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mercoledì 9 febbraio 2022

Alla luce della rielezione di Sergio Mattarella. Un intervento di Alfio Mastropaolo


di Alfio Mastropaolo

Questo articolo è apparso sul blog della rivista "Il Mulino".

 Risparmiamoci lo scandalo. È andata secondo copione. In piena e democratica coerenza coi rapporti di forza tra i partiti, coi tratti di ciascuno di essi e col costume politico prevalente. È il copione cui ci ha abituato l’esecutivo Draghi ogni qualvolta assume qualche decisione: laboriose mediazioni, qualcuno che abbaia per alzare il prezzo, mediazione risolutiva del capo del governo. Le misure adottate non sono mai granché, ma questo passa il convento. Stavolta, dopo qualche maldestra manovra per smarcarsi, si è addivenuti alla soluzione più ovvia. Spiace per il fracasso sul tema dell’elezione di una donna. Ma è dubbio che le donne ci contassero. Sono abituate a simili esibizioni. 

Ai partner della maggioranza serviva una figura che nessuno potesse esibire come trofeo. Poteva essere Draghi, ma Mattarella evitava l’imbarazzo di reinventarsi un esecutivo. Si potevano risparmiare le manovre maldestre, ma per chi scrive la democrazia ci ha guadagnato. Nessuno è perfetto: ma Mattarella è un galantuomo, è stato un presidente impeccabile, ha mostrato gran cura per gli interessi del Paese, specie delle sue parti più deboli, è affezionato ai principi scritti in Costituzione, che sono la sua cultura. Disdegna le interpretazioni creative. Mattarella è un galantuomo, è stato un presidente impeccabile, ha mostrato gran cura per gli interessi del Paese, specie delle sue parti più deboli, è affezionato ai principi scritti in Costituzione, che sono la sua cultura

Non meno ovvio è stato il seguito. Cioè le reazioni. La prima ha denunciato lo spettacolo «indegno» offerto dalle forze politiche. Molti soffrono di memoria corta. I franchi tiratori stanno nella norma: il voto segreto li eccita da sempre. Anzi, la reiterazione della conferma, dopo il precedente Napolitano, ha avuto tutt’altro e più pacifico significato. Quella fu frutto di due imboscate e di una disputa interna al partito maggiore. Qui la conferma è nata da un’intesa, seppur tormentata, entro la maggioranza. 

Dopo l’ovvia denuncia dello spettacolo, non meno ovvia era la richiesta di riforme istituzionali, qualcuna chiesta perfino in corso d’opera. Sù, l’abbiamo capito, le riforme servono ad avvantaggiare qualcuno e a fregare qualcun altro. Sono un diversivo spuntato. Altri invece hanno sollevato grande allarme per lo stato del nostro regime democratico. Sarebbe l’ennesima conferma dell’involuzione autoritaria. In realtà la conferma di Mattarella è avvenuta nel pieno rispetto delle regole. Era nell’ordine delle cose possibili. Per ragioni enunciate da Mattarella stesso, era sconsigliabile. Ma questo è stato l’esito permesso dai rapporti di forza in Parlamento. Come rientra nelle regole la presenza di Draghi a Palazzo Chigi. Può non piacere, ma non è un colpo di Stato tecnocratico, o dell’alta finanza. È prova della debolezza delle forze politiche. È questa l’involuzione, che si manifesta da lungo tempo.

Tra le denunce di rito una sottolinea la bassa qualità del personale politico. Difficile negarla, ma non riguarda solo l’Italia. Le capacità selettive del regime rappresentativo, quali che siano le sue forme, sono modeste. Si butti un’occhiata a Westminster o al Congresso. La selezione dipende molto dalle circostanze. Tutti i Paesi hanno vissuto un dopoguerra di rendita: entro la classe politica c’era un nucleo selezionato dall’opposizione al fascismo, dalla guerra, dalla ricostruzione. Sopravvissuto a prove terribili. A lungo ha dato un tono a tutto il resto. Senza esagerare, perché le polemiche sono iniziate prestissimo.

Per quali ragioni, da ultimo, le classi politiche sono tutte così decadute? Il ragionamento è complicato e pure incerto. Ma contano i valori dominanti nella società. Se sono il profitto privato e il successo elettorale a ogni prezzo, se la politica è un business come tanti, gli effetti sono inevitabili. Questo non esime dal riflettere sui meccanismi di selezione. 

