Da molte pagine di Wolin traspare in modo evidente la protesta contro Bush e la guerra in Iraq. E proprio per questo alcuni degli argomenti sviluppati nel volume possono apparire oggi superati. Sarebbe però probabilmente superficiale liquidare Democrazia S.p.A. come il tardivo sfogo di un intellettuale impegnato, o come la romantica celebrazione di un’irrealizzabile democrazia partecipativa. Al fondo della vocazione 'totalitaria' sta infatti, secondo Wolin, soprattutto la perdita di riferimenti al bene comune, se non, addirittura, l’idea che un bene comune non esista affatto. E, d’altronde, l’antidoto cui pensa Wolin non è per niente romantico, perché evoca l’immagine di una «controélite di amministratori pubblici democratici», in grado di recuperare – e di far recuperare ai cittadini – il senso stesso della convivenza comune. Perché, come scrive, «alla base dell’idea di collettività c’è la convinzione che la cura e le sorti della cosa pubblica siano di interesse comune», «che siamo tutti coinvolti perché ciascuno di noi è implicato nelle azioni e nelle decisioni che vengono giustificate a nome nostro».
Pagine
sabato 27 marzo 2021
Il Leviatano è la democrazia? Il "totalitarismo rovesciato" secondo Sheldon Wolin. Dieci anni dopo
Da molte pagine di Wolin traspare in modo evidente la protesta contro Bush e la guerra in Iraq. E proprio per questo alcuni degli argomenti sviluppati nel volume possono apparire oggi superati. Sarebbe però probabilmente superficiale liquidare Democrazia S.p.A. come il tardivo sfogo di un intellettuale impegnato, o come la romantica celebrazione di un’irrealizzabile democrazia partecipativa. Al fondo della vocazione 'totalitaria' sta infatti, secondo Wolin, soprattutto la perdita di riferimenti al bene comune, se non, addirittura, l’idea che un bene comune non esista affatto. E, d’altronde, l’antidoto cui pensa Wolin non è per niente romantico, perché evoca l’immagine di una «controélite di amministratori pubblici democratici», in grado di recuperare – e di far recuperare ai cittadini – il senso stesso della convivenza comune. Perché, come scrive, «alla base dell’idea di collettività c’è la convinzione che la cura e le sorti della cosa pubblica siano di interesse comune», «che siamo tutti coinvolti perché ciascuno di noi è implicato nelle azioni e nelle decisioni che vengono giustificate a nome nostro».
venerdì 26 marzo 2021
Il declino dei partiti in attesa di un vaccino contro l’anti-politica. Un articolo di Gianfranco Fabi
di Gianfranco Fabi*
In pochi giorni è completamente cambiato lo scenario della politica italiana. In rapida successione abbiamo assistito: alla crisi del Governo dell’alleanza Pd-5Stelle, agli affannosi e pasticciati tentativi di raccogliere nuovi voti per la vecchia maggioranza, all’incarico a Mario Draghi, alla formazione di un Governo di (quasi) unità nazionale, alla rottura dell’alleanza di centro-destra, alla spaccatura del Movimento 5Stelle con l’avvio del processo per l’insediamento di Giuseppe Conte come virtuale nuovo capo politico, alle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd con la successiva rapida nomina di Enrico Letta. Il tutto in una società italiana sempre più divisa e angosciata per le ondate della pandemia e per le difficoltà con cui avanza la strategia delle vaccinazioni.
Il declino dei partiti
Un bilancio è perlomeno prematuro, ma c’è nell’analisi politica un elemento di metodo che sta diventando sempre più importante. Non basta infatti leggere queste dinamiche con i vecchi schemi, ma è almeno utile guardare almeno in controluce le trasformazioni sociali, trasformazioni sempre più accelerate per l’effetto congiunto di pandemia a rivoluzione tecnologica.
Il primo dato di fondo è allora l’evidente declino della tradizionale forma del partito, una forma di cui il Pd è stato e probabilmente resta il più fedele rappresentante.
Le due principali aggregazioni politiche, i 5S e la Lega sono infatti qualcosa di diverso dai partiti del passato, figli in parte illegittimi di quella “società liquida” a cui sono affezionati coloro che hanno letto i risvolti di copertina dei libri di Zigmunt Baumann (copyright Edmondo Berselli).
Il simulacro di democrazia diretta
Così i Cinque stelle come la Lega hanno caratteri comuni: sono un partito personale dei leader senza alcuna logica di partecipazione reale e personale degli iscritti. Il simulacro di democrazia diretta degli iscritti alla piattaforma Rousseau dimostra quanto sia velleitario simulare una condivisione delle scelte.
