di Damiano Palano
Quando pensiamo ai sistemi di sorveglianza che
ormai circondano la nostra esistenza, quasi invariabilmente ci troviamo a
evocare la sagoma del Grande fratello orwelliano. E tendiamo così ad accostare
la nostra condizione a quella del povero Winston Smith, in fuga dalle spie del
regime di Oceania e dallo sguardo onnipresente dei suoi apparati polizieschi. Nel
suo nuovo libro La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo
ci ha reso tutti controllori (Luiss University Press, pp. 229, euro 20.00),
David Lyon – un’autentica autorità in materia – ci invita invece a cercare
altrove e ad abbandonare le suggestioni di 1984. Il sistema di controlli
in cui siamo collocati ricorda semmai una distopia contemporanea come quella
allestita da Dave Eggers nel Cerchio. E la differenza è molto semplice.
Nel regime orwelliano, la sorveglianza era messa in atto da un apparato
mastodontico, che controllava sistematicamente le attività dei singoli. I reali
regimi totalitari del Ventesimo secolo non si avvicinarono naturalmente a quel
modello, ma la logica con cui operavano era la medesima, perché il controllo
era esercitato ‘dall’alto’ verso il ‘basso’. L’immagine di uno «Stato di
sorveglianza» oggi è invece inadeguata a cogliere la portata del fenomeno,
anche se il «caso Snowden» ha portato alla luce la sorveglianza degli apparati
di intelligence sulla vita dei singoli cittadini delle democrazie occidentali. La
polizia e le agenzie di sicurezza traggono però oggi le loro informazioni da
entità commerciali, e il mondo post-orwelliano è dunque segnato innanzitutto da
una sorta di collusione tra apparati di sicurezza statali e corporation. L’esperienza
che viviamo oggi è inoltre fondata sulla costante collaborazione dei
sorvegliati: si tratta cioè di una sorveglianza generata dagli stessi utenti.
La «cultura della sorveglianza», come la definisce Lyon, è comparsa perché
sempre più individui ricorrono a strumenti di monitoraggio della vita degli
altri. Ma, come ben sappiamo, sono proprio gli «altri» a mettere a disposizione
informazioni relative alla loro vita (anche privata). In sostanza, ciò che Lyon
punta a ricostruire non sono tanto le tecnologie con cui le vite individuali
vengono monitorate, quanto la cultura che ha accompagnato il ricorso a queste
tecnologie e che hanno dunque legittimato il ricorso a strumenti di
sorveglianza che un tempo si sarebbero considerati inaccettabili. E indagando
le trasformazioni intervenute nell’ultimo ventennio, Lyon proprio come la
«cultura della sorveglianza» si sia alimentata – e continui ad alimentarsi – dell’ambizione
di ridurre il rischio: un’ambizione che opera tanto a livello della
macro-politica globale, quanto nella sfera della nostra quotidianità domestica.
Ed è infatti proprio la necessità di tenere sotto controllo il rischio che induce
a ricorrere ai self-tracking della salute, del reddito e della gestione del
tempo. Ma la dipendenza da questi meccanismi di controllo non è affatto priva
di enormi conseguenze sulla nostra privacy e sulla partecipazione democratica.
E dovremmo quantomeno iniziare a esserne maggiormente consapevoli.
Damiano Palano
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