di Damiano Palano
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, Martin Wight non aveva ancora compiuto ventisei anni. Destinato a essere ricordato come il fondatore della «Scuola Inglese» di Relazioni Internazionali, era nato infatti a Brighton nel 1913. Dopo avere studiato storia moderna a Oxford, aveva proseguito le sue ricerche per alcuni anni presso Chatham House, il celebre centro di studi sulla politica estera allora diretto da Arnold Toynbee, per poi cominciare a insegnare in un college vicino a Londra. Membro della Chiesa d’Inghilterra, aveva ben presto maturato posizioni antimilitariste, condensate in uno dei suoi primi scritti, dedicato al «pacifismo cristiano». E al momento della chiamata alle armi, indirizzò alle autorità militari una richiesta di obiezione di coscienza, sorretta proprio dalle considerazioni esposte alcuni anni prima. La domanda fu respinta, ma, a causa dei suoi problemi di salute, Wight non dovette imbracciare le armi, perché venne destinato a lavori di ricerca sulle colonie britanniche. Subito dopo la guerra, pubblicò un piccolo libro sulla Politica di potenza, ora tradotto italiano e raccolto, insieme a Sistemi di Stati, in un volume curato da Michele Chiaruzzi (Le due rose, pp. 296). Quel saggio era per molti versi il frutto della revisione delle precedenti posizioni pacifiste. Ma segnava anche l’approdo a un realismo ‘moderato’.
Il
contributo di Wight è considerato ancora oggi importante soprattutto per il suo
approccio «classico», in netto contrasto con gli orientamenti della politologia
nord-americana. Negli anni Quaranta e Cinquanta, le nuove scienze sociali
ambivano infatti a conquistare linguaggi e metodi simili a quelli delle scienze
«dure» e a tagliare i ponti con la vecchia tradizione degli studi politici. Da
una posizione defilata, Wight difese invece l’importanza dei classici, perché
era persuaso che la politica internazionale tendesse a riproporre ciclicamente
quei dilemmi con cui già altri pensatori si erano confrontati, fornendo soluzioni
che non potevano essere trascurate. E contro il riduzionismo di molti
politologi sostenne dunque l’importanza di una prospettiva nutrita di un ampio
bagaglio di conoscenze storiche, filosofiche e giuridiche. L’esempio
emblematico era proprio rappresentato dal concetto di «sistema internazionale».
Molti politologi andavano infatti alla ricerca di «leggi» oggettive, volte a spiegare
il comportamento degli Stati come conseguenza pressoché automatica di un determinato
assetto del «sistema». Nei suoi studi – per esempio in Sistemi di Stati,
un testo incompiuto e pubblicato postumo – Wight mostrò invece che la politica
internazionale poteva essere compresa solo ricostruendo il complesso mosaico (filosofico,
giuridico e culturale) all’interno del quale gli operatori politici compivano
le loro scelte. Il «sistema» moderno degli Stati doveva dunque essere
considerato come un assetto connotato da caratteristiche specifiche, definitesi
in un ben preciso momento storico, all’interno di un determinato contesto
culturale e dentro un perimetro di regole diplomatiche e di norme giuridiche. Più
che come un sistema propriamente «anarchico», doveva dunque essere concepito come
una sorta di «società», divisa da rivalità ma accomunata da una visione dell’interesse
comune.
Per le sue posizioni, Wight è stato inoltre considerato, insieme a Reinhold Niebuhr e a Herbert Butterfield, uno dei protagonisti del «momento agostiniano» nello studio della politica internazionale. Il suo “realismo” – seppur in modo meno esplicito che in Niebuhr – sembra infatti ispirarsi alla concezione della politica delineata dagli scritti del vescovo di Ippona. Certo Wight rimane ben lontano dalla dottrina della «Machtpolitik», che, presentando come «oggettiva» una certa visione del mondo, finisce col legittimare (più o meno esplicitamente) condotte aggressive e tendenze espansioniste. Egli procede piuttosto dalla convinzione che la «realtà» della politica sia incardinata in una serie di regolarità che vanno innanzitutto comprese, per evitare che il perseguimento di astratte mete ideali possa generare conseguenze disastrose. «Il realismo», scrisse per esempio, «può essere un’ottima cosa: tutto dipende dal fatto che significhi l’abbandono di alti ideali o di folli aspettative».
Il
saggio Politica di potenza mostra proprio la fisionomia di questo
realismo ‘moderato’. Leggendo quelle pagine si può senza dubbio riconoscere l’impronta
che la guerra mondiale lasciò sulle convinzioni del radicale pacifista cristiano
degli anni Trenta. Durante il conflitto Wight si era infatti persuaso che il
dovere del cristiano non andasse più nella direzione della testimonianza di un
pacifismo assoluto, ma richiedesse un’analisi realistica delle dinamiche di
potere. Compilando quasi una sorta di dizionario, Wight cercò dunque di
chiarire il significato da attribuire a espressioni come «grande potenza»,
«anarchia internazionale», «interessi vitali», «prestigio» ed «equilibrio». E
si chiese se la logica della politica potesse incontrare nel mondo contemporaneo
un limite analogo a quello che la dottrina del diritto naturale aveva
rappresentato, fino al Seicento, per la comunità europea degli Stati: un ethos
comune, fondato sulla condivisione di una tradizione morale. Ritrovava così nel
preambolo della Carta delle Nazioni Unite le tracce di un possibile comune
criterio di giustizia e di reciproca obbligazione. Ma invitava a non farsi
illusioni eccessive sui solenni impegni assunti dagli Stati. «L’umanità ha
sempre tradito i propri obblighi», scriveva, anche se – ricordava, citando
Julien Benda - «fintanto che continua a riconoscerli e a crederci, la crepa per
la quale la civiltà può passare è ancora aperta». E proprio nella possibilità
che le potenze si allontanassero dal perseguimento dei loro interessi vitali,
per volgersi verso quelli comuni, risiedeva in fondo «la differenza fra la
giungla e le tradizioni dell’Europa».
Damiano Palano
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