Lega e 5S hanno peraltro caratteri e ispirazioni chiaramente post-ideologiche. Una dimensione macroscopica per i 5S che sono passati con un’evoluzione senza scrupoli dall’alleanza con la Lega a quella con il Pd per poi accettare, pur con qualche mal di pancia, il Governo “tecnico-politico” di Mario Draghi.
E nella Lega convivono l’ansia barricadiera di Matteo Salvini con il pragmatismo europeista di Giancarlo Giorgetti nel più classico schema del partito di lotta e di Governo. Una Lega peraltro in difficoltà di fronte alle clamorose inefficienze del sistema sanitario nella regione, la Lombardia, dove è al Governo dal 1994 prima nella giunta guidata da Roberto Formigoni, poi conquistando anche la presidenza con Roberto Maroni e negli ultimi tre anni con Attilio Fontana.
La tragedia greca del Pd
Del tutto diverso, ma non meno rilevante, è la travagliata vicenda del Partito democratico, una vicenda da tragedia greca con l’onda drammatica delle dimissioni di un segretario che annuncia pubblicamente di vergognarsi del partito che lui stesso ha guidato negli ultimi mesi.
Quello che unisce tutte queste vicende, e che spiega la convulsa evoluzione della politica italiana, è indubbiamente lo scenario economico, ma soprattutto sociale, in cui si è trovata l’Italia per fattori esterni, innanzitutto la pandemia, che si sono innestati su di una situazione di complessiva fragilità.
Non si scopre nulla di nuovo se si parla di deriva dei partiti, di dispersione sociale, di continua perdita di competitività sul fronte economico. Elementi che si sono innestati su di una dinamica più profonda che ha frammentato ed eroso il consenso politico e compromesso il rapporto tra i cittadini e lo Stato.
Gli strumenti per decifrare la complessità
Per decifrare queste tendenze possono essere utili due particolari prospettive.
La prima è quella messa in luce da Damiano Palano, docente alla Università Cattolica, nel suo ultimo libro “Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione” dove si descrive la frammentazione di una società in cui l’individualismo va di pari passo con la relativizzazione di ogni principio e di ogni valore.
La seconda è quella descritta da David Djaiz, docente a Parigi a Sciences-Po (vi ricorda qualcosa?) nel libro con un titolo mezzo inglese e mezzo francese, “Slow democratie” in cui, parlando peraltro non solo dell’Italia, si contrappone il periodo attuale a quello che viene chiamato il trentennio glorioso, gli anni del Dopoguerra in cui la crescita economica e la ricostruzione hanno fatto crescere e quasi esaltare la dimensione del ceto medio. Proprio quel ceto medio il cui sfarinamento è stata e continua ad essere una delle caratteristiche degli ultimi anni.
La sempre più compromessa credibilità del ceto politico
Se incrociamo queste due analisi abbiamo le radici del declino dei partiti e della politica: dove la protesta ha sempre di più avuto la meglio sulla proposta (e questo spiega la fase ascendente negli anni passati della parabola di Lega e 5S) e dove la mancanza di pragmatismo e di competenza hanno compromesso la credibilità del ceto politico.
Il contrasto alla pandemia, con l’obbligo di quello che non a caso è stato chiamato “distanziamento sociale”, ha accentuato la tendenza a chiudersi in una bolla (quella descritta da Palano), a considerare individualmente come esclusivi i propri gusti, le proprie tendenze, i propri valori. E nello stesso ha colpito dal profilo economico quella grande fascia del ceto medio costituita da artigiani, commercianti, ristoratori, piccole imprese familiari (quel ceto medio indicato da Djaiz come spina dorsale della società nel secolo scorso).
Dahrendorf e il suicidio di Zingaretti
Non può sorprendere che in questo scenario i partiti si siano trovati e si trovino isolati e spaesati alla ricerca di punti di riferimento e di agganci con gli elettori sviluppando, come scriveva già dieci anni fa Ralf Dahrendorf, «una diffusa apatia, se non un vero e proprio cinismo, nei riguardi della politica». E peraltro i partiti stessi hanno contributo a far perdere credibilità: come è avvenuto quando (quasi) tutti hanno fatto dell’antipolitica la propria bandiera nel referendum sul taglio dei parlamentari.
Nel concreto si può anche ricordare come la scivolata di Zingaretti verso il proprio suicidio politico come segretario del Pd abbia una data precisa: il 29 giugno del 2020, festa di San Pietro e Paolo, il giorno in cui il Corriere della Sera pubblicava in prima pagina una sua lettera in cui annunciava una coraggiosa riforma del sistema sanitario che sarebbe stata finanziata con i fondi europei del Mes.
