di Damiano Palano
«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La formula solenne che troviamo nel primo articolo della nostra Carta costituzionale è stata spesso invocata negli ultimi decenni, seppur con intenti differenti. Alcuni ne hanno richiamato soprattutto la prima parte, per lamentare che in realtà al popolo era stato sottratto lo scettro del potere. Mentre altri, mettendo in guardia dalla seduzione «populista», hanno attirato l’attenzione sul fatto che il potere sovrano del popolo può esercitarsi soltanto nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione, e cioè mediante i meccanismi e vincoli della rappresentanza parlamentare. Simili discussioni non sono nuove. Il problema di incardinare la sovranità del popolo all’interno dell’alveo istituzionale, e dunque all’interno di una serie di limitazioni invalicabili, non è infatti solo un prodotto delle tensioni che vivono le democrazie contemporanee. All’indomani della Seconda guerra mondiale, anche i costituenti italiani si trovarono alle prese con quel cruciale interrogativo. Per molti di loro, non poteva infatti essere sufficiente riprendere i modelli che avevano preceduto l’avvento del fascismo. La politica di massa e le grandi promesse della democrazia richiedevano cioè strumenti nuovi, capaci di realizzare la promessa di rendere il popolo sovrano. Un esempio davvero importante della discussione che si svolse nei mesi che precedettero e accompagnarono la stesura della Carta è senz’altro offerto da La teoria del potere costituente di Costantino Mortati, di recente riproposto in un’edizione curata da Marco Goldoni (Quodlibet, pp. 156, euro 16.00).
In vista della discussione sulle forme istituzionali da dare alla nuova stagione democratica, in quel testo Mortati – che nel 1946 fu eletto alla Costituente nelle liste della Democrazia Cristiana – si poneva il problema di come intendere il «potere costituente». E riproponeva alcune delle tesi formulate nel quindicennio precedente, nel corso di una riflessione che – per quanto segnata dalla temperie ideologica impressa dalla dittatura – esercitò un’influenza notevole anche sul modo in cui i costituenti immaginarono la nascente democrazia di massa. Nel suo famoso libro La costituzione in senso materiale, pubblicato nel 1940, Mortati aveva sostenuto che, per comprendere davvero cosa fosse una costituzione, non ci si potesse limitare a considerare le disposizioni normative, ma si dovesse individuare la «forza materiale» che la sostiene e che promuove i fini politici fondamentali. Riproponendo questa visione all’indomani della guerra, Mortati non riteneva esistesse un vero e proprio scarto tra potere costituente e potere costituito: nel momento cui emerge, osservava, il potere costituente innesca già un processo di organizzazione e di differenziazione sociale. In altre parole, quando nella società si delinea una «forza materiale», il processo di differenziazione sociale e dunque la formazione normativa hanno già preso avvio. In questo senso, Mortati scriveva allora che, per l’esercizio del potere costituente, «è necessario fare riferimento al popolo articolantesi secondo un principio di aggregazione più complesso, cioè raccolto in un ordine concreto presidiato da un’idea politica, e rivolto al consolidamento del medesimo attraverso la creazione di un potere coattivo». Nella nuova stagione democratica, la «forza materiale» in grado di strutturare la società doveva essere però riconosciuta nei partiti, intesi nella loro pluralità. Ed era anche per questo che il giurista calabrese si esprimeva con forza a favore del sistema elettorale proporzionale.
Rileggendo
oggi le pagine di Mortati non possiamo che riconoscere i limiti di una
costruzione dottrinaria che assegnava pressoché esclusivamente ai partiti il compito
di tradurre in realtà politica la sovranità popolare. Ed è persino superfluo
ricordare come l’attuazione di quel modello fosse destinata a rivelarsi
deludente, incompleta e tutt’altro che priva di implicazioni negative. Ma forse
ci possiamo domandare se proprio quella concezione del partito che i
Costituenti posero alle fondamenta dell’edificio repubblicano non fosse una
condizione cruciale della democrazia. Tanto che oggi possiamo persino chiederci
se, insieme a quelle grandi (e spesso persino inquietanti) macchine che furono
i partiti di massa, non si vadano sgretolando anche le basi su cui si reggeva la
democrazia novecentesca.
Damiano Palano
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