domenica 21 febbraio 2021

Quando Togliatti era populista. Un volume di Giulia Bassi sul linguaggio del Partito Comunista Italiano


di Damiano Palano

Questa segnalazione del volume di  Giulia Bassi Non è solo questione di classe. Il «popolo» nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991) (Viella, pp. 29.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

Nel linguaggio giornalistico e nel lessico della polemica politica, il termine «populismo» si è diffuso solo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Da allora il termine ha registrato un’inflazione incontrollabile, che probabilmente ha raggiunto il culmine dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane del 2016. Anche per questo tendiamo a ritenere che gli strumenti della propaganda ‘populista’ siano una prerogativa quasi esclusiva di quei leader che quotidianamente inondano il dibattito politico con le loro dichiarazioni. Ma così dimentichiamo che l’«appello al popolo» – uno degli ingredienti (anche se probabilmente non l’unico) della retorica populista – può essere utilizzato da forze politiche dall’impronta ideologica molto diversa. Il saggio di Giulia Bassi Non è solo questione di classe. Il «popolo» nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991) (Viella, pp. 29.00) è da questo punto di vista davvero molto utile. La storica si propone infatti di indagare le sequenze principali della trasformazione che investì la retorica di Palmiro Togliatti e dei dirigenti del Partito comunista tra la metà degli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta. L’obiettivo di Bassi è in particolare quello di decifrare quale sia il volto che il «popolo» assume nei discorsi dei dirigenti del Pci. E i risultati confermano l’idea che il Pci attinga a piene mani all’armamentario dell’«appello al popolo» già a partire dalla metà degli anni Trenta. 
Se sull’«Unità» il termine «popolo» risulta pressoché assente fino alla metà degli anni Trenta (almeno con riferimento alla situazione italiana), da quel momento le cose cambiano. Nel 1935 il VII congresso del Komintern sposa infatti la linea del sostegno ai fronti popolari antifascisti, e la stampa clandestina del partito inizia allora a rappresentare il «popolo italiano» come vittima dell’«avventura brigantesca del governo fascista». Ma la questione dell’«unità del popolo» – espressione del fronte antifascista – diventa sempre più importante con la ‘svolta di Salerno’, quando il partito «nuovo» di Togliatti perde il proprio originario tratto leninista. A partire dal 1946 la fisionomia viene invece a modificarsi, perché l’unità lascia il posto alle contrapposizioni tra forze progressiste e conservatrici, tra popolo ‘sano’ e ‘meno sano’. Per tutti gli anni Cinquanta (e per buona parte dei Sessanta) l’obiettivo rimane comunque sempre quello di «essere costantemente in mezzo al popolo», con la propaganda, l’organizzazione e i rituali consolidati. La retorica ‘populista’ del Pci – sempre meno in grado di intercettare i mutamenti della società italiana – è però progressivamente abbandonata già a partire dagli anni Settanta. Ed è senz’altro significativo, come rileva Bassi, che sull’«Unità» del 14 giugno 1984, dedicata ai funerali di Berlinguer, il termine «popolo» risulti pressoché totalmente assente e che gli siano preferite espressioni come «tutti», «immensa folla», «marea di uomini giusti». Per molti versi era d’altronde già cominciata la stagione della «gente». E per interpretarne le istanze sarebbero presto nati altri populismi.

Damiano Palano

lunedì 15 febbraio 2021

I cento anni della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica. Una discussione con Damiano Palano, Fulco Lanchester e Giuseppe Di Leo su Radioradicale

 



Partecipano Damiano Palano e Fulco Lanchester Conduce Giuseppe Di Leo.

Registrazione audio del dibattito dal titolo "Cento anni di Università cattolica: la facoltà di Scienze politiche Presentazione del libro Un ideale da molti anni coltivato, a cura di Damiano Palano (Vita e Pensiero)", registrato lunedì 15 febbraio 2021 alle ore 17:30.

Sono intervenuti: Damiano Palano (professore di Filosofia Politica all'Università Cattolica del Sacro di Milano), Fulco Lanchester (professore di Diritto costituzionale italiano e comparato all'Università La Sapienza di Roma).

La registrazione audio di
 questo dibatto ha una durata di 33 minuti.

Il realismo di Reinhold Niebuhr e i «limiti della natura umana»


 
di Damiano Palano

Questa nota sul libro di Reinhold Niebuhr,  Uomo morale e società immorale, ripubblicato da Jaca Book cinquant’anni dopo la sua prima edizione italiana, è apparsa su "Avvenire" il 30 gennaio 2019.

