Questa intervista di Roberto Ciccarelli a Roberto Esposito è apparsa sul quotidiano "Il Manifesto" .
Lei ha definito il titolo del suo libro, «Immunità comune», un paradosso. Per quale motivo?
Questa espressione si riferisce all’incrocio che oggi, forse per la prima volta, si va profilando tra due concetti logicamente contrari come quelli di comunità e immunità. Da qui il suo carattere apparentemente paradossale.
Finora i sistemi immunitari, presenti in tutte le società ma anche nei nostri stessi corpi, definivano una sorta di zona protetta, sul piano medico o giuridico, rispetto ai rischi della vita comune. Con la pandemia l’intera comunità mondiale esige di essere salvaguardata dal virus con la vaccinazione. Naturalmente questa possibilità è tutt’altro che prossima, anzi fortemente contrastata da interessi acquisiti, ma almeno l’esigenza è stata enunciata, perfino dai capi di governo.
La gestione della pandemia fatta da parte dei governi, e non solo da quelli italiani, ha puntato tutto sull’immunizzazione, cioè il vaccino. Perché ritiene questa politica «rischiosa»?
Va intanto detto che è stata necessaria. Nessuna società potrebbe sopravvivere a lungo senza sistemi immunitari – per esempio senza un apparato giuridico. Tanto più in fase di pandemia. Una certa dose di immunizzazione è inevitabile. Si tratta di vedere quale e quanta. Come nel corpo umano, in cui un eccesso di difesa immunitaria può provocare malattie autoimmuni, anche nella società un’immunizzazione eccessiva produce disfunzioni insostenibili per regimi democratici. Oltre un certo periodo lo stato d’emergenza può scivolare in uno stato d’eccezione, con danni irreparabili per un regime democratico.
Cosa risponde a chi, come Giorgio Agamben e a tutti quegli interpreti che sostengono che questa democrazia immunitaria altro non sia che una forma di «dittatura sanitaria» ispirata a uno «stato di eccezione permanente»?
Che non bisogna confondere stato d’emergenza e stato d’eccezione. Mentre il primo nasce da una necessità oggettiva – come una pandemia – il secondo deriva da una volontà soggettiva di stravolgere l’ordinamento. Certo, anche la definizione di «stato di necessità» richiede una valutazione soggettiva, ma è ben visibile la differenza tra un terremoto e un colpo di stato. Del resto il più grande giurista italiano del Novecento, Santi Romano, vede nella necessità una delle principali fonti del diritto.
Come mai i filosofi sembrano essere più attratti dalla denuncia del ruolo dello Stato contro l’individuo e meno dal fatto che gran parte del mondo non ha i vaccini?
Perché l’anti-istituzionalismo è stato parte integrante della grande filosofia novecentesca. Da Marcuse a Foucault, si è immaginato che libertà ed istituzioni siano necessariamente opposte. Ciò presuppone una nozione puramente individualistica o anarchica di libertà. Certo, in più di un caso le istituzioni hanno svolto un ruolo regressivo. Ma situare la libertà solo fuori, o contro, le istituzioni, ha finito per rendere impolitici i movimenti radicali, provocando un ulteriore irrigidimento delle istituzioni. Oggi è necessario coniugare radicalismo e realismo. Non cercare la liberazione dalle, ma nelle, istituzioni, attraverso una dinamica, anche conflittuale, che privilegi il movimento istituente sull’istituito.
Certamente, in Foucault il rapporto con le istituzioni è più critico e sfumato. Tornando all’attuale dibattito italiano, è quasi o del tutto assente ogni riferimento all’economia e alla critica del capitalismo. Come mai sono pochi i filosofi che hanno sottolineato il fatto che il virus sia una delle conseguenze delle monoculture animali e dell’agribusiness?
Perché la cultura umanistica è scarsamente consapevole dell’intreccio inevitabile tra politica, economia ed ecologia. Il riferimento decisivo alla natura, nell’età dell’antropocene, comincia solo adesso a emergere nella riflessione filosofica. Eppure il rapporto tra natura, storia e tecnica è parte integrante del pensiero novecentesco. Oggi è necessario fare un salto di qualità nella direzione che lei indica, riflettendo sulla connessione tra biopolitica e bioeconomia. Al momento mancano grandi progetti di ricerca sull’intreccio profondo tra questione sanitaria e questione ambientale. Questo è esattamente il compito della nuova generazione di filosofi.
