Di Damiano Palano
Il 2 aprile del 1917, il presidente americano Woodrow Wilson si presentò al Congresso per richiedere il sostegno all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Il conflitto stava sconvolgendo il Vecchio continente da quasi tre anni e nell’opinione pubblica d’oltreoceano erano andate crescendo le posizioni che auspicavano l’abbandono dell’isolazionismo. Esponendo i celebri «quattordici punti», Wilson non si limitò però a richiedere che le camere si esprimessero a favore della guerra contro la Germania. Il presidente illustrò la visione di un nuovo ordine internazionale, ben lontano da quello contrassegnato dalla diplomazia segreta, dalla politica di potenza, dal militarismo. Il nuovo ordine doveva fondarsi sulla soppressione dei trattati segreti, sulla libertà del commercio marittimo, sulla riduzione degli armamenti, sul principio di autodeterminazione nazionale e sulla creazione di un’organizzazione internazionale capace di tutelare la sicurezza e l’integrità degli Stati membri. Wilson chiedeva dunque ai propri concittadini di entrare in guerra con uno spirito radicalmente differente da quello che in Europa aveva scatenato conflitti sanguinosi. La vittoria doveva infatti puntare a rendere il mondo un posto «sicuro per la democrazia».
La realizzazione del progetto di Wilson, come sappiamo, si rivelò subito ben più problematica di quanto il presidente americano ritenesse. Alla fine della guerra, gli Stati Uniti decisero infatti di trincerarsi nel loro tradizionale isolazionismo, senza entrare nella Società delle Nazioni. A Versailles ricomparirono in scena le ambizioni di potenza dei vincitori europei, e lo stesso principio di autodeterminazione dei popoli innescò tensioni laceranti. Nonostante tutti questi limiti, Wilson può essere davvero ritenuto il primo grande alfiere – se non davvero il padre – dell’internazionalismo liberale che ha plasmato l’ultimo secolo. Ed è anche per questo che G. John Ikenberry utilizza proprio le parole del presidente dei «quattordici punti» per intitolare il suo ultimo libro, Un mondo sicuro per la democrazia. Internazionalismo liberale e crisi dell’ordine globale (Vita e Pensiero, pp. 389, euro 30.00).
In questo nuovo lavoro, il politologo di Princeton – che
è uno dei principali esponenti contemporanei della scuola «liberale» di
Relazioni Internazionali – dipinge uno straordinario affresco delle origini e
delle trasformazioni di quello specifico internazionalismo di cui Wilson fu il
visionario precursore. E porta innanzitutto in superficie i diversi fili
intellettuali che, al principio del Novecento, si intrecciarono in una trama
unitaria e in un insieme organico di proposte politiche. In precedenza, a
nutrire l’ambizione di un mondo più pacifico erano stati per esempio Adam
Smith, Jeremy Bentham e Immanuel Kant. Ognuno di loro aveva riflettuto sulle condizioni
in grado di ridurre il ricorso alla guerra, giungendo così a sottolineare, a
seconda dei casi, l’importanza dello sviluppo di relazioni commerciali, di
istituzioni internazionali e di un’organizzazione sovranazionale di repubbliche.
Nella sua ricostruzione Ikenberry torna a queste matrici intellettuali, ma si
sofferma in special modo sulla svolta rappresentata da Wilson e poi da Franklin
D. Roosevelt, perché entrambi i presidenti contribuirono a suo avviso in modo
determinante alla costruzione dell’ordine internazionale liberale novecentesco.
