di Damiano Palano
Questa recensione a L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione di Mariano Croce e Andrea Salvatore (Quodlibet, pp. 173, euro 16.00), Carl Schmitt dello stesso Salvatore (Derive Approdi, pp. 88, euro 9.00) e a La situazione della scienza giuridica europea di Schmitt (Quodlibet, pp. 127, euro 14.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 18 marzo 2021.
In
una conversazione radiofonica degli anni Settanta Carl Schmitt osservò che la
sua fama di «decisionista» era piuttosto singolare. «Il tipo decisionista»,
disse, «non arriverà mai a elaborare una filosofia o teoria del decisionismo».
E, riferendosi a se stesso, confessava semmai la difficoltà di prendere
decisioni. Anche se si trattava probabilmente di una battuta di spirito, la
piena identificazione di Schmitt con il «decisionismo» è tutt’altro che scontata.
L’incipit fulminante della Teologia politica (1922) – «Sovrano è chi
decide sullo stato di eccezione» - ha senza dubbio consolidato l’idea che per
il giurista tedesco la decisione sia fondativa dell’ordine politico. E sappiamo
bene quanto l’idea dello «stato di eccezione» - non di rado confuso con lo
«stato di emergenza» - continui a evocare forti suggestioni. Ma una lettura più
attenta delle opere di Schmitt suggerisce anche interpretazioni alternative. Tanto
che la stessa fama di «decisionista», che ha circondato per un secolo il
pensatore di Plettenberg, potrebbe essere quantomeno ridimensionata.
Questa tesi è sostenuta in modo convincente da Mariano Croce e Andrea Salvatore in L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione (Quodlibet, pp. 173, euro 16.00), oltre che dallo stesso Salvatore nel volumetto Carl Schmitt (Derive Approdi, pp. 88, euro 9.00). L’intento dei due studiosi è quello di riaprire il ‘caso Schmitt’. Non certo tornando a ripercorrere le motivazioni che nel 1933 indussero il giurista a sostenere pubblicamente il nascente regime hitleriano (benché in precedenza avesse argomentato la necessità di porre fuori legge il partito nazionalsocialista). Ma mettendo piuttosto in questione la lettura che riconduce i fili della riflessione schmittiana alla centralità della «decisione». Secondo Croce e Salvatore la stagione decisionista sarebbe circoscritta a un periodo molto breve, e cioè ai primi anni Venti, perché già a partire dal 1927-28 lo sguardo di Schmitt sembra spostarsi altrove. L’individuazione del cuore della sovranità nella capacità di decidere sullo «stato di eccezione» sarebbe così soprattutto il riflesso della polemica contro la Costituzione di Weimar, oltre che contro Hans Kelsen e Max Weber, i quali – in modo molto diverso – avevano ritenuto che la legittimità potesse risolversi nella legalità. Secondo Schmitt l’ordinamento giuridico doveva poggiare invece su una base «politica», che nel 1922 era ritrovata appunto nel potere di decidere sullo stato di eccezione. Ben presto Schmitt si persuase però che questa soluzione non fosse sufficiente. La «decisione» rischiava cioè di rivelarsi come una sorta di contenitore vuoto, che poteva essere riempito di qualsiasi contenuto. In questo senso, anche la famosa definizione del «politico» rischiava di risultare tautologica. Quando riconduceva infatti il «politico» alla distinzione tra amicus e hostis, tra amico e «nemico pubblico» (cioè nemico dell’intera comunità), Schmitt sembrava presupporre l’esistenza di una comunità. Ma, al tempo stesso, il sovrano, capace di decidere sullo stato di eccezione, pareva diventare in fondo il creatore della comunità politica. Il decisionismo degli anni Venti non riusciva cioè a spiegare, come scrive Salvatore, «né da dove origini il sovrano», né tantomeno «perché alcuni individui si riconoscano come amici» e «come faccia un’unica decisione originaria a disegnare i contorni di un ordinamento».
Consapevole del circolo vizioso in cui l’enfasi sulla decisione lo aveva condotto, Schmitt cercò così di radicare il diritto su basi ben più solide. Già nel 1928, nella Dottrina della Costituzione, l’ancoraggio della decisione era proprio la costituzione. Ma la svolta si delineò soprattutto a partire dagli anni Trenta. Confrontandosi con studiosi come Maurice Hauriou e Santi Romano, Schmitt iniziò infatti a vedere – accanto al normativismo di Kelsen e al decisionismo, che aveva in precedenza condiviso – anche un terzo tipo di pensiero giuridico: l’istituzionalismo. In generale, l’istituzionalismo ritiene che il diritto sia non il prodotto dall’autorità, bensì la conseguenza del coordinamento cui gli individui danno origine nella loro spontanea interazione. In altre parole, per gli istituzionalisti la radice del diritto risiede nelle regole che la cooperazione tra individui spontaneamente produce. Pur recependo questa impostazione, Schmitt ne fornì una declinazione specifica, che non rinunciava del tutto all’elemento decisionista. In questa nuova visione, il sovrano non era comunque più il demiurgo dell’ordine politico e giuridico, perché l’ordinamento giuridico traeva la propria linfa vitale da un «ordinamento concreto»: un ordine articolato in un complesso di istituzioni, che regolano e coordinano le azioni dei singoli, e di cui il sovrano è chiamato a selezionare le specifiche istituzioni da proteggere.
Lungo questo percorso, Schmitt avrebbe anche ridefinito il ruolo dei giuristi, e di questo mutamento teorico è testimonianza eclatante il saggio La situazione della scienza giuridica europea, ripubblicato di recente nella versione del 1950 (Quodlibet, pp. 127, euro 14.00). Protestando contro la «motorizzazione del diritto», che con la Prima guerra mondiale aveva visto moltiplicarsi i provvedimenti legislativi, Schmitt tornava a riconoscere il ruolo cruciale, per l’esperienza europea, del diritto romano. E riprendendo l’appello pronunciato nel 1814 da Friedrich Carl von Savigny, attribuiva così alla scienza giuridica la missione di «ultimo asilo della coscienza giuridica». In una simile conclusione (come d’altronde in molti degli scritti schmittiani successivi al 1945) era tutt’altro che assente un intento autoassolutorio. Ma quell’approdo, che segnava l’abbandono del decisionismo, poteva anche essere letto come l’amaro bilancio di una stagione in cui molti cultori della scienza giuridica – e tra questi lo stesso Schmitt – si erano di fatto prestati a legittimare la distruzione dello Stato di diritto.
Damiano Palano
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