La speranza
A nove mesi di distanza i problemi delineati sono ancora tutti aperti. Il Pd, forza di governo, non è riuscito ad ottenere nulla di quanto in maniera estremamente chiara ed esplicita aveva proposto. Dimostrando un ruolo del tutto subalterno rispetto ai 5Stelle e del loro irresponsabile rifiuto dei fondi europei. E facendo trovare il Paese ancora impreparato di fronte alla seconda e terza ondata della pandemia tanto che le misure per contenerla hanno di nuovo avuto un prezzo molte forte per la chiusura delle scuole e il blocco delle attività commerciali, un prezzo che avrebbe potuto essere limitato con una strategia di prevenzione, tracciamento e rafforzamento della medicina territoriale.
Quello che unisce le figure di Draghi, di Letta, di Giorgetti, di Conte (quest’ultimo almeno auspicabilmente nella sua veste di guida dei 5S) a cui possiamo aggiungere il nuovo protagonismo di Silvio Berlusconi, è almeno la speranza di un ritorno della politica della concretezza rispetto al velleitarismo, del costruire rispetto ai miti della decrescita e del no-tutto.
Peccato che non sia stato ancora trovato un vaccino per evitare che la politica faccia autogol. E che aiuti a tornare protagonista una società civile che esiste ancora. Non soltanto come slogan, ma nelle mille realtà che sanno unire la competenza alla solidarietà.
mercoledì 24 marzo 2021
L’asse geopolitico della storia. Il celebre saggio di Halford John Mackinder
di Damiano Palano
Secondo quanto racconta un vecchio aneddoto, negli anni Settanta un redattore del «Washington Post», leggendo un pezzo inviato al giornale da Henry Kissinger, si imbatté nel termine «geo-politica». E, pensando si trattasse di un refuso, lo corresse in «ego-politica». La storia non è molto credibile, ma è comunque un buon indicatore della pessima fama che circondò per decenni la geopolitica. Questo campo di studi fu in effetti bandito dall’accademia occidentale fino agli anni Novanta, a causa della sua identificazione con la Geopolitik nazista. Senza dubbio gli studi di geopolitica furono coltivati nella Germania hitleriana, e in particolare Karl Haushofer fu il principale esponente di un filone che pose al centro la relazione fra spazio e potere. Ma la storia della geopolitica inizia diversi anni prima, con Friedrich Ratzel, con lo svedese Rudolf Kjellen, con l’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan. Ma fu per molti versi lo studioso britannico Halford John Mackinder (1861-1947), con il suo saggio Il perno geografico della storia. Ovvero il pivot d’Asia (ora pubblicato in italiano, con una prefazione di Giuseppe Farinelli, dall’editore Le due Rose, pp. 115, euro 14.00), a delineare i termini di un approccio che si proponeva di comprendere le relazioni internazionali a partire dalla geografia.
Se la vecchia tradizione europea aveva concepito la politica internazionale come il regno dell’equilibrio di potenza, con la geopolitica lo sguardo si spostò invece sulle grandi masse continentali. Mahan aveva sostenuto che le sorti della politica mondiale si giocassero sempre attorno al rapporto fra Terra e Mare, fra potenze terrestri e potenze marittime. Presentando le proprie ipotesi nel 1904 alla Royal Geographical Society, Mackinder aggiornò invece quell’immagine, spinto dalla convinzione che i collegamenti ferroviari – e dunque la possibilità di spostare rapidamente le truppe grazie alla strada ferrata – ridimensionassero notevolmente la centralità che in passato aveva avuto il controllo del mare. Più precisamente, Mackinder individuò una specifica area geografica, una «Pivot Area» (poi ribattezzata Heartland), che riteneva decisiva per il controllo della politica mondiale. Il «cuore» del mondo si trovava a suo avviso nell’area compresa tra l’Europa centrale e la Siberia occidentale. Chi avesse conquistato l’Heartland si sarebbe assicurato la supremazia sull’intera Eurasia, oltre sull’intero mondo. Ciò comportava dunque la necessità di impedire che la potenza tedesca riuscisse a estendere il proprio dominio verso Est. E l’unico modo per contrastare l’ascesa della Germania appariva un’alleanza fra le due potenze atlantiche, Stati Uniti e Impero britannico.
Nel vecchio saggio di
Mackinder non si può naturalmente trovare una bussola per orientarsi nella
politica contemporanea. Ma rileggere le pagine del geografico britannico può
essere ancora utile per tornare a riflettere sul rapporto fra il potere e lo
spazio nel mondo globalizzato, e dinanzi a un contesto profondamente modificato
dalla rivoluzione tecnologica.
lunedì 22 marzo 2021
Call for papers - SISP Conference 2021 - Panel "Genealogy of Populism: Concepts, Ideas and Movements" - OPEN
Call for papers - SISP Conference 2021
The call for papers is now open.
