovra
all’interno della dimensione cittadina, in cui, dopo il decennio di Lauro e
dopo la contrapposizione tra Giovanni Leone e Silvio Gava, proprio quest’ultimo
sarebbe uscito vincitore nel corso degli anni Sessanta, grazie ai due strumenti
del controllo delle tessere (a livello locale) e del «rapporto privilegiato con
il centro del partito» (a livello nazionale). A questo punto, il caso cittadino
di Napoli si allinea sostanzialmente al quadro nazionale configurato dal
successo del doroteismo nelle regioni meridionali, un quadro da cui il partito
emerge come una sorta di federazione di «macchine politiche provinciali». Come
notava Allum nel ’78: «Negli anni Sessanta il potere locale in Campania è
saldamente nelle mani della Dc, concentrato in blocchi di potere nelle cinque
province, variamente nominati, ma gestiti in maniera identica, con composizione
differente a seconda della popolazione, ma che fanno perno intorno agli
imprenditori edili, professionisti e funzionari, ai commercianti, artigiani,
contadini e al popolo minuto. Ne rimangono fuori i ‘nostalgici’, i
professionisti e impiegati a destra, e gli intellettuali radicali, il grosso
della classe operaia e una parte del bracciantato contadino a sinistra» (p.117).
Nei saggi
risalenti agli Settanta, Allum intravedeva nelle mobilitazioni collettive di
quel decennio, nelle prese di posizione maturate in occasione della crisi del
«colera», nel ‘73, e nella vittoria delle forze di sinistra alle elezioni
amministrative del 15 giugno ’75 (che condusse alla formazione di una giunta
«rossa»), i segnali di una inversione di rotta in grado di incrinare le basi
ormai secolari del sistema meridionale. A distanzia di più di un quindicennio,
negli scritti più recenti, pubblicati dopo la fine della cosiddetta ‘Prima
Repubblica’ e dopo la dissoluzione della Democrazia Cristiana, la portata di
molti di quei segnali viene notevolmente ridimensionata dal politologo, che
mette in evidenza tanto l’impreparazione con cui le forze di sinistra giunsero
al governo della città, quanto i nuovi elementi che, tra la fine degli anni
Settanta e l’inizio del nuovo decennio, vennero a ridefinire ulteriormente il
contesto napoletano e campano, determinando anche una svolta nei rapporti tra
politica e criminalità. Per quanto la ‘fine giudiziaria’ della Prima Repubblica
sia probabilmente destinata ad alimentare ancora a lungo polemiche piuttosto
vivaci e letture politiche opposte, molte delle ipotesi avanzate da Allum non
sembrano contestabili nella loro sostanza, anche se certo alcuni nodi
interpretativi rimangono tuttora da sbrogliare. È però lo stesso Allum, nelle
pagine introduttive del volume, a segnalare al lettore la problematicità di
taluni presupposti teorici adottati soprattutto nei primi saggi.
Ad
essere oggetto dei rilievi autocritici del politologo è soprattutto l’impianto
analitico che aveva fornito la griglia interpretava di Potere e società a Napoli nel dopoguerra, un impianto che, mutuando
dalla sociologia tedesca la classica distinzione tönniesiana tra Gemeinschaft e Gesellschaft, aveva inteso il processo di modernizzazione nei
termini di un movimento dal modello di organizzazione comunitaria a un modello
di organizzazione integralmente sociale. Come Allum aveva scritto nella presentazione
allo studio del ’73, illustrando lo «schema di polarità sociale» utilizzato per
analizzare il contesto napoletano, la Geimeinschaft
doveva essere intesa come «una formazione sociale basata sui sentimenti, nella
quale ciascun individuo considera ogni altro individuo come fine a se stesso,
lo conosce personalmente e divide con lui grandissima parte della vita privata»,
mentre la Gesellschaft rappresentava
«la formazione sociale basata sull’interesse, in cui l’individuo considera gli
altri come mezzi, non li conosce personalmente e condivide con essi solo la sua
vita esteriore» (P. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra,
Einaudi, Torino 1975, p. 8). A questa
prima dicotomia, Allum aggiungeva una ulteriore contrapposizione, formulata a
partire da sollecitazioni marxiane e weberiane, e centrata sulle modalità della
coercizione politica. In questo caso, distingueva allora tra «modelli di
autorità o di dominazione a carattere personale (patriarcato e direzione
carismatica) e quelli di tipo organizzativo o istituzionale (burocrazia e
riduzione del carisma a un fatto puramente meccanico e abitudinario)»,
istituendo allora una nuova coppia dicotomica costituita, da un lato, dal
«dominio personale» e, dall’altro, dal «dominio organizzativo» (ibi, p.
