di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Roslyn Fuller, In difesa della democrazia (Ariele, pp. 225, euro 18.00) è apparsa su quotidiano "Avvenire".
Da ormai alcuni anni il disincanto nei confronti
della democrazia ha iniziato a coinvolgere l’Occidente. Forse, come sostengono
alcune ricerche, gli elettori si sentono meno legati che in passato ai valori
democratici. Ma è dalle fila dell’élite intellettuale che si stanno levando voci
davvero critiche. Emblematico di questa tendenza intellettuale è il pamphlet Contro
la democrazia di Jason Brennan, ma in una direzione simile si sono mossi
per esempio Bryan Caplan e Ilya Somin, che in modo diverso hanno sostenuto che
gli elettori non sono affatto ‘razionali’. Contro questa letteratura si muove
il libro di Roslyn Fuller, In difesa della democrazia (Ariele, pp. 225,
euro 18.00), che, con passione militante, mostra le incongruenze e i limiti di
alcuni degli ‘anti-democratici’ contemporanei. Imputare agli elettori le
difficoltà odierne della democrazia, accusarli di essere ignoranti o di farsi sedurre
dalle proposte di abili demagoghi, secondo Fuller, non è soltanto semplicistico,
ma è anche scorretto. Simili argomentazioni si basano cioè su una distorsione
del reale comportamento degli elettori. E le stesse ricerche che sostengono che
i cittadini sono mediamente ignoranti in campo politico sarebbero in realtà inaffidabili,
perché basate su domande nozionistiche, che non hanno nulla a che vedere con
l’effettiva capacità delle persone di decidere su questioni politicamente
rilevanti.
Fuller non ha così grosse difficoltà a mettere in luce
l’inconsistenza di alcuni ragionamenti intorno all’irrazionalità dell’elettore,
che nascono in realtà da una revisione delle teorie economiche della democrazia
(basate su una rappresentazione piuttosto irrealistica del comportamento di
voto). Ma Fuller non si limita a una critica, perché propone un modello
alternativo di democrazia, che prevede l’innesto robusto di strumenti di
democrazia elettronica, la retribuzione della partecipazione alle assemblee, il
ricorso al sorteggio per supervisionare i compiti esecutivi. L’attuazione di un
simile modello appare naturalmente molto problematico. Ma non è solo la fiducia
riposta nella democrazia diretta (seppur rivisitata) a destare più di qualche
perplessità. Lo stato di salute delle democrazie occidentali non è infatti solo
relativo a ‘chi’ prende le decisioni, ma dipende anche dall’ambiente esterno in
cui una democrazia è collocata, dalle condizioni da cui essa trae le proprie
risorse. E dunque dal contesto in cui maturano le scelte degli elettori. Dire
che gli elettori non sono ‘irrazionali’, non significa dunque che – specie in
momenti di crisi sociali ed economiche – non possano compiere scelte disastrose.
La storia europea, sotto questo profilo, ci fornisce più di qualche ammonimento.
Probabilmente non dovremmo guardare al futuro con eccessivo pessimismo, e il
libro di Fuller da questo punto di vista rimane un ottimo antidoto contro
previsioni eccessivamente negative. Ma non dovremmo trascurare i problemi e
vincoli strutturali con cui le «tarde democrazie» si troveranno alle prese nei
prossimi anni.
Damiano Palano
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