Panel 2.2. "Genealogy of Populism: Concepts, Ideas and Movements" (Section "Political Theory")
Chair: Damiano Palano
- Paper submission start: Monday 22nd March 2021
- Submission deadline: Monday 17th May 2021
- The SISP Conference 2021 will be online (9-10-11 September 2021).
- For submission: www.sisp.it
The word "populism" has enjoyed enormous success in the last two decades, and studies on populist movements and leaders have multiplied in the social sciences at an impressive rate. In spite of the term's success, there is no shared conception among scholars of "what" populism is, nor is there a common idea of what its constituent elements are. The difficulties in defining populism also arise from the genealogy of this concept and from the ways in which it was constructed in the last century. The roots of contemporary polysemy of the word are indeed the legacy of a rather complex historical course. Quite singularly, however, many scholars of populism seem unaware of this genealogy. Critical reflection on the genealogy of the contemporary concept of populism has not been adequately developed by specialized literature, and this absence contributes to consolidating an acritical use of the concept.
This panel intends to contribute to “mapping” the genealogies of the concept of populism and of those elements—stylistic, ideological, organizational—that we can recognize in contemporary populism.This panel also invites papers that contribute to enriching research on the genealogy of populism, in relation both to the construction and re-elaboration of the concept as well as to the rhetorical, ideological and organizational tools that characterize contemporary populist movements.
In particular, this Special Issue invites papers focused on the following points:
• The genealogy of the word "populism", with particular regard to the birth of the term in the United States of the nineteenth century;
• The genealogy of "populism" in Russia, from the origins of the "Narodnichestvo" to the contemporary "populizm";
• The use of the notion of "populism" in the social sciences of the twentieth century;
• The meaning of the word "populism" in Latin America, from the 1950s to the present day (with reference also to economic policy programs);
• The meaning of the word "populism" in Europe, from the beginning of the twentieth century until today;
• The genealogy of the theories of "populism" (in particular in relation to the theories of Antonio Gramsci, Gino Germani, Margaret Canovan and Ernesto Laclau);
• The connection between twentieth-century and contemporary populism and classical phenomena such as "demagogy", "oclocracy", "caesarism" and "boulangism";
• The connection between the contemporary critique of populism and the classic images that depict the masses, the mob or the people as emotional, irrational, violent, etc.;
• The connection between the contemporary concept of “populism” and classical theories on “totalitarianism” and “totalitarian democracy”;
• The ideological and organizational links between the different generations of "populist" movements and leaders (especially in the USA, Europe and Latin America, but also in other examples of the “global populism”).
Selected papers will be published in the review “Genealogy” (ISSN 2313-5778) – special issue “Genealogy of Populism” (section “Philosophical Genealogy”).
Chairs: Damiano Palano
For info on the Conference, support and assistance to submit panel and paper proposals you can write to convegno2021@sisp.it
domenica 21 marzo 2021
Carl Schmitt, l’«indecisionista». La nuova interpretazione proposta da Mariano Croce e Andrea Salvatore
di Damiano Palano
Questa recensione a L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione di Mariano Croce e Andrea Salvatore (Quodlibet, pp. 173, euro 16.00), Carl Schmitt dello stesso Salvatore (Derive Approdi, pp. 88, euro 9.00) e a La situazione della scienza giuridica europea di Schmitt (Quodlibet, pp. 127, euro 14.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 18 marzo 2021.
In
una conversazione radiofonica degli anni Settanta Carl Schmitt osservò che la
sua fama di «decisionista» era piuttosto singolare. «Il tipo decisionista»,
disse, «non arriverà mai a elaborare una filosofia o teoria del decisionismo».
E, riferendosi a se stesso, confessava semmai la difficoltà di prendere
decisioni. Anche se si trattava probabilmente di una battuta di spirito, la
piena identificazione di Schmitt con il «decisionismo» è tutt’altro che scontata.
L’incipit fulminante della Teologia politica (1922) – «Sovrano è chi
decide sullo stato di eccezione» - ha senza dubbio consolidato l’idea che per
il giurista tedesco la decisione sia fondativa dell’ordine politico. E sappiamo
bene quanto l’idea dello «stato di eccezione» - non di rado confuso con lo
«stato di emergenza» - continui a evocare forti suggestioni. Ma una lettura più
attenta delle opere di Schmitt suggerisce anche interpretazioni alternative. Tanto
che la stessa fama di «decisionista», che ha circondato per un secolo il
pensatore di Plettenberg, potrebbe essere quantomeno ridimensionata.