11). Se il passaggio dalla Gemeinschaft alla
Gesellschaft implicava, in linea
generale, una transizione da forme di dominio personali a forme organizzative
e, sul piano politico, dal predominio dei notabili a quello dei partiti di
massa, Allum individuava in realtà delle tipologie intermedie, «di
transizione», tra cui collocava soprattutto l’organizzazione con al centro il
«boss politico», «un imprenditore della politica, che raccoglie voti a proprio
vantaggio e a proprio rischio» (ibi, p 14).
Naturalmente,
la realtà politica napoletana si prestava, per molti versi, ad essere
incasellata nella tipologia intermedia delle società di transizione, e in
effetti Allum incentrava la propria analisi sull’idea dell’ancora irrisolto
equilibrio tra Gemeinschaft e Gesellschaft, che avrebbe caratterizzato
il «sistema meridionale». «Il fondamento del sistema meridionale», scriveva a
questo proposito, «è da ricercare nell’incoerenza esistente, nel Sud, fra le
norme della Gesellschaft, proprie del
sistema statale, e i valori della società locale, ispirati a quelli della Gemeinschaft» (ibi, p. 405). Lo
squilibrio di fondo tra elementi della Gemeinschaft
locale e la logica statale della Gesellschaft
avrebbe determinato la formazione di un peculiare rapporto tra politica e
società, per cui si sarebbe rivelato essenziale il ruolo del partito politico,
a livello nazionale, e delle clientele, a livello locale. In sostanza, secondo
la sintesi di Allum: «gli uomini politici sono incapaci di ottenere l’appoggio
spontaneo di vasti strati della popolazione, e sono costretti a ricorrere ad
altri mezzi. In termini gramsciani, gli uomini politici sono incapaci di
esercitare l’egemonia della società civile e si vedono costretti a ricorrere
alla coercizione statale. […] In tali condizioni, la società civile locale è
debole e disarmata di fronte allo stato, che gode di un potere quasi assoluto
in tutti i settori della vita pubblica e privata. L’uomo politico considera suo
compito specifico distribuire alle masse bisognose alcune briciole delle
risorse statali. […] In cambio l’elettore impara a dargli il voto il giorno
delle elezioni, e ciò mette il politico in una posizione di forza. Egli diventa
un intermediario: più grande è il suo potere, maggiore sarà il numero dei
clienti che potrà sperare di soddisfare, e più vasta sarà la sua clientela (ibi,
pp. 408-409).
In
realtà, la proposta di Allum era accompagnata da una serie di cautele teoriche
che inducevano ad esempio il politologo ad avvertire che il passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft «non significa l’assoluta scomparsa degli elementi e
delle caratteristiche dell’uno a favore dell’altro, ma piuttosto uno spostamento
di equilibrio interno negli elementi propri di entrambi i tipi» (ibi, p.
6). A trent’anni di distanza, nell’Introduzione
di Napoli punto e a capo, Allum
si sofferma però su una netta – anche se non totale – critica di questa
impostazione. In effetti, scrive, «il mio schema ha concesso troppo spazio alla
transizione, senza essere in grado di specificare i rapporti sia con il passato
che quelli ipotetici con l’avvenire. Va detto che, in un certo senso, la
polarizzazione dei modelli ideal-tipici opera in modo che, se applicata alla
realtà concreta, tutte le situazioni si definiscono come transizionali. […] La
differenza tra dominio personale e dominio organizzativo mancava di
specificità: ed è il minimo che si può dire. D’altronde, lo schema non
specificava a sufficienza l’incidenza del fattore politico, cui peraltro è
stato dato gran risalto nell’analisi empirica, e tendeva a sottovalutarlo. Per
esempio, è chiaro che il cambiamento del blocco di potere dominante a Napoli
[…] è avvenuto tramite manipolazioni politiche che avevano ben poco a che fare
con i mutamenti nelle relazioni economico-sociali» (ibi, p. 6).