Il meccanismo più chiacchierato è il regime elettorale. Che ha certo considerevole influenza sull’andamento della contesa politica. Ma ne ha molto meno sul reclutamento dei politici, visto quanto si osserva altrove. L’attuale regime andrebbe modificato perché ingiusto e distorsivo. Le liste bloccate rendono i leader di partito padroni della rappresentanza parlamentare, che poi magari si ribella. Si dice che a introdurre la proporzionale e le preferenze si darebbe più ascolto al Paese e i candidati sarebbero indotti a interagire di più con gli elettori. Forse, ma non è detto. Le campagne elettorali sono oggidì condotte per via mediatica e lo sarebbero anche quelle condotte dai candidati. Fatalmente prevarrebbero i più dotati di risorse finanziarie: proprie o dei loro non disinteressati danti causa. Come sappiamo, altri rimedi tentati per migliorare la selezione (primarie e piattaforma Rousseau) non hanno dato gran frutto.Il regime elettorale ha considerevole influenza sull’andamento della contesa politica, ma ne ha molto meno sul reclutamento dei politici, visto quanto si osserva altrove. L’attuale regime andrebbe modificato perché ingiusto e distorsivo

Questo rinvia alla questione dei media. L’elezione del presidente della Repubblica – e la campagna presidenziale – l’hanno confermato. Il loro imperativo è l’audience e l’audience pretende spettacolo. Già solo per questo i media (in sinergia con la politica) avvelenano il discorso pubblico e polarizzano la contesa, disorientando gli elettori. In più, sono in larga parte in mano a grandi potentati privati. Niente d’inedito. I media senza regole sono una minaccia per tutti i regimi democratici: molto insegna l’America, ma anche in Gran Bretagna hanno svolto un’azione devastante. In Francia un miliardario che detiene una posizione egemone su tv e editoria è l’ispiratore dell’operazione Zemmour. Visto che sull’autodisciplina dei media non c’è da contare, servirebbe qualche regola. Che metta in dubbio le concentrazioni proprietarie e promuova, anche a spese della collettività, il massimo pluralismo informativo. Già tuttavia si avverte la fiera indignazione degli alfieri del libero mercato. La proprietà privata è la più sacra di tutte le libertà e la concorrenza in più perfetto dispositivo di selezione. 

Un’altra invocazione di rito è: ci vorrebbero i partiti. Come rimedio anzitutto alla scarsa qualità del personale politico. Già, perché gli attuali partiti sono agenzie di marketing, tutto business e poca democrazia. Servirebbero, si dice, partiti aperti ai cittadini, luoghi di riflessione e discussione, entro cui maturino competenze e capacità di governo, evitando magari il ricorso ai tecnici per ovviare a questi limiti. Se non che, i partiti sono macchine complicate e non s’improvvisano. E poi bisogna intendersi. Una volta erano grandi istituzioni protettive. Per ottenere consenso, proteggevano gli elettori, talvolta in forme discutibili. Ma, comunque sia, li proteggevano. Si radicavano nella società, presidiavano il territorio, colmavano lo spazio con le autorità pubbliche. Era loro interesse suscitare interessi diffusi, farsi portavoce di vasti gruppi sociali. Questa era la loro forza. Col tempo sono divenuti macchine iperprofessionalizzate, verticistiche e hanno trovato più conveniente usare i media anziché estenuarsi sul campo. È la loro debolezza. Ma si potrebbe mai tornare al passato? I media hanno favorito la rappresentanza usa e getta: si sollevano temi in vista della prossima campagna elettorale. Che le aspettative siano disattese poco importa. Al prossimo giro si solleveranno altri temi. Invocare il ritorno dei partiti è un altro diversivo.La politica democratica è a un’impasse. Le succede di tanto in tanto. Ha il difetto congenito di fondarsi su una società plurale e di doverla ricucire. L’impresa è ardua

In conclusione. La politica democratica è a un’impasse. Le succede di tanto in tanto. Ha il difetto congenito di fondarsi su una società plurale e di doverla ricucire. L’impresa è ardua. La tentazione di tagliar corto, reprimere la pluralità, presidenzializzare ed esternalizzare la politica agli esperti e al mercato è congenita. La politica, perfino nei regimi autoritari, negozia senza posa con la pluralità che concorre a produrre. I regimi democratici lo fanno permettendo a qualche parte politica, o coalizione di parti, di prendere provvisoriamente – e limitatamente – il sopravvento. È stata però sciagurata la scelta, pur se democraticamente assunta, di togliere le briglie al capitalismo, che ha consentito ai potentati economici d’imporsi stabilmente. Sono loro che comprimono la pluralità, oscurano il conflitto sociale e alimentano il risentimento antipolitico. 

Il conflitto sociale sembra sparito. Ma è solo stato reso invisibile entro una società a dir poco concitata. La frustrazione, la sensazione di abbandono, il disprezzo di cui sono fatte oggetto alcune fasce sociali, perché meno abbienti e meno istruite, la precarizzazione esistenziale che si accompagna a quella occupazionale, hanno già prodotto reazioni scomposte da parte degli elettori, che non migliorano il tenore della vita pubblica. Che nessuno si preoccupa di prevenire, ma semmai strumentalizza. Lì sta il problema, non nella rielezione di Mattarella, che nulla ha di patologico. Patologia sono i temi fondamentali che nel discorso di giuramento lui ha implacabilmente inventariato. È lo stato della società sottomessa al mercato e ignorata dalla politica. Sanno davvero di beffa gli applausi dei parlamentari, gli osanna della stampa e pure la proposta – ma guarda! – di discutere quell’inventario in Parlamento. 

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