di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (Derive Approdi, pp. 185, euro 17.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
Nelle ricostruzioni dedicate alle origini della contestazione studentesca, spesso si è ricordato come tra le letture che alimentarono le ansie di rivolta figurassero libri – tra loro abissalmente diversi – come Lettera a una professoressa di don Milani, L’uomo a una dimensione di Marcuse e il libretto delle citazioni di Mao. Tra gli scaffali di quella libreria forse un posto non marginale era però occupato anche dai testi di Charles Wright Mills, che editori come Einaudi, Feltrinelli, Saggiatore e Jaca Book avevano ben presto reso disponibili per i lettori italiani. Per i giovani degli anni Sessanta, i libri di Mills – in particolare I colletti bianchi, l’Élite del potere, L’immaginazione sociologica – dovevano d’altra parte risultare più attraenti del tecnicismo di gran parte delle scienze sociali del tempo, ben rappresentate dal funzionalismo di Talcott Parsons. E il linguaggio chiaro con cui metteva in luce le dinamiche spersonalizzanti e le tendenze oligarchiche presenti nella società americana suonava certamente più comprensibile delle riflessioni marcusiane. Per quanto Mills fosse allora visto in Italia come uno degli esponenti di punta della sociologia statunitense, la sua posizione nel mondo accademico d’oltreoceano rimase sempre di quella di un outsider. Come mostra Diego Giachetti nella biografia, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (Derive Approdi, pp. 185, euro 17.00), fu in effetti uno studioso inquieto, insofferente nei confronti delle convenzioni prevalenti. Più che ad altri scienziati sociali del tempo, può essere forse accostato ai beatniks, e non è certo casuale che la foto in copertina – che lo ritrae con un giubbotto di pelle, mentre sfreccia a bordo di una motocicletta – rimandi alle atmosfere dei romanzi di Jack Kerouac.
Nato in Texas nel 1916,
Mills ottenne il dottorato in sociologia nel 1942 con una tesi sul pragmatismo.
Più che l’impostazione teorica, Mills riprese da John Dewey e dagli altri
esponenti del pragmatismo l’idea che l’intellettuale dovesse partecipare
attivamente alla discussione pubblica. Fortemente influenzato da Max Weber, si
interessò a più riprese del marxismo, pur criticandone il determinismo (e conservando
sempre una valutazione negativa del sistema sovietico). E proprio ai marxisti
dedicò il suo ultimo libro, pubblicato nel 1962, quando fu stroncato da un
attacco cardiaco all’età di quarantasei anni. Ma si ispirò anche a Tornstein
Veblen, uno dei grandi pionieri della sociologia, e alla sua Teoria della
classe agiata. Forse è così anche per l’insieme di tanti eterogenei
riferimenti intellettuali che la sua ricerca sulle élite negli Stati Uniti – in
cui sosteneva fosse in atto una concentrazione del potere economico, militare e
politico nelle mani di una compatta minoranza – può essere ancora oggi letta
come un piccolo classico. E come la testimonianza della capacità di guardare
alla società e alle sue trasformazioni con un’ampiezza prospettica e una
profondità d’analisi che le scienze sociali sembrano aver perso da molto tempo.
Damiano Palano
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