Questa tesi è sostenuta in modo convincente da Mariano Croce e Andrea Salvatore in L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione (Quodlibet, pp. 173, euro 16.00), oltre che dallo stesso Salvatore nel volumetto Carl Schmitt (Derive Approdi, pp. 88, euro 9.00). L’intento dei due studiosi è quello di riaprire il ‘caso Schmitt’. Non certo tornando a ripercorrere le motivazioni che nel 1933 indussero il giurista a sostenere pubblicamente il nascente regime hitleriano (benché in precedenza avesse argomentato la necessità di porre fuori legge il partito nazionalsocialista). Ma mettendo piuttosto in questione la lettura che riconduce i fili della riflessione schmittiana alla centralità della «decisione». Secondo Croce e Salvatore la stagione decisionista sarebbe circoscritta a un periodo molto breve, e cioè ai primi anni Venti, perché già a partire dal 1927-28 lo sguardo di Schmitt sembra spostarsi altrove. L’individuazione del cuore della sovranità nella capacità di decidere sullo «stato di eccezione» sarebbe così soprattutto il riflesso della polemica contro la Costituzione di Weimar, oltre che contro Hans Kelsen e Max Weber, i quali – in modo molto diverso – avevano ritenuto che la legittimità potesse risolversi nella legalità. Secondo Schmitt l’ordinamento giuridico doveva poggiare invece su una base «politica», che nel 1922 era ritrovata appunto nel potere di decidere sullo stato di eccezione. Ben presto Schmitt si persuase però che questa soluzione non fosse sufficiente. La «decisione» rischiava cioè di rivelarsi come una sorta di contenitore vuoto, che poteva essere riempito di qualsiasi contenuto. In questo senso, anche la famosa definizione del «politico» rischiava di risultare tautologica. Quando riconduceva infatti il «politico» alla distinzione tra amicus e hostis, tra amico e «nemico pubblico» (cioè nemico dell’intera comunità), Schmitt sembrava presupporre l’esistenza di una comunità. Ma, al tempo stesso, il sovrano, capace di decidere sullo stato di eccezione, pareva diventare in fondo il creatore della comunità politica. Il decisionismo degli anni Venti non riusciva cioè a spiegare, come scrive Salvatore, «né da dove origini il sovrano», né tantomeno «perché alcuni individui si riconoscano come amici» e «come faccia un’unica decisione originaria a disegnare i contorni di un ordinamento».
Consapevole del circolo vizioso in cui l’enfasi sulla decisione lo aveva condotto, Schmitt cercò così di radicare il diritto su basi ben più solide. Già nel 1928, nella Dottrina della Costituzione, l’ancoraggio della decisione era proprio la costituzione. Ma la svolta si delineò soprattutto a partire dagli anni Trenta. Confrontandosi con studiosi come Maurice Hauriou e Santi Romano, Schmitt iniziò infatti a vedere – accanto al normativismo di Kelsen e al decisionismo, che aveva in precedenza condiviso – anche un terzo tipo di pensiero giuridico: l’istituzionalismo. In generale, l’istituzionalismo ritiene che il diritto sia non il prodotto dall’autorità, bensì la conseguenza del coordinamento cui gli individui danno origine nella loro spontanea interazione. In altre parole, per gli istituzionalisti la radice del diritto risiede nelle regole che la cooperazione tra individui spontaneamente produce. Pur recependo questa impostazione, Schmitt ne fornì una declinazione specifica, che non rinunciava del tutto all’elemento decisionista. In questa nuova visione, il sovrano non era comunque più il demiurgo dell’ordine politico e giuridico, perché l’ordinamento giuridico traeva la propria linfa vitale da un «ordinamento concreto»: un ordine articolato in un complesso di istituzioni, che regolano e coordinano le azioni dei singoli, e di cui il sovrano è chiamato a selezionare le specifiche istituzioni da proteggere.
Lungo questo percorso, Schmitt avrebbe anche ridefinito il ruolo dei giuristi, e di questo mutamento teorico è testimonianza eclatante il saggio La situazione della scienza giuridica europea, ripubblicato di recente nella versione del 1950 (Quodlibet, pp. 127, euro 14.00). Protestando contro la «motorizzazione del diritto», che con la Prima guerra mondiale aveva visto moltiplicarsi i provvedimenti legislativi, Schmitt tornava a riconoscere il ruolo cruciale, per l’esperienza europea, del diritto romano. E riprendendo l’appello pronunciato nel 1814 da Friedrich Carl von Savigny, attribuiva così alla scienza giuridica la missione di «ultimo asilo della coscienza giuridica». In una simile conclusione (come d’altronde in molti degli scritti schmittiani successivi al 1945) era tutt’altro che assente un intento autoassolutorio. Ma quell’approdo, che segnava l’abbandono del decisionismo, poteva anche essere letto come l’amaro bilancio di una stagione in cui molti cultori della scienza giuridica – e tra questi lo stesso Schmitt – si erano di fatto prestati a legittimare la distruzione dello Stato di diritto.
