di Damiano Palano
Questa segnalazione del volume di Giulia Bassi Non è solo questione di classe. Il «popolo» nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991) (Viella, pp. 29.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
Nel linguaggio giornalistico e nel lessico della polemica politica, il termine «populismo» si è diffuso solo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Da allora il termine ha registrato un’inflazione incontrollabile, che probabilmente ha raggiunto il culmine dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane del 2016. Anche per questo tendiamo a ritenere che gli strumenti della propaganda ‘populista’ siano una prerogativa quasi esclusiva di quei leader che quotidianamente inondano il dibattito politico con le loro dichiarazioni. Ma così dimentichiamo che l’«appello al popolo» – uno degli ingredienti (anche se probabilmente non l’unico) della retorica populista – può essere utilizzato da forze politiche dall’impronta ideologica molto diversa. Il saggio di Giulia Bassi Non è solo questione di classe. Il «popolo» nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991) (Viella, pp. 29.00) è da questo punto di vista davvero molto utile. La storica si propone infatti di indagare le sequenze principali della trasformazione che investì la retorica di Palmiro Togliatti e dei dirigenti del Partito comunista tra la metà degli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta. L’obiettivo di Bassi è in particolare quello di decifrare quale sia il volto che il «popolo» assume nei discorsi dei dirigenti del Pci. E i risultati confermano l’idea che il Pci attinga a piene mani all’armamentario dell’«appello al popolo» già a partire dalla metà degli anni Trenta.
Se sull’«Unità» il termine «popolo» risulta pressoché assente fino alla metà degli anni Trenta (almeno con riferimento alla situazione italiana), da quel momento le cose cambiano. Nel 1935 il VII congresso del Komintern sposa infatti la linea del sostegno ai fronti popolari antifascisti, e la stampa clandestina del partito inizia allora a rappresentare il «popolo italiano» come vittima dell’«avventura brigantesca del governo fascista». Ma la questione dell’«unità del popolo» – espressione del fronte antifascista – diventa sempre più importante con la ‘svolta di Salerno’, quando il partito «nuovo» di Togliatti perde il proprio originario tratto leninista. A partire dal 1946 la fisionomia viene invece a modificarsi, perché l’unità lascia il posto alle contrapposizioni tra forze progressiste e conservatrici, tra popolo ‘sano’ e ‘meno sano’. Per tutti gli anni Cinquanta (e per buona parte dei Sessanta) l’obiettivo rimane comunque sempre quello di «essere costantemente in mezzo al popolo», con la propaganda, l’organizzazione e i rituali consolidati. La retorica ‘populista’ del Pci – sempre meno in grado di intercettare i mutamenti della società italiana – è però progressivamente abbandonata già a partire dagli anni Settanta. Ed è senz’altro significativo, come rileva Bassi, che sull’«Unità» del 14 giugno 1984, dedicata ai funerali di Berlinguer, il termine «popolo» risulti pressoché totalmente assente e che gli siano preferite espressioni come «tutti», «immensa folla», «marea di uomini giusti». Per molti versi era d’altronde già cominciata la stagione della «gente». E per interpretarne le istanze sarebbero presto nati altri populismi.
Damiano Palano