Il politologo invita
però a non considerare l’internazionalismo liberale come un progetto dai
contorni utopistici volto a trasformare il mondo. Il punto principale di questa
visione è infatti rappresentato dalla difesa della democrazia liberale. Quando
Wilson sosteneva che gli Stati Uniti dovevano entrare in guerra per rendere il mondo
un posto «sicuro per la democrazia», non puntava cioè a esportare la democrazia
liberale nel mondo. L’obiettivo era semplicemente quello di creare le
condizioni internazionali che ponessero le democrazie al riparo da tensioni,
turbolenze, conflitti. Il progetto wilsoniano si rivelò in parte inattuabile
dopo la Prima guerra mondiale, e d’altronde si scontrò con la stessa decisione
americana di non sostenere la Società delle Nazioni. Il fragile ordine liberale
fu così rapidamente travolto dalla chiusura economica e dalla formazione di
blocchi antagonisti. Ma vent’anni dopo, scendendo in campo contro potenze
dell’Asse, Washington riprese il vecchio progetto, in cui Roosevelt iniettò una
consistente dose di realismo. Il nuovo ordine internazionale liberale, le cui
basi furono gettate a Bretton Woods, avrebbe dovuto innanzitutto promuovere un’economia
internazionale aperta, in cui le democrazie avrebbero trovato la garanzia di
una crescita stabile. E, rispetto allo scenario immaginato da Wilson, l’ordine
nato dopo la Secondo guerra mondale si fondò soprattutto sull’egemonia degli
Stati Uniti, coinvolgendo solo i paesi occidentali.
Dopo l’Ottantanove le
cose sono cambiate, e l’ordine liberale ha assunto una dimensione planetaria. E
per alcuni proprio da questa estensione è scaturita la crisi. Da più di un
decennio, non pochi politologi hanno iniziato infatti a riconoscere degli
evidenti segnali di logoramento nel progetto liberale. John Mearsheimer,
rispolverando i vecchi sospetti degli studiosi realisti, ha visto nel
liberalismo un’intrinseca tendenza espansionista, destinata a generare
conflitti. Altri, come per esempio Charles Kupchan, hanno sottolineato invece
la novità di uno scenario che non avrà più come protagonisti i paesi occidentali.
Ma al centro della discussione è stata posta soprattutto la «trappola di
Tucidide», ossia l’ipotesi che, prima o poi, gli Stati Uniti si trovino a fare
i conti con l’ascesa cinese. Secondo Ikenberry, la direzione verso cui guardare
nel prossimo futuro è invece ancora quella indicata da Wilson un secolo fa: «creare
uno ‘spazio’ internazionale per la democrazia liberale, conciliare i dilemmi
della sovranità e dell’interdipendenza, preservare le protezioni e i diritti entro
e tra gli Stati». Naturalmente il politologo di Princeton non può evitare di
considerare le crepe che sembrano minare la stabilità dell’assetto sorto dopo
il 1945, e che non riguardano soltanto l’ascesa di nuove potenze «illiberali». Proprio
negli Stati Uniti la presidenza di Donald Trump ha contestato il principio
dell’apertura commerciale su cui si fondava il sistema di Bretton Woods. Richieste
di «proteggersi» dalle insidie dei mercati globali sono inoltre emerse più o
meno in tutti paesi occidentali. Qualche anno fa, Ikenberry tendeva a
ridimensionare le preoccupazioni sullo stato di salute dell’ordine liberale. I
successi conseguiti da Cina e Russa, osservava, dipendevano proprio dalla loro
integrazione all’interno del sistema globale di scambi commerciali. E, inoltre,
il loro progetto autocratico non sembrava poter condurre realmente a una nuova
contrapposizione bipolare. Oggi lo studioso sembra invece guardare con maggiore
preoccupazione all’ascesa cinese. L’integrazione del gigante asiatico nell’ordine
liberale non ha infatti condotto a misure di liberalizzazione politica, e ha
piuttosto rafforzato le ambizioni geopolitiche di Pechino. La soluzione per
Ikenberry non va però nella direzione di una revoca dei principi
dell’internazionalismo liberale. L’Occidente dovrà invece concepire soluzioni
adeguate alle sfide del cambiamento climatico e alla realtà dei flussi globali,
combinando lo spirito visionario di Wilson e il pragmatismo di Roosevelt. Ma anche
se non tutti si troveranno probabilmente a concordare con le sue proposte, è
difficile non riconoscere l’importanza del nesso che sottolinea nel suo libro.
E cioè che nei prossimi decenni, pur in uno scenario completamente diverso da
quello di un secolo fa, l’esistenza di un ordine internazionale liberale rimarrà
ancora la condizione principale – se non certo l’unica – per rendere il mondo
un «posto sicuro» per la democrazia.
Damiano Palano
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