Damiano Palano
sabato 20 marzo 2021
"Massa-Folla 2". Il secondo fascicolo di "Filosofia politica" sulle figure della moltitudine (nel Novecento e oggi)
Esce in questi giorni il secondo dei due fascicoli che la rivista "Filosofia Politica" dedica alla coppia "Massa-Folla" e alle rappresentazioni dei "molti" nel lessico politico europeo.
Il primo fascicolo aveva ospitato saggi di Giovanni Giorgini, Francesco Marchesi, Matilde Cazzola e Raffaele Laudani, Damiano Palano, Francesco Gallino.
Il secondo fascicolo, concentrato sul Novecento e sul presente e curato come il precedente da Damiano Palano, comprende invece contributi di Bruno Accarino, Enrica Lisciani-Petrini, Francesco Tuccari, Pier Paolo Portinaro, Lorenzo Bernini, Adriana Cavarero e Laura Bazzicalupo.
La rivista può essere acquistata dal sito della casa editrice Il Mulino.
Di seguito il sommario della sezione monografica del secondo numero (1/2021):
Massa-Folla / 2
Damiano Palano, Dall'orda allo sciame
Bruno Accarino
Emergenza. Le masse alle porte della cibernetica
Enrica Lisciani-Petrini
Immagini della folla. Baudelaire, Simmel, Benjamin
Francesco Tuccari
Organizzate, oppresse, amorfe. Le "masse" nella "Sociologia del partito politico" di Robert Michels
Pier Paolo Portinaro
Tanatologia e storia. "Masse di guerra" e "masse rivoluzionarie" in Canetti
Lorenzo Bernini
"Una miscela detonante di insolita potenza". L'erotica delle masse in Freud e Fanon
Adriana Cavarero
Piazze politiche. Corpi radunati e pluralità
Laura Bazzicalupo
Bolle speculative. Comportamenti di massa e automatismi dei mercati finanziari
***
Di seguito il sommario della sezione monografica del primo numero (3/2020):
Massa-Folla / 1
Damiano Palano
Editoriale. La massa e la folla
Giovanni Giorgini
"Plethos", "Ochlos", "Demos". Moltitudine e popolo nella Grecia antica
Francesco Marchesi
Antinomie di Machiavelli. Le figure del "popolo" e della "plebe" tra "Principe" e "Istorie fiorentine"
Matilde Cazzola e Raffaele Laudani
Ascesa e declino della moltitudine inglese. Per una genealogia della "mob"
Damiano Palano
L'enigma della sfinge. La "folla" nell'immaginario ottocentesco: linee di letture
Francesco Gallino
L'automatismo come paradigma. Gustave Le Bon e la fisiologia del midollo spinale
lunedì 15 marzo 2021
L’ossessione per le identità. Un libro provocatorio di Douglas Murray
Nel 1841 il giornalista scozzese Charles
Mackay raccolse in un gustoso libretto sulla Pazzia delle folle le
storie di alcune «straordinarie illusioni collettive», spesso legate a
travolgenti crisi finanziarie. Come per esempio quella scatenata dalla
«tulipomania» del 1634, che fece lievitare il prezzo dei bulbi di tulipano fino
a farli diventare più preziosi dell’oro. Anche se prende in prestito il titolo da
Mackay, il saggista e commentatore britannico Douglas Murray nel suo La
pazzia delle folle. Gender, razza e identità (Neri Pozza, pp. 398, euro
23.00) non parla di turbolenze finanziarie o di altre questioni economiche. Il
suo libro si inserisce infatti in un filone in cui possono essere collocati per
esempio testi come La cultura del narcisismo di Christopher Lasch (anch’esso
appena ripubblicato da Neri Pozza) o La cultura del piagnisteo di Robert
Hughes. Polemista brillante, Murray rivolge il suo sguardo verso l’ossessione
per l’identità che negli ultimi tre decenni ha conquistato spazi nel dibattito
filosofico e che poi è arrivata sulla scena politica. La proliferazione di
rivendicazioni settoriali e di campagne volte a difendere le identità e i
diritti di gruppi minoritari è stata spesso spiegata evocando il ruolo dei
nuovi media e in particolare dei social network. Per Murray invece i motivi
vanno ricercati altrove, e cioè nella risposta che nel corso degli anni Ottanta
venne fornita alla crisi del marxismo. Molti intellettuali radicali, pur
abbandonando la visione di una società divisa in classi, non rinunciarono
all’idea che fosse necessario battersi per il superamento delle ingiustizie. E
giunsero così a costruire quella che per Murray è «una visione ideologica del
mondo che promette di porre rimedio non solo a ogni ingiustizia nella sua vita,
ma a ogni ingiustizia sulla Terra». Di fatto, la «politica identitaria» non
punta alla costruzione di grandi soggetti collettivi. Più semplicemente,
«atomizza la società in diversi gruppi d’interesse in base al sesso (o genere),
alla razza, alle preferenze sessuali e così via». E dunque l’effetto è quello
di esasperare le divisioni esistenti, o anche di generarne di nuove.
