domenica 13 febbraio 2022

Il futuro della politica. Un testo inedito di Gianfranco Miglio dal nuovo numero della “Rivista di Politica” (4/2021)



di Gianfranco Miglio

Questo testo è tratto da uno dei contributi di Gianfranco Miglio che sono pubblicati sul nuovo numero della “Rivista di Politica”, interamente dedicato allo studioso comasco a vent’anni dalla scomparsa. Nel fascicolo – intitolato «La passione del realismo. Gianfranco Miglio (1918-2001)» – sono ospitati saggi di Damiano Palano, di Michele Gimondo e di Matteo Bozzon e Giovanni Comazzetto, rivolti ad alcuni aspetti della riflessione Miglio, oltre a una ricca sezione in cui sono proposti testi inediti o ripubblicati lavori dimenticati, che offrono elementi preziosi per ricostruire un itinerario intellettuale più articolato di quanto si sia spesso pensato. Il testo che segue è tratto da una conferenza tenuta nel 1989.

[…] È tempo che io chiarisca un po’ quelle che sono le mie vedute circa il possibile avvenire. La premessa è che tutti i cambiamenti dei sistemi istituzionali, nella storia dell'animale-uomo, sono venuti da innovazioni tecnologiche: è l'innovazione tecnica che guida e comanda le mutazioni dei nostri modelli generali politici. Da quando si inventò la scrittura, [da quando] si destabilizzò un intero assetto basato sulla trasmissione privilegiata orale delle norme e cadde l'aristocrazia greca classica (quello che chiamiamo l'ordinamento nobiliare), fino ad arrivare alla più vecchia rivoluzione industriale, che inventò la fabbrica, rendendo possibili tutta una serie di valori che noi abbiamo innalzato sugli altari come se fossero verità assolute (il solidarismo, l’egalitarismo ecc., che non erano altro che ‘sottoprodotti’ della prima rivoluzione industriale dell'atelier, della fabbrica, della catena di montaggio, della massificazione), e fino ai giorni,  sono i cambiamenti tecnici che guidano e determinano gli assetti in cui si trovano gli uomini. È precisamente quello che sta accadendo i giorni nostri: la straordinaria accelerazione del macchinismo e l’automazione nei processi di trasmissione delle informazioni (perché di questo si tratta) promettono di cambiare tutto il panorama in cui si muoverà la generazione futura. Difficilmente noi fermiamo l'attenzione su questo punto, [cioè] che questo mutamento potenzia straordinariamente il singolo. Non solo sta distruggendo una figura su cui si basa la maggior parte delle nostre ideologie, la classe operaia: il lavoratore delle fabbriche sostituito dall'automa. Ormai il robot è diventato il segno del nostro avvenire, le grandi fabbriche, il grande lavoro di serie fra cinquant'anni sarà tutto robotizzato. Insomma, questo determina la caduta degli ideali egalitari-solidaristici tipici della fabbrica e della società paleo-industriale. Ma, soprattutto, questo cambiamento potenzia l'individuo. Potenzia le possibilità del singolo soprattutto perché gli permette di fare a meno dei suoi simili. Valendosi delle macchine, oggi un imprenditore – ed ecco perché l'imprenditoria tende a essere di dimensioni modeste, magari federata e coordinata ma di dimensioni modeste – può convertire le sue attività, può chiudere e aprire senza il vero problema di pensare al destino di coloro che lavorano con lui. Io metto in contrapposizione la grande fabbrica della prima fase della rivoluzione industriale con lo snello atelier della società postindustriale, caratterizzato proprio dall'uso dei computer, cioè dell'automazione dell'informazione. Avere sempre meno bisogno dei propri simili: è questa la vera molla che scatena il privato nella società dei nostri tempi. Io non mi commuovo affatto ai successi della signora Thatcher o del presidente Reagan, ma constato semplicemente che questi sono soltanto accidenti storici, manifestazioni collaterali storiche, neanche poi tanto importanti di questo movimento verso il privato e verso l'individuale.

Tutto questo cosa comporta? Comporta il ‘ritrarsi’ del pubblico, il ridursi del pubblico. […] Il singolo individuo tende a risolvere i suoi problemi per conto suo, e cercherà sempre più di trovare la soddisfazione delle sue esigenze, usando il contratto. Noi stiamo rientrando in una grande età del contratto-scambio. Già ci sono, per chi segue tali fenomeni, una grande quantità di aspetti rilevanti. […] Ma quello che interessa è qui vedere come l'automazione dell'informazione potrebbe incidere sui pilastri dello Stato moderno nella fase che ne abbiamo conosciuto, in modo specifico, nello stadio rappresentativo. Io mi limito a fermare la mia attenzione su due aspetti che sono i più evidenti, i e anche i più facili a considerarsi.

