di Damiano Palano
Negli anni Sessanta Norberto Bobbio iniziò ad allontanarsi dalla teoria del diritto per avvicinarsi agli studi politici. In realtà anche in precedenza l’intellettuale torinese si era occupato di temi politici, per esempio curando opere di Hobbes e di Marx o intervenendo nella discussione pubblica. Ma alla fine degli anni Cinquanta si convinse che la stagione delle più nette contrapposizioni ideologiche fosse finita, e che dunque fosse possibile osservare la politica con maggior distacco.
Iniziò così a confrontarsi con Gaetano Mosca e
Vilfredo Pareto, i due pensatori che con più energia, a cavallo tra Otto e
Novecento, avevano in Italia coltivato il progetto di uno studio scientifico
dei fenomeni sociali e politici. Ma, per sostenere l’utilità della lezione di
questi teorici, Bobbio doveva superare due ostacoli. Innanzitutto, si trovava
alle prese con il compito di rendere presentabile la riflessione di pensatori
tutt’altro che generosi nei confronti dell’ideale democratico. Nei Saggi
sulla scienza politica in Italia, pubblicati nel 1969, sostenne così che
l’esistenza delle élite – ‘scoperte’ da Mosca e Pareto – non era
necessariamente incompatibile con la democrazia, anche se quest’ultima andava
concepita come un assetto in cui esistono molte élite, le quali si controllano
reciprocamente e si contendono il potere di governare all’interno di un
perimetro di procedure. Il secondo ostacolo era invece rappresentato dalle
obiezioni degli intellettuali storicisti e in particolare di Benedetto Croce,
che aveva definito il Trattato di sociologia generale di Pareto come una
mostruosità e che, in generale, aveva criticato (non senza fondamento) le
ingenuità e le semplificazioni del positivismo di fine Ottocento. Più che alla
lezione di Mosca e Pareto, Bobbio attinse in questo caso all’immagine della
«scienza empirica della politica» che giungeva allora dagli Stati Uniti.
Una testimonianza di questi interessi è ora
offerta dal volume di Bobbio, curato da Tommaso Greco, Il problema del
potere. Introduzione al corso di scienza della politica (Giappichelli, pp.
98, euro 15.00), che riproduce un ciclo di lezioni tenute all’Università di
Torino nel 1966. Il libro restituisce il corso nella sua struttura scheletrica,
dal momento che si tratta di una trascrizione. Ma consente comunque di cogliere
l’impostazione di fondo. Collocando il punto focale della scienza politica
nello studio del potere, Bobbio si confrontava con classici come Machiavelli e
Hobbes, ma anche con Max Weber, Carl Friedrich e Harold Lasswell. E giungeva
anche a esaminare il rapporto tra potere e diritto, che ai suoi occhi rappresentavano
le due facce di un medesimo fenomeno.
Rileggere il corso è però interessante anche per
la divisione dei compiti tra filosofia politica e scienza politica che Bobbio delineava.
Costruendo una «mappa» che negli anni a venire avrebbe ulteriormente precisato,
individuava molte aree di intersezione tra i due campi. Ma, in ogni caso,
riprendendo (criticamente) le proposte che giungevano dagli Stati Uniti,
qualificava la scienza politica soprattutto come una scienza empirica, non
prescrittiva e avalutativa. «Lo scienziato politico», si legge infatti nel
corso, «deve proporsi il compimento della sua indagine ‘con la mente sgombra’:
senza pregiudizi ideologici». Alcuni anni dopo, la contestazione studentesca
mise radicalmente in discussione la pretesa delle scienze sociali di essere
davvero prive di «pregiudizi ideologici». E lo stesso Bobbio riconobbe i rischi
di una «politica scientifica», solo all’apparenza libera da condizionamenti
ideologici. Ma non per questo rinunciò a difendere il principio
dell’«avalutatività», che rimane in effetti un criterio ancora oggi cruciale,
seppur tutt’altro che privo di implicazioni problematiche, per intendere
correttamente lo studio «scientifico» dei fenomeni politici e sociali.
Dalle
scienze sociali ci si debbono attendere d’altronde – nel migliore dei casi –
descrizioni efficaci e spiegazioni convincenti, in grado di contribuire alla
discussione pubblica e alla formulazione delle decisioni. Ma sarebbe ingenuo (e
forse pericoloso) sperare che possano fornire la soluzione dei problemi, o pretendere
che, in nome di una conoscenza priva di ‘infiltrazioni ideologiche’, possano compiere
quelle scelte politiche, talvolta persino tragiche, che richiedono non solo di
fissare gli obiettivi da perseguire, o di decidere quale sia il «male minore».
Nessun commento:
Posta un commento