Non crede che la grande difficoltà della filosofia politica rispetto al Covid discenda anche dal fatto che la biopolitica sia interpretata quasi esclusivamente con concetti giuridico-politici e non anche quelli che relazionano il vivente, il politico e la scienza?
Assolutamente sì. Ma il paradigma di immunizzazione richiama da vicino l’ambito biologico. La filosofia politica ha parecchio da imparare dal funzionamento dei sistemi viventi e dal corpo umano in particolare. Nel libro ho cercato di mostrare come la scienza biologica, e in particolare immunologica, abbia a lungo subito l’influenza della filosofia politica nel rappresentare il sistema immunitario come un semplice apparato di difesa nei confronti degli agenti esterni. Non è un caso se la pandemia viene spesso descritta attraverso metafore militari. Eppure da tempo la ricerca immunologica ha modificato l’interpretazione dell’immunità, per esempio riscoprendo il ruolo decisivo della «tolleranza immunitaria». È ora che la filosofia politica ripensi in questa chiave anche i sistemi immunitari della società.
Si parla raramente del ruolo dei tagli alla sanità, alla scuola e al «Welfare» che hanno aggravato la pandemia e della necessità di un loro rilancio. Come mai?
In verità c’è chi ha riflettuto sulla connessione tra crisi economica e crisi sanitaria, ormai sempre più intrecciate. È evidente che la pandemia colpisce soprattutto i meno protetti socialmente. Ed è sotto gli occhi di tutti la responsabilità di chi ha smontato la sanità pubblica in Occidente. Quanto alla scuola, tra qualche anno ci accorgeremo delle conseguenze nefaste dell’interruzione della didattica in presenza per quasi due anni.
Raramente ci si sofferma sul fatto che i più colpiti dalle conseguenze mortali del virus siano stati gli anziani, i poveri o, negli Stati Uniti, gli afroamericani. La filosofia ha perso i contatti anche con l’analisi critica del potere, del razzismo e delle classi?
Che gli anziani siano stati particolarmente colpiti solo apparentemente è una risultante biologica del fatto che sono oggettivamente più fragili o già malati. Sulla strage nelle Rsa, nel primo anno di pandemia, le istituzioni, soprattutto regionali, hanno una fortissima responsabilità. I neri americani sono da sempre vittime designate non solo delle malattie, ma di tutte le crisi ecologiche. C’è una netta implicazione classista in quanto è successo. Non solo nella diffusione del contagio, ma anche nelle cure che sono state date. Chi potrebbe immaginare che Trump o Berlusconi siano stati curati come cittadini comuni?
Nel suo libro c’è una polemica su una parziale, e astiosa, interpretazione della biopolitica e, in generale, contro Michel Foucault che ne è stato un ispiratore. Per quale ragione?
Perché è una polemica spesso pregiudiziale, proprio nel momento in cui il paradigma di biopolitica ha dimostrato una potenza euristica inconfutabile. Sostenere che non viviamo in regimi biopolitici, o meglio immunopolitici, oggi è quasi incredibile, visto quello che ci circonda ogni parte. L’immunizzazione è diventata la nostra nuova forma di vita, sul piano reale come su quello simbolico. Questa diffidenza deriva dal fatto che la categoria di biopolitica è stata a volte intesa in chiave metafisica, come una categoria trans-storica, quando invece nessuno più di Foucault l’aveva storicizzata.
Quando parla di una «politica che sappia fare valere le istanze liberatorie contro gli interessi consolidati», a cosa si riferisce di preciso?
A una politica che ricostruisca il Welfare smontato dal neoliberalismo, senza per questo farsi sedurre dalle sirene sovraniste. A un modello economico e sociale radicalmente rinnovato sul piano della produzione e della distribuzione. A un ritorno di centralità della battaglia politica che forzi il blocco neutralizzante al quale i nostri regimi sono sottoposti dal dominio della tecnocrazia. A una società che ridia alla cultura, adesso mortificata, il ruolo di volano produttivo ed innovativo.
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