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lunedì 15 marzo 2021

L’ossessione per le identità. Un libro provocatorio di Douglas Murray

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Douglas Murray nel suo La pazzia delle folle. Gender, razza e identità (Neri Pozza, pp. 398, euro 23.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire"

Nel 1841 il giornalista scozzese Charles Mackay raccolse in un gustoso libretto sulla Pazzia delle folle le storie di alcune «straordinarie illusioni collettive», spesso legate a travolgenti crisi finanziarie. Come per esempio quella scatenata dalla «tulipomania» del 1634, che fece lievitare il prezzo dei bulbi di tulipano fino a farli diventare più preziosi dell’oro. Anche se prende in prestito il titolo da Mackay, il saggista e commentatore britannico Douglas Murray nel suo La pazzia delle folle. Gender, razza e identità (Neri Pozza, pp. 398, euro 23.00) non parla di turbolenze finanziarie o di altre questioni economiche. Il suo libro si inserisce infatti in un filone in cui possono essere collocati per esempio testi come La cultura del narcisismo di Christopher Lasch (anch’esso appena ripubblicato da Neri Pozza) o La cultura del piagnisteo di Robert Hughes. Polemista brillante, Murray rivolge il suo sguardo verso l’ossessione per l’identità che negli ultimi tre decenni ha conquistato spazi nel dibattito filosofico e che poi è arrivata sulla scena politica. La proliferazione di rivendicazioni settoriali e di campagne volte a difendere le identità e i diritti di gruppi minoritari è stata spesso spiegata evocando il ruolo dei nuovi media e in particolare dei social network. Per Murray invece i motivi vanno ricercati altrove, e cioè nella risposta che nel corso degli anni Ottanta venne fornita alla crisi del marxismo. Molti intellettuali radicali, pur abbandonando la visione di una società divisa in classi, non rinunciarono all’idea che fosse necessario battersi per il superamento delle ingiustizie. E giunsero così a costruire quella che per Murray è «una visione ideologica del mondo che promette di porre rimedio non solo a ogni ingiustizia nella sua vita, ma a ogni ingiustizia sulla Terra». Di fatto, la «politica identitaria» non punta alla costruzione di grandi soggetti collettivi. Più semplicemente, «atomizza la società in diversi gruppi d’interesse in base al sesso (o genere), alla razza, alle preferenze sessuali e così via». E dunque l’effetto è quello di esasperare le divisioni esistenti, o anche di generarne di nuove.

Il discorso si rivolge soprattutto alla centralità assegnata a partire dagli anni Ottanta e Novanta alle discriminazioni razziali, e più in generale alla tendenza a ricercare tracce di discriminazione anche in terreni all’apparenza neutrali. Ma questa stessa logica – osserva Murray – si è replicata a proposito dei rapporti tra uomini e donne, e poi in relazione alle discriminazioni legate agli orientamenti sessuali e alla stessa determinazione del «genere». L’intento del saggista britannico è comunque mettere in luce come la logica della politica identitaria, frutto di un sistema liberale che garantisce ai singoli diritti e libertà, rischi di logorare le basi proprio di quel sistema. «L’uguaglianza razziale, i diritti delle minoranze e quelli delle donne sono fra i migliori prodotti del liberalismo», ma «come fondamenta», scrive, «sono a dir poco destabilizzanti». E trasformarli in un cardine equivale addirittura a «rovesciare uno sgabello da bar e poi provare a starci in equilibrio».

A dispetto di alcune rappresentazioni talvolta caricaturali della discussione filosofica, il ragionamento di Murray porta efficacemente alla luce la lunga catena di eccessi, di paradossi e di autentiche assurdità che la politica identitaria alimenta. Una delle obiezioni più serie riguarda la convinzione che le diverse richieste di giustizia sociale interagiscano tra loro. “La matrice dell’oppressione”, scrive in questo senso, “non è un grosso cubo di Rubik in attesa che ogni quadrato venga allineato agli esperti di scienze sociali”, bensì “consiste in un insieme di richieste non coordinate tra loro”. Il grande punto critico al fondo della “politica dell’identità” consiste cioè nel ritenere che tutte le richieste di “giustizia sociale” siano tra loro compatibili. Ma naturalmente le cose sono più complesse, anche perché ogni identità implica sempre una differenziazione, delle esclusioni, gerarchie di priorità. E tutto ciò implica che persino le battaglie contro le discriminazioni producono nuove linee di discriminazione.

Imputare solo alla discussione teorico-filosofica la «pazzia delle folle», come Murray propone di fare, finisce probabilmente col sopravvalutare il ruolo degli intellettuali e col sottovalutare una serie di mutamenti culturali, sociali e tecnologici. Ma non è questo il rischio principale che si può riconoscere nell’operazione del saggista britannico. Muovendosi su un terreno scivoloso, la sua polemica sembra piuttosto reggersi su un’autocompiaciuta rappresentazione delle società occidentali, nelle quali il benessere e la garanzia delle libertà individuali renderebbero del tutto immaginarie le ingiustizie che vengono denunciate. Molti indicatori, come ben sappiamo, dimostrano invece che all’interno delle società occidentali le diseguaglianze sono sensibilmente cresciute nel corso degli ultimi trent’anni. La cosa davvero sorprendente non è dunque che qualcuno invochi più giustizia sociale, bensì la scomparsa, dalle rivendicazioni della politica dell’identità, di quella «questione sociale» che segnò il Ventesimo secolo.

A dispetto delle forzature, i timori di Murray sulle possibili conseguenze dei conflitti identitari non possono comunque essere liquidati. La «pazzia delle folle», a suo avviso, non è infatti destinata solo ad accrescere l’atomizzazione sociale. Ma rischia di esacerbare le contrapposizioni, la violenza, il conflitto. A inalberare la bandiera dei conflitti ‘materiali’ sono in effetti soprattutto quei movimenti populisti, nativisti e sovranisti che puntano a dar voce alla reazione dell’«uomo della strada» contro i valori del «cosmopolitismo liberale». E lo spazio del confronto, del compromesso e della conciliazione sembra restringersi sempre di più.

Damiano Palano


 

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