Il discorso si rivolge soprattutto alla centralità assegnata a partire dagli anni Ottanta e Novanta alle discriminazioni razziali, e più in generale alla tendenza a ricercare tracce di discriminazione anche in terreni all’apparenza neutrali. Ma questa stessa logica – osserva Murray – si è replicata a proposito dei rapporti tra uomini e donne, e poi in relazione alle discriminazioni legate agli orientamenti sessuali e alla stessa determinazione del «genere». L’intento del saggista britannico è comunque mettere in luce come la logica della politica identitaria, frutto di un sistema liberale che garantisce ai singoli diritti e libertà, rischi di logorare le basi proprio di quel sistema. «L’uguaglianza razziale, i diritti delle minoranze e quelli delle donne sono fra i migliori prodotti del liberalismo», ma «come fondamenta», scrive, «sono a dir poco destabilizzanti». E trasformarli in un cardine equivale addirittura a «rovesciare uno sgabello da bar e poi provare a starci in equilibrio».
A dispetto di alcune
rappresentazioni talvolta caricaturali della discussione filosofica, il
ragionamento di Murray porta efficacemente alla luce la lunga catena di
eccessi, di paradossi e di autentiche assurdità che la politica identitaria
alimenta. Una delle obiezioni più serie riguarda la convinzione che le diverse
richieste di giustizia sociale interagiscano tra loro. “La matrice
dell’oppressione”, scrive in questo senso, “non è un grosso cubo di Rubik in
attesa che ogni quadrato venga allineato agli esperti di scienze sociali”,
bensì “consiste in un insieme di richieste non coordinate tra loro”. Il grande
punto critico al fondo della “politica dell’identità” consiste cioè nel
ritenere che tutte le richieste di “giustizia sociale” siano tra loro
compatibili. Ma naturalmente le cose sono più complesse, anche perché ogni
identità implica sempre una differenziazione, delle esclusioni, gerarchie di
priorità. E tutto ciò implica che persino le battaglie contro le
discriminazioni producono nuove linee di discriminazione.
Imputare solo alla
discussione teorico-filosofica la «pazzia delle folle», come Murray propone di
fare, finisce probabilmente col sopravvalutare il ruolo degli intellettuali e
col sottovalutare una serie di mutamenti culturali, sociali e tecnologici. Ma
non è questo il rischio principale che si può riconoscere nell’operazione del
saggista britannico. Muovendosi su un terreno scivoloso, la sua polemica sembra
piuttosto reggersi su un’autocompiaciuta rappresentazione delle società
occidentali, nelle quali il benessere e la garanzia delle libertà individuali
renderebbero del tutto immaginarie le ingiustizie che vengono denunciate. Molti
indicatori, come ben sappiamo, dimostrano invece che all’interno delle società
occidentali le diseguaglianze sono sensibilmente cresciute nel corso degli
ultimi trent’anni. La cosa davvero sorprendente non è dunque che qualcuno
invochi più giustizia sociale, bensì la scomparsa, dalle rivendicazioni della
politica dell’identità, di quella «questione sociale» che segnò il Ventesimo
secolo.
A dispetto delle forzature,
i timori di Murray sulle possibili conseguenze dei conflitti identitari non
possono comunque essere liquidati. La «pazzia delle folle», a suo avviso, non è
infatti destinata solo ad accrescere l’atomizzazione sociale. Ma rischia di esacerbare
le contrapposizioni, la violenza, il conflitto. A inalberare la bandiera dei
conflitti ‘materiali’ sono in effetti soprattutto quei movimenti populisti,
nativisti e sovranisti che puntano a dar voce alla reazione dell’«uomo della
strada» contro i valori del «cosmopolitismo liberale». E lo spazio del
confronto, del compromesso e della conciliazione sembra restringersi sempre di
più.
