di Damiano Palano
Questa recensione è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
L’Istituto per la ricerca sociale
di Francoforte venne fondato quasi un secolo fa, nel 1923, da Felix Weil, un
economista di tendenza socialista rampollo di un’agiata famiglia di
commercianti di grano. Il suo programma prevedeva inizialmente la promozione di
ricerche sul movimento operaio e la pubblicazione delle opere complete di Marx,
ed effettivamente nei primi anni le attività si volsero in questa direzione.
Nel 1930, quando la direzione venne affidata a Max Horkheimer, le cose
iniziarono a cambiare. Fu solo allora che, nella cornice dell’Istituto,
cominciò a prendere forma la «Scuola di Francoforte», uno dei filoni di pensiero
destinato a incidere in modo probabilmente più profondo sulla storia
intellettuale del Novecento. A partire da quel momento, mentre la Repubblica di
Weimar viveva l’ultima stagione della sua vita tormentata, attorno
all’istituzione culturale vennero a raccogliersi studiosi come Friedrich
Pollock, Erich Fromm, Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, Franz Neumann, Otto
Kirchheimer, Walter Benjamin e Siegfried Kracauer. Il grande obiettivo polemico
contro cui si volgevano quelle prime riflessioni era soprattutto il marxismo
«ortodosso», che aveva trascurato le dimensioni culturali, sociali e
psicologiche, a favore di un’indagine diretta principalmente verso la «base»
economica. Ma ben presto gli eventi politici dovevano porre agli studiosi di
Francoforte una domanda ben più urgente. Il 13 marzo 1933 le porte
dell’Istituto vennero infatti sprangate dalla polizia e l’ascesa al potere del
movimento hitleriano costrinse all’esilio tutti i membri della nascente
«Scuola» francofortese, che si ricostituì – quasi al completo – a New York,
alla Columbia University. E sull’altra sponda dell’Atlantico, Horkheimer,
Adorno, Marcuse e Fromm cercarono di spiegare da dove fosse nato il regime
totalitario, e quali fossero le radici della «personalità autoritaria».
Nel corso di un secolo di storia,
la Scuola di Francoforte non ha cessato di rappresentare una voce importante
nel dibattito filosofico e delle scienze sociali, anche se le posizioni sono nel
tempo davvero cambiate. Il volume di Giorgio Fazio, Ritorno a Francoforte.
Le avventure della nuova teoria critica (Castelvecchi, pp. 414, euro
34.00), rappresenta uno strumento davvero utile, perché ricostruisce le diverse
stagioni della Scuola focalizzandosi sulle principali figure che ne hanno
scandito le vicende. È inevitabilmente nella riflessione di Jürgen Habermas e
poi di Axel Honneth che Fazio riconosce una cesura netta rispetto ai
predecessori. Ma Fazio dedica anche una particolare attenzione agli sviluppi
più recenti, a quella «quarta generazione» che vede i suoi esponenti principali
in Rahel Jaeggi e in Hartmut Rosa. Ed è forse proprio in quest’ultimo studioso
che si può riconoscere un ritorno ai temi al cuore dei primi studi
francofortesi. Nell’approccio di Rosa all’alienazione e nella sua indagine
sulla «risonanza» rimane in realtà ben visibile anche l’influenza del pensiero di
Charles Taylor. E il suo «ritorno a Francoforte» può essere dunque considerato solo
in parte come un ‘ritorno alle origini’.
Damiano Palano
Nessun commento:
Posta un commento