Nel 1841 il giornalista scozzese Charles
Mackay raccolse in un gustoso libretto sulla Pazzia delle folle le
storie di alcune «straordinarie illusioni collettive», spesso legate a
travolgenti crisi finanziarie. Come per esempio quella scatenata dalla
«tulipomania» del 1634, che fece lievitare il prezzo dei bulbi di tulipano fino
a farli diventare più preziosi dell’oro. Anche se prende in prestito il titolo da
Mackay, il saggista e commentatore britannico Douglas Murray nel suo La
pazzia delle folle. Gender, razza e identità (Neri Pozza, pp. 398, euro
23.00) non parla di turbolenze finanziarie o di altre questioni economiche. Il
suo libro si inserisce infatti in un filone in cui possono essere collocati per
esempio testi come La cultura del narcisismo di Christopher Lasch (anch’esso
appena ripubblicato da Neri Pozza) o La cultura del piagnisteo di Robert
Hughes. Polemista brillante, Murray rivolge il suo sguardo verso l’ossessione
per l’identità che negli ultimi tre decenni ha conquistato spazi nel dibattito
filosofico e che poi è arrivata sulla scena politica. La proliferazione di
rivendicazioni settoriali e di campagne volte a difendere le identità e i
diritti di gruppi minoritari è stata spesso spiegata evocando il ruolo dei
nuovi media e in particolare dei social network. Per Murray invece i motivi
vanno ricercati altrove, e cioè nella risposta che nel corso degli anni Ottanta
venne fornita alla crisi del marxismo. Molti intellettuali radicali, pur
abbandonando la visione di una società divisa in classi, non rinunciarono
all’idea che fosse necessario battersi per il superamento delle ingiustizie. E
giunsero così a costruire quella che per Murray è «una visione ideologica del
mondo che promette di porre rimedio non solo a ogni ingiustizia nella sua vita,
ma a ogni ingiustizia sulla Terra». Di fatto, la «politica identitaria» non
punta alla costruzione di grandi soggetti collettivi. Più semplicemente,
«atomizza la società in diversi gruppi d’interesse in base al sesso (o genere),
alla razza, alle preferenze sessuali e così via». E dunque l’effetto è quello
di esasperare le divisioni esistenti, o anche di generarne di nuove.
Il discorso si rivolge soprattutto alla centralità assegnata a partire dagli anni Ottanta e Novanta alle discriminazioni razziali, e più in generale alla tendenza a ricercare tracce di discriminazione anche in terreni all’apparenza neutrali. Ma questa stessa logica – osserva Murray – si è replicata a proposito dei rapporti tra uomini e donne, e poi in relazione alle discriminazioni legate agli orientamenti sessuali e alla stessa determinazione del «genere». L’intento del saggista britannico è comunque mettere in luce come la logica della politica identitaria, frutto di un sistema liberale che garantisce ai singoli diritti e libertà, rischi di logorare le basi proprio di quel sistema. «L’uguaglianza razziale, i diritti delle minoranze e quelli delle donne sono fra i migliori prodotti del liberalismo», ma «come fondamenta», scrive, «sono a dir poco destabilizzanti». E trasformarli in un cardine equivale addirittura a «rovesciare uno sgabello da bar e poi provare a starci in equilibrio».
A dispetto di alcune
rappresentazioni talvolta caricaturali della discussione filosofica, il
ragionamento di Murray porta efficacemente alla luce la lunga catena di
eccessi, di paradossi e di autentiche assurdità che la politica identitaria
alimenta. Una delle obiezioni più serie riguarda la convinzione che le diverse
richieste di giustizia sociale interagiscano tra loro. “La matrice
dell’oppressione”, scrive in questo senso, “non è un grosso cubo di Rubik in
attesa che ogni quadrato venga allineato agli esperti di scienze sociali”,
bensì “consiste in un insieme di richieste non coordinate tra loro”. Il grande
punto critico al fondo della “politica dell’identità” consiste cioè nel
ritenere che tutte le richieste di “giustizia sociale” siano tra loro
compatibili. Ma naturalmente le cose sono più complesse, anche perché ogni
identità implica sempre una differenziazione, delle esclusioni, gerarchie di
priorità. E tutto ciò implica che persino le battaglie contro le
discriminazioni producono nuove linee di discriminazione.
Imputare solo alla
discussione teorico-filosofica la «pazzia delle folle», come Murray propone di
fare, finisce probabilmente col sopravvalutare il ruolo degli intellettuali e
col sottovalutare una serie di mutamenti culturali, sociali e tecnologici. Ma
non è questo il rischio principale che si può riconoscere nell’operazione del
saggista britannico. Muovendosi su un terreno scivoloso, la sua polemica sembra
piuttosto reggersi su un’autocompiaciuta rappresentazione delle società
occidentali, nelle quali il benessere e la garanzia delle libertà individuali
renderebbero del tutto immaginarie le ingiustizie che vengono denunciate. Molti
indicatori, come ben sappiamo, dimostrano invece che all’interno delle società
occidentali le diseguaglianze sono sensibilmente cresciute nel corso degli
ultimi trent’anni. La cosa davvero sorprendente non è dunque che qualcuno
invochi più giustizia sociale, bensì la scomparsa, dalle rivendicazioni della
politica dell’identità, di quella «questione sociale» che segnò il Ventesimo
secolo.
A dispetto delle forzature,
i timori di Murray sulle possibili conseguenze dei conflitti identitari non
possono comunque essere liquidati. La «pazzia delle folle», a suo avviso, non è
infatti destinata solo ad accrescere l’atomizzazione sociale. Ma rischia di esacerbare
le contrapposizioni, la violenza, il conflitto. A inalberare la bandiera dei
conflitti ‘materiali’ sono in effetti soprattutto quei movimenti populisti,
nativisti e sovranisti che puntano a dar voce alla reazione dell’«uomo della
strada» contro i valori del «cosmopolitismo liberale». E lo spazio del
confronto, del compromesso e della conciliazione sembra restringersi sempre di
più.
Damiano Palano
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