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lunedì 20 settembre 2021

Il risentimento del «popolo» nella crisi delle democrazie. Alle radici dell'ondata populista


di Damiano Palano

Questa nota è apparsa sul quotidiano "Avvenire"  il 22 luglio 2021. 

Il 19 settembre 1955 un colpo di Stato delle forze armate argentine pose fine alla presidenza di Juan Domingo Perón. Diversi anni dopo, il grande scrittore argentino Ernesto Sábato tornò con la memoria all’entusiasmo con cui, insieme ai suoi amici, aveva accolto la notizia. E ricordò di aver allora riconosciuto la frattura che lacerava il popolo argentino. «Mentre noi dottori, possidenti e scrittori festeggiavamo rumorosamente nella sala la caduta del tiranno», si legge infatti in L’altro volto del peronismo, da poco pubblicato in italiano (Rogas, pp. 118, euro 11.70), «in un angolo dell’anticucina vidi che le due indigene che lavoravano lì avevano gli occhi inzuppati di lacrime». Pur essendo stato uno strenuo oppositore di Perón, Sábato si rese pienamente conto del sostegno di cui il leader aveva goduto presso gli strati popolari. Le ragioni andavano ricercate nel «risentimento» accumulatosi negli anni. «Nel pantano delle città improvvisate» aveva preso corpo una «una dolorosa disillusione rispetto alla maggior parte degli uomini che gestivano la cosa pubblica». Cresciuto nel corso di un mezzo secolo di rapide trasformazioni, quel risentimento era poi esploso con l’ingresso sulla scena di Perón.

La lacerazione fra «dottori e popolo» di cui parlava Sábato può forse oggi aiutare a decifrare l’enigma del populismo contemporaneo. L’ascesa dei nuovi outsider «populisti» rappresenta in effetti un sintomo della condizione di disagio che vivono oggi le democrazie occidentali. Ma le opinioni degli osservatori divergono nettamente sia a proposito del grado di pericolo che minaccia oggi le istituzioni liberaldemocratiche, sia sull’individuazione delle cause del fenomeno. Per ricostruire lo stato della discussione è molto utile il volume di Paolo Corsini Democrazie populiste. Storia, teoria, politica (Scholé, pp. 299, euro 20.00), che si concentra sui casi classici, arrivando infine alla scena odierna. Corsini non evita la grande domanda sulle motivazioni dell’ascesa di leader e movimenti accomunati dalla protesta contro un establishment di volta in volta rappresentato dalla classe politica, dagli intellettuali, dalle élite economiche. Le radici, suggerisce Corsini, hanno a che vedere con la marginalità di quote di popolazione, oltre che con le tensioni legate ai processi migratori e ai mutamenti tecnologici. Ma, dinanzi a queste dinamiche, il populismo si rivela essere, più che un farmaco in grado di curare un disagio, un veleno che rischia di minare la rappresentanza pluralistica degli interessi.

Nel suo recente Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo (Mondadori, pp. 159, euro 18.00), Anne Applebaum non ha esitazioni a stabilire un parallelo tra quanto accade oggi e gli avvenimenti che portarono alla Seconda guerra mondiale. Trasferitasi in Polonia dopo il 1989, Applebaum – autrice di libri di successo sui gulag e le carestie ai tempi di Stalin – ha avuto modo di assistere in prima persona ai mutamenti politici del paese e soprattutto alle evoluzioni delle classi dirigenti. Dopo il crollo del Muro di Berlino, il mondo intellettuale era schierato con convinzione a favore dei valori occidentali, del cosmopolitismo, dell’apertura all’economia di mercato. Dopo trent’anni le cose sono invece radicalmente cambiate. E molti hanno iniziato a rivolgersi contro i principi liberali in nome di una nostalgia nazionalista. Non tanto, secondo Applebaum, perché abbiano subito i contraccolpi della crisi economica e della globalizzazione, ma per un complesso di fattori, tra cui le ambizioni personali, la delusione per le promesse non mantenute della meritocrazia, la litigiosità del dibattito politico e le trasformazioni comunicative.  Un simile fenomeno non riguarda però soltanto la Polonia o l’Ungheria. Secondo la giornalista americana si tratta infatti di una tendenza che accomuna l’intero Occidente. E che minaccia seriamente le istituzioni liberaldemocratiche.

Ben diversa è invece la lettura avanzata da Michael Lind nel suo La nuova lotta di classe. Élite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia (Luiss, pp. 240, euro 20.00). Secondo il politologo statunitense, alla base dell’ondata populista – e del successo ottenuto da Donald Trump – starebbe infatti una lacerazione profonda tra la classe lavoratrice e una «superclasse» contrassegnata dal possesso di elevati titoli di studio. Mentre la classe lavoratrice è al proprio interno frammentata (per settori e linee di divisione etnica), per Lind la «superclasse» - composta dalle élite «perlopiù native e perlopiù bianche» - è tanto compatta da poter indirizzare le scelte politiche del «neoliberismo tecnocratico». E i demagoghi populisti possono diventare i catalizzatori della protesta, senza poter fornire comunque risposte credibili alle sfide delle trasformazioni economiche e sociali.

La spiegazione di Lind è segnata da uno schematismo talvolta grossolano. E l’idea di una «superclasse» definita dal possesso di titoli di studio universitari risulta quantomeno inappropriata per il contesto europeo. Ma, insieme ad alcuni aspetti della sua interpretazione, non può essere sottovalutato il suo invito a riconoscere le radici delle tensioni degli ultimi anni in una nuova lacerazione – culturale, prima che politica – tra «dottori» e «popolo». Ai tempi di Perón, gli intellettuali e le classi dirigenti liquidarono i sostenitori del colonnello come «feccia», «descamisados» attratti soltanto dai piccoli benefici economici promessi dal regime. Ma non videro come, dietro quel sostegno popolare, vi fosse anche, come scriveva Sabáto, «una giustificata ansia di giustizia e di riconoscimento, di fronte a una società egoista e fredda, che sempre li aveva dimenticati». E oggi, dinanzi all’ascesa di nuovi demagoghi e al successo della loro propaganda, dovremmo evitare di cadere nello stesso errore, dimenticando di prendere sul serio le ragioni dei nuovi «descamisados».

Damiano Palano

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