Damiano Palano
mercoledì 10 marzo 2021
Il Behemoth dell’oikocrazia. Un libro di Fabio Armao sul potere dei clan
di Damiano Palano
In una delle prime analisi dedicate al regime nazionalsocialista, Franz Neumann adottò l’immagine di Behemoth per descrivere il totalitarismo. Al contrario del monolitico potere del Leviatano di Hobbes, Behemoth appariva contrassegnato da un disordine policentrico. Invece di essere organizzati all’interno di un assetto compatto, i diversi centri di potere si sovrapponevano l’uno all’altro, si moltiplicavano, si intersecavano, alimentandosi del conflitto contro i nemici interni ed esterni. Mentre, al tempo stesso, la distruzione delle strutture sociali di aggregazione produceva un processo di atomizzazione degli individui. Nel corso degli anni seguenti, molti altri studiosi si interrogarono sui caratteri dei regimi totalitari, sulla loro novità, sulla tensione “rivoluzionaria” che li spingeva a ricercare costantemente nuovi nemici. Ma il concetto – con tutta la sua capacità evocativa, e anche con i limiti legati alla difficoltà di un suo utilizzo empirico – non ha cessato di ricomparire nella discussione contemporanea, non tanto con riferimento ai regimi di Hitler e Stalin, quanto per cogliere l’emergere di un altro potere “totale”, reso possibile dalle nuove tecnologie di controllo e di comunicazione, o persino per definire la configurazione di alcune democrazie mature. Ed è proprio in questa direzione che la formula viene adottata anche da Fabio Armao in L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan (Meltemi, pp. 188, euro 16.00), un libro che avanza un’interpretazione estremamente originale – e piuttosto provocatoria – delle dinamiche politiche odierne.
Secondo il politologo dell’Università di Torino, l’ultimo trentennio è stato segnato innanzitutto dalla progressiva e inarrestabile ritirata dello Stato dalla società e dall’economia. Ma il vuoto determinatosi è stato colmato da una pletora di attori privati, incaricati di svolgere funzioni cruciali. Interpretarli come soggetti puramente economici secondo Armao è scorretto, perché si tratta di gruppi che operano con logiche anche politiche e che per questo possono essere identificati come «clan»: organizzazioni che afferiscono contemporaneamente alla società politica, all’ambito economico e alla società civile, e che sono «capaci di connettersi in una rete sempre più intricata e di integrare le dimensioni locale e globale in maniera più efficiente di qualsiasi apparato statale». L’«oikocrazia» evocata nel titolo del volume è dunque un assetto in cui dominano i clan. I motivi del successo vanno ricercati secondo Armao nella capacità del clan di ridurre l’incertezza legata ai processi di globalizzazione, costruendo relazioni di fiducia tra i membri, garantendo un’autoregolazione interna e infine accumulando risorse volte alla propria riproduzione. Rispondendo alla contrazione spazio-temporale della globalizzazione, l’oikocrazia riesce così «a mettere a sistema network sociali sempre più complessi di relazioni interpersonali ritualizzate» e, in alcuni casi, è in grado anche di generare nuove «comunità immaginate», ossia sentimenti di identificazione e di appartenenza del tutto simili a quelli che contrassegnano i gruppi nazionali. L’oikocrazia presenta per questo alcuni tratti del vecchio totalitarismo. Il «Behemoth neoliberale» contemporaneo è però una combinazione di economia ombra e di instabilità egemonica. E si nutre di contrapposizioni che assumono i tratti di una «guerra civile globale permanente».
Scomodare un concetto così impegnativo come quello di «totalitarismo» può apparire forse eccessivo. L’idea che nel disordine globale odierno riemerga una configurazione antichissima come quella del clan, capace di adattarsi come un camaleonte alle trasformazioni economiche e tecnologiche, merita però più di un approfondimento. Indubbiamente proietta un’ombra sinistra sul futuro della democrazia e sulle aspirazioni di uguaglianza e diritti che l’hanno contrassegnata. Ma forse invita anche rileggere la storia dell’ultimo secolo, relativizzando le immagini di un ordine monolitico dominato e controllato dallo Stato. Perché, a dispetto delle rappresentazioni dottrinarie di uno Stato in grado di controllare e plasmare la società, anche allora i clan non erano scomparsi. E dietro la sagoma sinistra del Leviatano di Hobbes, si poteva forse già riconoscere il vorticoso movimento di quel Behemoth che oggi – secondo la tesi di Armao – torna in superficie, estendendo a livello globale il proprio potere.
Damiano Palano