Il primo riguarda il ruolo dell’aiutantato burocratico.
Tutti sappiamo che la dannazione dei grandi organismi è quella della servitù nei confronti dello sviluppo burocratico. Nel Settecento noi collochiamo l’idea secondo cui i grandi organismi sono destinati a corrompersi (Montesquieu, Gibbon, ma c'è anche qualche grande autore prima di Montesquieu, prima di questi uomini Settecento: già nel Seicento certi passi di Naudé anticipano). Secondo questa idea, quando l'organismo diventa grosso – e i nostri sistemi politici, pensavano questi autori, sono di grandi dimensioni – ecco la tabe, l’infezione, oggi diremmo il virus dell'apparato burocratico. È il destino che comincia con gli imperi che Weber chiamava ‘di magazzino’, simboleggiati dallo scriba del Louvre, lo scrivano che bene riassume la figura del burocrate, e che arriva fino alle colossali burocrazie dei nostri ordinamenti. Tutto questo da dove veniva? Veniva dal bisogno di raccogliere le informazioni, classificarle, immagazzinarle, poi andare a riprenderle, elaborarle e farne strumento per l'azione di chi governa. Tutto questo diventa sempre più opera delle macchine. Ci sarà sempre meno bisogno del burocrate. (Io dico queste cose nella città in cui io vorrei sempre portare i miei allievi ad assistere all'uscita dai ministeri, a una certa ora,
quando un fiume di funzionari esce da questi portoni e rappresenta bene la visione dello Stato burocratico, della struttura burocratica. Tutto questo è un panorama che, secondo una modesta previsione, è destinato, se non a scomparire, [a scomparire quasi del tutto]. Rimarranno soltanto coloro che saranno in grado di porre domande estremamente intelligenti
alle macchine di gestione dell'informazione [a rimanere]. […]

Ma ancora più significativo è l'impatto dell'innovazione tecnica costituita semplicemente dall’automazione dell'informazione che incide sul rapporto rappresentativo. E così spiego al mio amico Mongardini perché io credo che la rappresentanza sia un'istituzione prossima ad uscire dalla nostra storia. Quando e come è nata la rappresentanza? Ho cercato di farne la storia e mi rimane sempre un po’ di nostalgia [per il progetto incompiuto] di utilizzare tutta la massa di materiale che ho raccolto e che vorrei tradurre in un'interpretazione e una serie di ipotesi molto più soddisfacenti, almeno per me, di quelle che ho già fatto a suo luogo. Ridotta all'osso, l'invenzione del rappresentante non è nata dai rappresentati: tutta la storia della rappresentanza insegna che i rappresentanti li hanno inventati coloro che governavano, dai missi Dominici ai maîtres des requêtes, fino all'investitura data agli amministratori locali chiamati a fare, come poi si dirà, da procuratores dei governati, agli Stati generali, che vengono costruiti dai governanti. Sono loro che hanno bisogno – ecco il punto cruciale – di sapere quali sono i bisogni, le esigenze, i vizi, la ‘caricabilità’ (cioè la capacità di sopportazione dei sacrifici da parte dei governati). E il rappresentante a poco a poco – quando comincia a gestire in proprio il potere, esautorando il principe (ed è l’età in cui nascono i parlamenti) – diventa il tramite fra governanti e governati, con funzione di informazione. Non per caso noi quasi non riusciamo più a concepire una prova elettorale che non sia legata a un programma, che non sia cioè legata a un «che fare» e a una richiesta: «vi propongo di votarmi, io andrò a portare i vostri interessi, ecc., farò presente allamministrazione, a chi governa, quali sono questi bisogni». L’innovazione nel campo tecnico dell'informazione sta distruggendo queste esigenze, o meglio sta soddisfacendo in maniera radicalmente diversa questa esigenza. […] E questo cosa significa? Significa che allora non è più necessario il rappresentante: la figura del rappresentante perde la sua base. Si può dire: ma resisterà! Certo, ci vorrà tempo, perché il parlamentare cambi mestiere, perché si trovi un'altra base. È un po’ il problema di ritrovare il titolo con il quale erogare le rendite politiche e creare i seguaci più o meno fedeli: anche qui, l'uso dei sondaggi d'opinione è destinato a permettere a chi governa di sapere esattamente cosa pensano i governati, e soprattutto – badate bene – di saperlo indipendentemente da quell'azione deformativa che esercita una campagna elettorale, o l'organizzazione di una prova che porti alle urne (il dibattito infatti fa sì che, colui che era entrato in questa fase con certe idee ne esca generalmente con le idee confuse e ‘violentate’, in relazione gli interessi dei più abili persuasori che si fanno strada nella mischia elettorale).

Questo testo è tratto da "Rivista di Politica" (4/2021)

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