di Valentina GhedaQuesta intervista è apparsa sul "Corriere della Sera - Edizione di Brescia" il 22 settembre 2021, in occasione della presentazione del volume di Paolo Corsini, Democrazie populiste (Scholé, 2021).
Se il XX secolo si concluse con una ventata di ottimismo nei confronti del processo di
democratizzazione in Occidente, l’inizio del XXI non ha confermato pienamente
tale prospettiva, scoprendo invece qualche scricchiolio e dietro front, verso
governi più autoritari, che lasciano ipotizzare una transizione verso la “postdemocrazia”.
Anticipando di una settimana l’apertura
di Librixia, fiera del Libro, di democrazie e populismi ne discorreranno
mercoledì 22 settembre alle 17.30, nel cortile di Palazzo Broletto, introdotti
dal professor Mario Bussi, l’ex sindaco bresciano Paolo Corsini, autore del
testo Democrazie populiste. Storia, teoria, politica (Scholé, 2021) con
Emilio Del Bono, Rosy Bindi e Damiano Palano. Direttore del Dipartimento di
Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, docente
di Teoria politica dell’età globale e Scienza politica, Palano è autore di
numerosi studi in merito come Bubble Democracy. La fine del pubblico e la
nuova polarizzazione (Scholé, 2020); La democrazia senza partiti
(Vita e Pensiero, 2015); La democrazia senza qualità. Le «promesse non
mantenute» della teoria democratica (Mimesis, 2015); Populismo
(Editrice Bibliografica, 2017), Il segreto del potere (Rubbettino,
2018).
Che cosa si intende dunque per
“post democrazia”? La democrazia è un modello che ancora corrisponde alle
esigenze dei giorni nostri?
La democrazia è, per sua natura, sempre
attraversata da “crisi”. Per le sue dinamiche interne, alimenta speranze e
aspettative che spesso non possono essere mantenute. Secondo diversi
osservatori la situazione di oggi è un po’ diversa. La nozione di
“postdemocrazia” fotografa un assetto in cui rimangono in vigore le “forme”
della democrazia (soprattutto la competizione elettorale), ma cambia lo
scenario generale: i partiti di massa si sgretolano, la partecipazione diventa
del tutto occasionale, la discussione pubblica assomiglia a uno spettacolo al
quale i cittadini assistono passivamente, mentre le vere decisioni vengono
prese fuori dai parlamenti. In sostanza, a parere di alcuni studiosi, ci
staremmo spostando da una “vera” democrazia e una “postdemocrazia”. Forse si
tratta di un’interpretazione troppo pessimista e influenzata da un’immagine mitizzata
dei decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale, ma sicuramente molti dei
pilastri su cui le nostre democrazie sono cresciute dopo il ’45 non ci sono
più: i partiti di massa, una strutturazione della società civile, un’economia
in crescita e un ordine internazionale fondato sul ruolo egemone degli Stati
Uniti. Ciò non significa che la democrazia sia destinata a crollare, come negli
anni Venti e Trenta del Novecento. Ma le tensioni ci sono. E comunque vadano le
cose nei prossimi anni, le nostre democrazie cambieranno ancora.
Alla luce del recente e
travagliato ritiro dall’Afghanistan, dopo venti anni di occupazione, si può
ancora affermare che la democrazia sia un modello “esportabile”?
La risposta che ci viene dalla
storia è ambivalente. Ci sono casi in cui l’esportazione con le armi della
democrazia ha avuto successo. Dopo il 1945, la vittoria degli Alleati avviò la
democratizzazione in Italia, Germania e Giappone. E i nuovi regimi riuscirono a
consolidarsi. Ma gli esiti infausti sono molto più numerosi. Con l’eccezione
degli interventi a Grenada (1983) e Panama (1989), i tentativi statunitensi di
esportare militarmente la democrazia hanno avuto risultato negativo. L’Afghanistan
è solo l’ultimo esempio di una serie di fallimenti, dai diversi interventi a
Cuba nella prima parte del Novecento ai casi del Vietnam, della Cambogia, di
Haiti e della Somalia. Esportare la democrazia non è dunque davvero
impossibile, ma il successo dell’operazione dipende da fattori che non si
possono costruire facilmente: per esempio, la presenza di stabili istituzioni
statali, la strutturazione della società civile e del sistema partitico, la
possibilità di costruire un ampio compromesso. Il grande errore commesso dopo
il 1989 è stato ritenere che il mondo extra-europeo dovesse seguire il binario
della democratizzazione occidentale. Le cose si sono rilevate invece molto più
complicate.
Gli ultimi decenni e le crisi
globali che si sono susseguite - da quella economica a quella sanitari - hanno innescato
quella che viene definita “sindrome populista”, sia in Europa che nel resto del
mondo. Quali fattori hanno innescato questo processo?
Dopo la crisi economica globale
del 2008 si sono intrecciate diverse linee di crisi: una crisi
economico-sociale, che ha colpito il “ceto medio” e che ha aumentato la
percezione di insicurezza; una crisi di tipo culturale, in virtù della quale i
cittadini occidentali si sentono oggi minacciati dall’ascesa degli “altri” e
dall’“invasione” dei migranti; una crisi politica, che ha ulteriormente
indebolito la fiducia nei confronti della classe politica e dei partiti
“tradizionali”. In questo intreccio, le forze anti-establishment hanno potuto sfruttare
le potenzialità della rivoluzione comunicativa degli smartphone e dei social
network: strumenti che non consentono di costruire nuove culture politiche, ma
sono formidabili canali di delegittimazione dell’avversario. Tutte queste
dinamiche non sono congiunturali, ma ci accompagneranno a lungo. Non è affatto escluso
che i populisti che abbiamo conosciuto nell’ultimo decennio escano di scena. Ma
è davvero probabile che la “sindrome populista” si ripresenterà, magari con
nuovi protagonisti, anche dopo la fine dell’emergenza pandemica.
Valentina Gheda