lunedì 11 ottobre 2021

Norberto Bobbio e la scienza del potere. Un corso degli anni Sessanta curato da Tommaso Greco



di Damiano Palano

Negli anni Sessanta Norberto Bobbio iniziò ad allontanarsi dalla teoria del diritto per avvicinarsi agli studi politici. In realtà anche in precedenza l’intellettuale torinese si era occupato di temi politici, per esempio curando opere di Hobbes e di Marx o intervenendo nella discussione pubblica. Ma alla fine degli anni Cinquanta si convinse che la stagione delle più nette contrapposizioni ideologiche fosse finita, e che dunque fosse possibile osservare la politica con maggior distacco. 

Iniziò così a confrontarsi con Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, i due pensatori che con più energia, a cavallo tra Otto e Novecento, avevano in Italia coltivato il progetto di uno studio scientifico dei fenomeni sociali e politici. Ma, per sostenere l’utilità della lezione di questi teorici, Bobbio doveva superare due ostacoli. Innanzitutto, si trovava alle prese con il compito di rendere presentabile la riflessione di pensatori tutt’altro che generosi nei confronti dell’ideale democratico. Nei Saggi sulla scienza politica in Italia, pubblicati nel 1969, sostenne così che l’esistenza delle élite – ‘scoperte’ da Mosca e Pareto – non era necessariamente incompatibile con la democrazia, anche se quest’ultima andava concepita come un assetto in cui esistono molte élite, le quali si controllano reciprocamente e si contendono il potere di governare all’interno di un perimetro di procedure. Il secondo ostacolo era invece rappresentato dalle obiezioni degli intellettuali storicisti e in particolare di Benedetto Croce, che aveva definito il Trattato di sociologia generale di Pareto come una mostruosità e che, in generale, aveva criticato (non senza fondamento) le ingenuità e le semplificazioni del positivismo di fine Ottocento. Più che alla lezione di Mosca e Pareto, Bobbio attinse in questo caso all’immagine della «scienza empirica della politica» che giungeva allora dagli Stati Uniti.

Una testimonianza di questi interessi è ora offerta dal volume di Bobbio, curato da Tommaso Greco, Il problema del potere. Introduzione al corso di scienza della politica (Giappichelli, pp. 98, euro 15.00), che riproduce un ciclo di lezioni tenute all’Università di Torino nel 1966. Il libro restituisce il corso nella sua struttura scheletrica, dal momento che si tratta di una trascrizione. Ma consente comunque di cogliere l’impostazione di fondo. Collocando il punto focale della scienza politica nello studio del potere, Bobbio si confrontava con classici come Machiavelli e Hobbes, ma anche con Max Weber, Carl Friedrich e Harold Lasswell. E giungeva anche a esaminare il rapporto tra potere e diritto, che ai suoi occhi rappresentavano le due facce di un medesimo fenomeno.

Rileggere il corso è però interessante anche per la divisione dei compiti tra filosofia politica e scienza politica che Bobbio delineava. Costruendo una «mappa» che negli anni a venire avrebbe ulteriormente precisato, individuava molte aree di intersezione tra i due campi. Ma, in ogni caso, riprendendo (criticamente) le proposte che giungevano dagli Stati Uniti, qualificava la scienza politica soprattutto come una scienza empirica, non prescrittiva e avalutativa. «Lo scienziato politico», si legge infatti nel corso, «deve proporsi il compimento della sua indagine ‘con la mente sgombra’: senza pregiudizi ideologici». Alcuni anni dopo, la contestazione studentesca mise radicalmente in discussione la pretesa delle scienze sociali di essere davvero prive di «pregiudizi ideologici». E lo stesso Bobbio riconobbe i rischi di una «politica scientifica», solo all’apparenza libera da condizionamenti ideologici. Ma non per questo rinunciò a difendere il principio dell’«avalutatività», che rimane in effetti un criterio ancora oggi cruciale, seppur tutt’altro che privo di implicazioni problematiche, per intendere correttamente lo studio «scientifico» dei fenomeni politici e sociali.

 Dalle scienze sociali ci si debbono attendere d’altronde – nel migliore dei casi – descrizioni efficaci e spiegazioni convincenti, in grado di contribuire alla discussione pubblica e alla formulazione delle decisioni. Ma sarebbe ingenuo (e forse pericoloso) sperare che possano fornire la soluzione dei problemi, o pretendere che, in nome di una conoscenza priva di ‘infiltrazioni ideologiche’, possano compiere quelle scelte politiche, talvolta persino tragiche, che richiedono non solo di fissare gli obiettivi da perseguire, o di decidere quale sia il «male minore».

 Damiano Palano

 

 


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