di Damiano Palano
Questa nota è apparsa su "VP Plus", la newsletter della rivista "Vita e Pensiero", il 22 gennaio 2022.
Dopo un’attesa che è parsa a molti quasi interminabile, lunedì 24 gennaio i membri del Parlamento si riuniranno in seduta comune, insieme ai delegati regionali, per stabilire chi sarà l’inquilino del Quirinale per i prossimi sette anni. Anche in passato, l’elezione del Presidente della Repubblica era un appuntamento che le forze politiche vivevano con dissimulata trepidazione, ordendo trame ma al tempo stesso badando a non svelare fino all’ultimo le carte. Ma nelle ultime tornate l’attenzione riservata a questa scadenza istituzionale è cresciuta costantemente, tanto da condizionare palesemente persino scelte politiche cruciali, come la stessa decisione di sostenere o meno un determinato esecutivo.
Negli ultimi tre anni l’avvicinarsi della conclusione del mandato di Sergio Mattarella ha anzi pesato come una spada di Damocle sulle sorti della legislatura, sulla composizione dei governi e sulla loro stessa durata. Si potrebbe imputare una simile deriva a quella “spettacolarizzazione” che, da ormai un quarantennio, ha modificato le logiche stesse della politica, e che spesso ha indotto a rappresentare come eventi epocali la più minuta cronaca politica e come leader carismatici personaggi mediocri, destinati a tornare nell’arco di qualche mese nel cono d’ombra del sottobosco parlamentare. Ma in questo caso le ragioni sono probabilmente più profonde. E hanno a che vedere con il ruolo che il Presidente della Repubblica ha assunto negli ultimi decenni, per molti versi in conseguenza dell’interminabile “transizione” politica iniziata all’inizio degli anni Novanta e dopo lo sfaldamento del sistema partitico.
Nel corso della cosiddetta “Prima Repubblica”, nel clima della netta contrapposizione della Guerra fredda, il ruolo del Presidente venne interpretato, più che come il garante della Costituzione, come una sorta di arbitro “super partes” del conflitto tra partiti e (soprattutto) dentro i partiti. E non è per questo sorprendente che le storie delle passate elezioni raccontino di tante ambizioni vanificate dal “fuoco amico” dei franchi tiratori. Per molti versi, un sistema dei partiti tanto compatto e “rigido” richiedeva che la carica presidenziale fosse “svuotata” persino di quei poteri che la Carta del ’48 le aveva assegnato.
La dissoluzione dei partiti di massa, l’incapacità delle forze politiche di dar vita a un nuovo stabile quadro di riferimento, la sempre più evidente fluidità delle scelte degli elettori hanno invece contribuito a modificare il ruolo del Quirinale. Dinanzi a un’opinione pubblica sempre più politicamente disincantata, il Presidente è diventato per molti versi l’unico soggetto istituzionale capace di sottrarsi alla marea di sfiducia (e talvolta di disprezzo) che ha alimentato l’“ondata populista”. Inoltre, sotto il profilo più strettamente istituzionale, il Presidente si è rivelato spesso il residuo punto di equilibrio di un sistema costantemente in bilico, incapace di produrre stabili alleanze governative, prima ancora che di avanzare progetti duraturi per il Paese. Non è dunque casuale che i limitati poteri che la Carta assegnava al Presidente si siano rivelati decisivi in più di un’occasione, in particolare in coincidenza con la crisi del debito sovrano nel 2011 e con l’emergenza pandemica all’inizio del 2021. E non è affatto da escludere che, dinanzi al mondo che ci troveremo davanti quando l’emergenza pandemica si sarà conclusa, il prossimo inquilino del Colle non debba assumere un ruolo politicamente ancora più pesante.
Negli ultimi due anni abbiamo per molti versi dimenticato i problemi che l’Italia si trascina da più di un trentennio. Ci siamo forse persino illusi che i tassi di crescita registrati nel 2021 possano non essere del tutto congiunturali e che la morsa del debito pubblico non sia più così rilevante come in passato. Certo è difficile prevedere oggi cosa ci attenderà nei prossimi anni. Ma sarebbe davvero ingenuo pensare che quei vecchi nodi non siano destinati a tornare al pettine e che non debbano produrre un contraccolpo politico sugli equilibri (già piuttosto instabili) di oggi. Ma proprio perché dietro l’angolo potrebbe attenderci un sistema politico ancor più destrutturato di quello odierno, è altamente probabile che il peso del Quirinale debba uscirne ulteriormente rafforzato, tanto da rendere il Presidente sempre più il vero punto di equilibrio – interno e internazionale – di un sistema in bilico. E anche per questo – è persino superfluo ricordarlo – dobbiamo augurarci che le urne di Montecitorio ci consegnino un nome all’altezza di una simile responsabilità.
Damiano Palano
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