In
questa prospettiva, che costituiva una specifica declinazione della teoria
della modernizzazione, il clientelismo era concepito «come un ‘residuo’ della
tradizione e un ‘ostacolo’ tanto all’istituzionalizzazione dell’autorità intesa
come legittimazione delle istituzioni stesse, quanto al radicarsi del
cosiddetto ‘senso civico’ collettivo, tutti elementi di fondo della ‘modernità’
politica», mentre risultavano così trascurate «le modalità di adattamento dei
rapporti clientelari alla presenza dei partiti politici e alla crescita dello
Stato del benessere» (ibi, p. 7).
Ripensando
il ruolo stesso del clientelismo, Allum viene ora a collocarne la genesi
all’interno di una intricata rete di relazioni, in cui emergono come decisive
soprattutto le dinamiche di estensione della partecipazione elettorale. In
particolare, riprendendo una tesi di Martin Shefter, Allum suggerisce che una variabile
significativa sia costituita dalla ricettività delle autorità statali alle
richieste individuali dei politici, ovvero dalle modalità con cui i processi di
professionalizzazione della pubblica amministrazione e di democratizzazione
sono stati realizzati. Ed è in questa chiave che Allum ripensa anche alla natura
della Dc. In questo senso, risultano significativi soprattutto due saggi – I due volti della Dc (1995) e La Dc a Napoli: l’ultima fase (1998) –
in cui Allum, oltre a riprendere le ipotesi già esposte, sostiene che la
Democrazia Cristiana si configurasse come una sorta di sintesi tra i due tipi,
individuati da Duverger, del «partito di massa» e del «partito di quadri».
Nella sua fase originaria, De Gasperi aveva concepito la Dc come un partito di
governo, e si era così concentrato esclusivamente sulla costruzione del vertice
politico nazionale, perché la struttura di base cui poggiarsi era offerta dalla
rete capillare delle parrocchie. Essa fu dunque, al tempo stesso, un «partito
parlamentare laico – considerato come strumento di governo» e un «movimento di
massa confessionale – in qualità di macchina elettorale» (P. Allum, Napoli punto e a capo, cit., p. 128). Questi
«due volti» avrebbero implicato, per la Dc, l’esistenza di due tipi differenti
di legame: «quello che vincola la Chiesa agli elettori attraverso
l’intermediazione della religione e della fede; quello che lega lo Stato e gli
elettori attraverso l’intermediazione e la distribuzione clientelare delle
risorse» (ibi, p. 129). Questa stessa dicotomia spiegherebbe inoltre
anche la diversità dell’organizzazione democristiana al Sud e al Nord. Mentre
al Nord la Dc si strutturò effettivamente sulla rete delle parrocchie, sotto il
controllo della gerarchia ecclesiastica locale, al Sud essa si articolò attorno
alle reti clientelari dei notabili e dei loro seguaci. La ristrutturazione
fanfaniana, puntando a scalzare i vecchi notabili, dovette trovare nello Stato
le risorse dei nuovi «boss» locali, su cui nel decennio doroteo si sarebbe
fondato il «consorzio di macchine politiche provinciali». Un processo analogo
si sarebbe prodotto anche al Nord, ma con un decennio di ritardo, in seguito al
processo di secolarizzazione e al nuovo indirizzo assunto dal Concilio Vaticano
II. Queste dinamiche avrebbero progressivamente condotto all’affermazione di un
nuovo tipo di politico professionista e anche a una nuova logica operativa, che
sarebbe giunta a maturazione negli anni Ottanta. «La mia tesi», scrive Allum, «è
che i due volti della Dc, quello settentrionale e quello meridionale, si sono
in un certo senso unificati: in una prima fase si è passati dai notabili alle
macchine politiche nel Sud e dal movimento di massa alle politiche nel Nord
(anni Cinquanta-Sessanta); in una seconda fase, è stata la volta del trionfo
delle macchine politiche nel Nord e delle macchine politico-criminali nel Sud
(anni Ottanta); entrambi, infine, sono giunti all’appuntamento con Mani pulite
(anni Novanta)» (ibi, p. 20).
