di Damiano Palano
Questa nota è apparsa sul sito della Fondazione Feltrinelli il 21 gennaio 2021, in un dossier dedicati ai cento anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano
Pochi giorni prima della scissione di Livorno, Antonio Gramsci scrisse sull’«Ordine Nuovo» che la nascita di un nuovo partito comunista avrebbe dovuto completare il processo di unificazione iniziato col Risorgimento. «La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano», si leggeva nell’editoriale dell’11 gennaio 1921, mentre «la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano». Al di là della lettura del processo di unificazione nazionale, su cui più tardi Gramsci avrebbe avuto modo di tornare a più riprese, le parole dell’«Ordine Nuovo» palesavano soprattutto la convinzione che lo strumento per «unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano» fosse il partito. «Politicamente», scrisse il dirigente sardo alcuni mesi dopo, quando ormai la crisi della società italiana si stava delineando chiaramente, «le grandi masse esistono solo se inquadrate nei partiti politici: i mutamenti d’opinione che si verificano nelle masse sotto la spinta delle forze economiche determinanti vengono interpretate dai partiti, che si scindono prima in tendenze, per poi scindersi in una molteplicità di nuoci partiti organici».
La fiducia con cui Gramsci
guardava alla macchina «per fabbricare passioni», come Simone Weil definì
criticamente il partito, sembra oggi irrimediabilmente incrinata. Cento anni
dopo è così davvero difficile ritenere che i partiti – non solo quelli che
abbiamo di fronte nelle democrazie occidentali, ma la stessa «forma-partito» -
siano in grado di «unificare economicamente e spiritualmente» i frammenti di
una società sempre più individualizzata, scomposta in segmenti autoreferenziali,
persino inafferrabile nei suoi mutamenti. E anche per questo negli ultimi
decenni i movimenti sociali si sono quasi sempre rivolti ad altri strumenti,
ricercando strade che fossero in grado di aggirare la «legge ferrea
dell’oligarchia» e di sottrarsi alla tentazione di diventare organizzazioni
‘stato-centriche’. Nonostante molte analisi condotte negli ultimi decenni ci
confermino che il tempo del partito di massa novecentesco è irrimediabilmente
finito, dovremmo però paradossalmente riconoscere che il partito non ha perso
la propria centralità politica. O, quantomeno, che non ha perso il suo ruolo la
specifica funzione costitutiva del partito: una funzione che ha a che vedere
con la costruzione di linee di conflitto visibili e dunque con l’elaborazione delle
identità collettive.
‘Relativizzando’
l’esperienza novecentesca, il nucleo concettuale dell’idea di «partito» – pur nelle molteplici
configurazioni che essa assume nel tempo – può essere infatti ricondotto ad
alcuni elementi distintivi. In primo luogo, il «partito» si configura in
relazione a un atto di divisione (politica) della società, un atto che crea una
parte politica e una linea di frattura all’interno della società. In secondo
luogo, la divisione cui risulta connesso il «partito» è il risultato di
un’azione ‘visibile’, non solo perché questa divisione avviene nello spazio
pubblico in cui si manifesta la contrapposizione, ma perché, nella misura in
cui divide, ‘mostra’ qualcosa che in precedenza non esisteva, o che quantomeno
non esisteva ‘politicamente’. Ciò significa dunque che il partito si qualifica
per l’effetto della divisione politica di un terreno sociale che in precedenza
appariva ‘liscio’, privo di increspature visibili (o, comunque, privo di quella
specifica linea di frattura). Infine, il partito trae la propria legittimazione
proprio dalla divisione che ha creato o cui ha dato rilievo politico (anche nel
caso in cui non ne sia l’artefice): in altre parole, il partito può esistere
fino a quando la divisione che ha definito, o da cui trae alimento, sopravvive.
E per questo la linea di divisione diventa per il partito l’essenziale capitale
politico da preservare e rafforzare.
Benché il modello del
partito novecentesco sia davvero attraversato da linee di crisi che lo rendono
obsoleto, la funzione ‘costitutiva’ del partito continua a rimanere cruciale. L’esistenza
dei partiti è infatti strettamente connessa con lo ‘svuotamento’ del trono che
segna il nostro orizzonte politico. Il destino dei partiti e la loro
possibilità di sopravvivenza dipendono così dalla necessità di continuare a
dare una ‘visibile’ rappresentazione a una parte. E sebbene formulare
previsioni sia sempre rischioso, una simile necessità non sembra destinata a
venir meno nel prossimo futuro. Naturalmente il tempo del «moderno Principe» si
è concluso, e la crisi delle grandi ideologie che hanno segnato il Novecento è
destinata ad accompagnare ancora a lungo le società occidentali. Ma, ciò nonostante,
è davvero improbabile che i partiti del futuro – nemmeno il «partito
piattaforma» – possano rinunciare (almeno del tutto) a quella funzione costitutiva che qualificava la battaglia del «moderno Principe» (almeno sul
piano teorico). E seppur con molte cautele, si può anzi persino ipotizzare che
i «Principi postmoderni» dovranno riorganizzare le loro strutture proprio con
l’obiettivo di svolgere la funzione costitutiva
nel modo più efficace, pur scontrandosi con la realtà di una società «liquida»
e con identità in costante mutamento.
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