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venerdì 25 marzo 2022

Martin Wight, la legge della giungla e il realismo di un pacifista cristiano. Pubblicati "Politica di potenza" e "Sistemi di Stati", a cura di Michele Chiaruzzi


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Martin Wight, Politica di potenza e Sistemi di Stati (Le due Rose) è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 24 marzo 2022. 

Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, Martin Wight non aveva ancora compiuto ventisei anni. Destinato a essere ricordato come il fondatore della «Scuola Inglese» di Relazioni Internazionali, era nato infatti a Brighton nel 1913. Dopo avere studiato storia moderna a Oxford, aveva proseguito le sue ricerche per alcuni anni presso Chatham House, il celebre centro di studi sulla politica estera allora diretto da Arnold Toynbee, per poi cominciare a insegnare in un college vicino a Londra. Membro della Chiesa d’Inghilterra, aveva ben presto maturato posizioni antimilitariste, condensate in uno dei suoi primi scritti, dedicato al «pacifismo cristiano». E al momento della chiamata alle armi, indirizzò alle autorità militari una richiesta di obiezione di coscienza, sorretta proprio dalle considerazioni esposte alcuni anni prima. La domanda fu respinta, ma, a causa dei suoi problemi di salute, Wight non dovette imbracciare le armi, perché venne destinato a lavori di ricerca sulle colonie britanniche. Subito dopo la guerra, pubblicò un piccolo libro sulla Politica di potenza, ora tradotto italiano e raccolto, insieme a Sistemi di Stati, in un volume curato da Michele Chiaruzzi (Le due rose, pp. 296). Quel saggio era per molti versi il frutto della revisione delle precedenti posizioni pacifiste. Ma segnava anche l’approdo a un realismo ‘moderato’.

Il contributo di Wight è considerato ancora oggi importante soprattutto per il suo approccio «classico», in netto contrasto con gli orientamenti della politologia nord-americana. Negli anni Quaranta e Cinquanta, le nuove scienze sociali ambivano infatti a conquistare linguaggi e metodi simili a quelli delle scienze «dure» e a tagliare i ponti con la vecchia tradizione degli studi politici. Da una posizione defilata, Wight difese invece l’importanza dei classici, perché era persuaso che la politica internazionale tendesse a riproporre ciclicamente quei dilemmi con cui già altri pensatori si erano confrontati, fornendo soluzioni che non potevano essere trascurate. E contro il riduzionismo di molti politologi sostenne dunque l’importanza di una prospettiva nutrita di un ampio bagaglio di conoscenze storiche, filosofiche e giuridiche. L’esempio emblematico era proprio rappresentato dal concetto di «sistema internazionale». Molti politologi andavano infatti alla ricerca di «leggi» oggettive, volte a spiegare il comportamento degli Stati come conseguenza pressoché automatica di un determinato assetto del «sistema». Nei suoi studi – per esempio in Sistemi di Stati, un testo incompiuto e pubblicato postumo – Wight mostrò invece che la politica internazionale poteva essere compresa solo ricostruendo il complesso mosaico (filosofico, giuridico e culturale) all’interno del quale gli operatori politici compivano le loro scelte. Il «sistema» moderno degli Stati doveva dunque essere considerato come un assetto connotato da caratteristiche specifiche, definitesi in un ben preciso momento storico, all’interno di un determinato contesto culturale e dentro un perimetro di regole diplomatiche e di norme giuridiche. Più che come un sistema propriamente «anarchico», doveva dunque essere concepito come una sorta di «società», divisa da rivalità ma accomunata da una visione dell’interesse comune.

Per le sue posizioni, Wight è stato inoltre considerato, insieme a Reinhold Niebuhr e a Herbert Butterfield, uno dei protagonisti del «momento agostiniano» nello studio della politica internazionale.  Il suo “realismo” – seppur in modo meno esplicito che in Niebuhr – sembra infatti ispirarsi alla concezione della politica delineata dagli scritti del vescovo di Ippona. Certo Wight rimane ben lontano dalla dottrina della «Machtpolitik», che, presentando come «oggettiva» una certa visione del mondo, finisce col legittimare (più o meno esplicitamente) condotte aggressive e tendenze espansioniste. Egli procede piuttosto dalla convinzione che la «realtà» della politica sia incardinata in una serie di regolarità che vanno innanzitutto comprese, per evitare che il perseguimento di astratte mete ideali possa generare conseguenze disastrose. «Il realismo», scrisse per esempio, «può essere un’ottima cosa: tutto dipende dal fatto che significhi l’abbandono di alti ideali o di folli aspettative».

Il saggio Politica di potenza mostra proprio la fisionomia di questo realismo ‘moderato’. Leggendo quelle pagine si può senza dubbio riconoscere l’impronta che la guerra mondiale lasciò sulle convinzioni del radicale pacifista cristiano degli anni Trenta. Durante il conflitto Wight si era infatti persuaso che il dovere del cristiano non andasse più nella direzione della testimonianza di un pacifismo assoluto, ma richiedesse un’analisi realistica delle dinamiche di potere. Compilando quasi una sorta di dizionario, Wight cercò dunque di chiarire il significato da attribuire a espressioni come «grande potenza», «anarchia internazionale», «interessi vitali», «prestigio» ed «equilibrio». E si chiese se la logica della politica potesse incontrare nel mondo contemporaneo un limite analogo a quello che la dottrina del diritto naturale aveva rappresentato, fino al Seicento, per la comunità europea degli Stati: un ethos comune, fondato sulla condivisione di una tradizione morale. Ritrovava così nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite le tracce di un possibile comune criterio di giustizia e di reciproca obbligazione. Ma invitava a non farsi illusioni eccessive sui solenni impegni assunti dagli Stati. «L’umanità ha sempre tradito i propri obblighi», scriveva, anche se – ricordava, citando Julien Benda - «fintanto che continua a riconoscerli e a crederci, la crepa per la quale la civiltà può passare è ancora aperta». E proprio nella possibilità che le potenze si allontanassero dal perseguimento dei loro interessi vitali, per volgersi verso quelli comuni, risiedeva in fondo «la differenza fra la giungla e le tradizioni dell’Europa».

Damiano Palano

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