Il
«punto debole del potere democristiano», secondo Allum, consisteva nel fatto
che «esso non si fondava tanto sulla legittimazione ma sul consenso»: si
trattava piuttosto, come scrive, «di un sistema di potere clientelare per cui
se, come è noto, voti e appoggi politici si possono comperare, lo stesso non
vale per la legittimazione» (ibi, p. 179). Basandosi sulla «continua
disponibilità di fonti finanziarie elargite dal centro a cui attingere», il
sistema di potere democristiano sarebbe così entrato in una fase di crescenti
difficoltà in coincidenza con l’esaurimento del ciclo di crescita degli anni
Sessanta, con l’esplosione della crisi fiscale e, dunque, con la pressante
necessità di contenere l’incremento degli esborsi pubblici. Se questa
situazione determinò, in un primo tempo, la lotta tra le correnti per
l’accaparramento delle risorse pubbliche improvvisamente ridottesi, oltre che
la sconfitta elettorale della Dc al Comune di Napoli, in un secondo momento
indusse una riarticolazione delle reti clientelari democristiane. Proprio a
cavallo tra i due decenni, d’altra parte, la crisi della Dc si incontrò con le
trasformazioni che stavano attraversando il mondo criminale campano, con, da un
lato, l’irrobustirsi dei rapporti tra le vecchie famiglie camorriste e la mafia
siciliana, e, dall’altro, l’emergere di una struttura estremamente originale,
nel contesto partenopeo, come la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Lo scontro tra le differenti componenti della criminalità e la trasformazione
della Dc trovarono un punto di congiunzione nelle vicende legate al caso
Cirillo, in occasione del quale i Gava, secondo Allum, avrebbero stretto, con
la Nuova Mafia Campana di Carmine Alfieri, relazioni destinate a incidere
pesantemente nel decennio successivo. In effetti, Allum individua un
cambiamento di natura qualitativa proprio tra gli anni Settanta e Ottanta, in
coincidenza con l’afflusso dei finanziamenti finalizzati alla ricostruzione
post-sismica, che avrebbe condotto a un rapporto tra politica e criminalità
molto più stretto di quello esistente nei decenni precedenti. Scrive Allum: «Siffatti
rapporti tra camorra e politica negli anni Cinquanta erano largamente saltuari
e avevano una base individuale, cioè erano legami tra singoli guappi e singoli
uomini politici. Inoltre, […] la camorra era sempre subordinata alle autorità
pubbliche. All’inizio degli anni Novanta, ciò non accadeva più, perché era
stato stretto un patto di ferro tra i mondi criminale e politico, divenuti
partner alla pari» (ibi, p. 190).
Proprio
in questo periodo, sostiene Allum, si sarebbe assistito anche «a un importante
cambiamento nella politica meridionale della Dc; i nuovi leader politici, […]
si affrancano progressivamente da una logica di partito collettiva», mentre per
molti dirigenti la politica diventa «soprattutto un ‘affare’, perdendo la sua
dimensione progettuale e ideologica» (p. 146). Questo ceto politico, emerso in
occasione della gestione della ricostruzione postsismica, si sarebbe inoltre caratterizzato
anche per la «volontà di assurgere a un ruolo di dirigenza nazionale» (p. 189).
Tanto il ceto politico, quanto l’esistenza di un «consorzio di macchine clientelar-criminali
personali», secondo Allum, non sarebbero stati d’altra parte elementi caratteristici
esclusivamente della Dc. «Questa organizzazione clientalar-criminale», nota
infatti al termine di uno dei saggi più recenti, «non si è limitata alla sola
Dc. Tutti i partiti del pentapartito hanno partecipato, ed è per questo che si
è parlato di partito trasversale e di partito unico della spesa pubblica, i cui
capi, oltre a Gava, Scotti e Pomicino, erano Di Donato e Conte del Psi» (p.
166).
Insieme
alla lettura delle trasformazioni politiche a Napoli, il lavoro di Allum offre
un contributo importante per iniziare a riflettere, più ancora che sulle
‘scommesse perdute’ dell'industrializzazione nel Mezzogiorno, sulla stessa
inefficacia delle categorie teoriche elaborate negli anni Cinquanta e Sessanta
e sulla necessità di elaborare categorie nuove, in cui tradizione e
'modernità', Gemeinschaft e Gesellschaft, non siano intese come gli
estremi di una polarità sociale e temporale, ma, piuttosto, come gli elementi
costituitivi – seppur in misura differente – del processo di modernizzazione.
Sotto questo profilo, richiamando l’efficace immagine della «mosca nella
bottiglia», Allum ricorda come proprio la concezione postbellica della
modernizzazione avesse finito col rappresentare una barriera ideologica estremamente
robusta. «Concepita in modo meccanicistico», scrive, «la ‘modernizzazione’ (di
cui la crescita economica costituiva il punto chiave) sarebbe consistita in una
serie di fasi di sviluppo, che avrebbero condotto inesorabilmente alla società
industriale, dopo una riforma agraria, migrazioni della campagna alle città e
l’avvio delle prime attività industriali», mentre, al tempo stesso, «una
concezione struttural-funzionalista,
direttamente legata alla convinzione della centralità del progresso economico»,
suggeriva che lo «sviluppo economico avrebbe portato alla trasformazione della
struttura sociale, ovvero alla formazione di classi moderne (operai, tecnici
eccetera) a scapito dei ceti tradizionali (contadini, artigiani, commercianti)»
(pp. 11-12). Il tramonto di quella teoria della modernizzazione – insieme ai
processi che paiono segnare la conclusione della parabola dell’industrialismo
novecentesco – implica, per molti versi, come suggerisce la stessa riflessione
di Allum sui «due volti» della Dc, un rovesciamento, o quantomeno una
ridiscussione, dell’idea della subordinazione della politica alle
trasformazioni della società e dell’economia. Se quella immagine della
modernizzazione - non diversamente, in fondo, da quanto avveniva nella
raffigurazione delle relazioni tra base e sovrastruttura proposte dal marxismo
ortodosso – concepiva quanto si svolgeva sul terreno politico esclusivamente
come un riflesso dei mutamenti che si producevano al livello sociale ed
economico, e se in questa chiave lo stesso clientelismo appariva semplicemente
come il portato di un ‘ritardo’ nell’evoluzione sociale, le riflessioni
autocritiche di Allum e le correzioni di rotta implicate dai suoi studi più
recenti invitano proprio a rovesciare – almeno in parte – la relazione tra il
livello politico, da un lato, e, dall’altro, la struttura sociale ed economica.
In questo senso, ad esempio, vengono riconosciuti al clientelismo, al partito
e, più in generale, alla dimensione politica, non soltanto una rilevante
‘autonomia’ nei confronti delle relazioni tra gruppi sociali e soggetti
economici, ma soprattutto un significativo potere ‘costitutivo’, e cioè il
potere di intervenire, grazie alla leva dell’intervento pubblico, sulla
società, ‘strutturandola’ e, in alcuni casi, creando anche le basi per peculiari
– e persino ‘virtuose’ – dinamiche di sviluppo.
Non
è probabilmente casuale che a indirizzare Allum verso questa parziale revisione
delle proprie originarie ipotesi siano state le ricerche condotte sul caso
veneto, e cioè su un contesto caratterizzato – come la Campania e Napoli – dal
forte radicamento della Dc. A dispetto di alcune analogie tra il contesto veneto
e quello napoletano – come il predominio politico democristiano, l’esclusione
dalle zone centrali dello sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta, alcuni
caratteri di zona economicamente ‘depressa’, la presenza dell’industria di
Stato, ecc. – l’esplosione del nuovo boom
del Nord-Est, in coincidenza con i processi di ristrutturazione degli anni
Ottanta e la diffusione della micro-imprenditorialità, ha delineato una
traiettoria per molti versi opposta rispetto a quello partenopea, mostrando come
la presenza di reti clientelari possa anche contribuire (o non ostacolare)
l'emergere di dinamiche virtuose di sviluppo. Per quanto alcune versioni
probabilmente sin troppo apologetiche abbiano presentato la rinascita economica
del Veneto come una sorta di esplosione ‘spontanea’, maturata nel tessuto della
società civile e delle tradizioni comunitarie, sarebbe ingenuo trascurare il
ruolo che proprio il livello politico – e, dunque, quella forma di gestione
clientelare ramificatasi anche nel Nord-Est tra la fine degli anni Settanta e
gli anni Ottanta – giocò nella nuova ‘strutturazione’ della società e del
mercato del lavoro in quel periodo. E, benché la protesta leghista dei primi
anni Novanta sia stata talvolta raffigurata nei termini di una rivolta della ‘società’
contro la ‘politica’, sarebbe riduttivo dimenticare le radici ‘politiche’ alla
base tanto dello sviluppo del Veneto, quanto, più in generale, della fortuna
della ‘Terza Italia’.
Imboccando
proprio la strada di un ripensamento delle tradizionali immagini della
subordinazione della politica all’economia e alla struttura sociale, anche
alcune delle recenti riflessioni sul capitale sociale sembrano offrire primi
importanti elementi per l’elaborazione di nuove ipotesi teoriche. A dispetto di
argomentazioni forse talvolta discutibili (come ad esempio nel caso, ormai
celebre, delle radici quasi millenarie della cultura civica, individuate da
Robert Putnam in alcune regioni italiane), la teoria del capitale sociale
suggerisce di cercare nelle relazioni associative, nei vincoli consolidati,
nelle tradizioni comunitarie, le basi per dinamiche di sviluppo la cui logica
di fondo non pare direttamente riconducibile al modello novecentesco della
razionalità strumentale. In questo senso, quel modello dicotomico che Tönnies
aveva elaborato per descrivere il transito storico dalla comunità tradizionale
alla società industriale - e che aveva costituito lo schema al centro delle
prime ricerche di Allum - sembra piuttosto indicare modalità relazionali che
continuano ad esistere – e non sempre contrapponendosi – anche nella società
‘postindustriale’. Se il riaffiorare della dimensione comunitaria può persino
confermare l’idea di due tipologie del vincolo sociale tra loro irriducibili e
in costante equilibrio dinamico, alcune delle riflessioni sul capitale sociale
tendono invece a procedere in una direzione differente, in cui proprio la
componente politica sembra svanire. Benché puntino lo sguardo sulla componente
relazionale, alcuni ricercatori, soprattutto nelle indagini empiriche, sembrano
sciogliere il capitale sociale in relazioni esclusivamente di tipo
‘orizzontale’, trascurando i rapporti ‘verticali’ di sovra e subordinazione e
finendo così col rappresentare lo sviluppo economico in armonia con la crescita
di uno ‘spirito civico’ dai contorni fin troppo discutibili. In questo senso, è
probabile che questo rischio possa essere evitato proprio proseguendo sulla
strada indicata dalle ricerche di Allum sul clientelismo, e cioè ricostruendo
tanto le modalità con cui il clientelismo si adegua alle nuove condizioni
politiche ed istituzionali della ‘Seconda Repubblica’, quanto il ruolo che esso
gioca nella ‘strutturazione’ dei rapporti sociali ed economici anche nella
società postindustriale. E non è affatto improbabile che, battendo questa via,
non si arrivi a riconoscere una fitta e resistente rete di vincoli clientelari
di obbedienza e soggezione persino dentro il cuore più ‘moderno’ e ‘razionale’
della net economy.
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