Senatores boni viri, senatus mala bestia, dicevano i romani per riferirsi ai meccanismi che, nella discussione in assemblea, potevano condurre a decisioni all’apparenza irrazionali o persino immorali. E così quella frase è stata spesso utilizzata dai critici del parlamentarismo e della democrazia per sostenere che anche individui colti e pienamente razionali, nella foga della discussione pubblica, possono rimanere vittima di cieche passioni politiche. Ma il contrasto tra la morale individuale e le logiche collettive – un problema classico della riflessione politica occidentale – naturalmente non è stato solo ricondotto a difetti di razionalità o alle dinamiche che innescano le passioni negli organi collegiali. In uno dei suoi primi libri, Uomo morale e società immorale – ripubblicato da Jaca Book cinquant’anni dopo la sua prima edizione italiana, uscita nel fatidico 1968 – il teologo protestante statunitense Reinhold Niebuhr (1892-1971) affrontava la questione dalla prospettiva originale del suo originale «realismo cristiano». Il bersaglio polemico del teologo erano infatti gli approcci che spiegavano il contrasto tra la moralità individuale e l’«immoralità» della società insistendo su difetti di educazione o di informazione. Per Niebuhr, si trattava invece di un conflitto strutturale, determinato dal fatto che i gruppi umani si rivelano scarsamente capaci di controllare razionalmente gli istinti, di comprendere i bisogni degli altri, di andare al di là dei loro interessi. L’egoismo, scriveva addirittura, «deve essere considerato una caratteristica inevitabile delle comunità umane». Queste componenti rendevano impraticabile l’obiettivo di rendere pienamente razionale l’organizzazione sociale e politica. Per quanto potessero aumentare l’intelligenza e la buona volontà morale nel corso della storia, osservava infatti, esse non sarebbero mai state davvero sufficienti per abolire definitivamente il conflitto. I «limiti della natura umana» rendevano impossibile il conseguimento di una società interamente pacificata, anche se certo erano possibili progressi nella riduzione della violenza. «Qualsiasi cooperazione sociale su una scala maggiore di quella del gruppo tenuto insieme da rapporti primari», spiegava, «esige una misura di coercizione», resa indispensabile dalle limitazioni dell’intelligenza e dell’immaginazione umana. Ciò comportava che la pace fosse sempre instaurata al prezzo dell’ingiustizia, perché chi detiene il potere in una collettività tende ad abusarne. Inoltre, implicava la conflittualità tra gruppi, perché ogni gruppo umano tende a sviluppare ambizioni imperialistiche e progetti di espansione che vanno al di là della semplice autoconservazione. E se non si riconosceva l’«ostinata resistenza dell’egoismo di gruppo», la conseguenza erano progetti politici irrealistici e fallimentari.
Quel libro, apparso nell’edizione originale nel 1932, rifletteva anche le tensioni dell’America del tempo, oltre che la vicinanza del teologo al socialismo democratico e persino al marxismo (o quantomeno ad alcune delle sue istanze). In seguito, Niebuhr avrebbe abbandonato quelle posizioni politiche, ma quando il libro uscì, qualcuno lo definì come un «realista rosso», per il suo obiettivo di coniugare un approccio realista alla politica con la vicinanza alla causa dei «diseredati». D’altronde il pensatore definiva esplicitamente la propria prospettiva come «realista», anche se il suo approccio si discostava sensibilmente da quella Realpolitik che legittima la politica di potenza come l’unica scelta ragionevole in un mondo conflittuale. Per Niebuhr, le mete da perseguire erano invece un ordine più giusto e una riduzione dei conflitti. Ma riteneva che l’unico presupposto per raggiungerli fosse il riconoscimento ‘realistico’ dei «limiti della natura umana». Una società umana pienamente pacificata e perfettamente giusta rimaneva cioè un sogno irrealizzabile. L’obiettivo doveva essere piuttosto una società in cui ci fosse «abbastanza giustizia» e in cui la coercizione fosse «sufficientemente non-violenta». «Fino alla fine della storia», scriveva Niebuhr evocando Agostino, «la pace del mondo dovrà essere guadagnata con la lotta», e così non potrà mai essere «una pace perfetta». E solo se la mente e lo spirito avessero cercato non di «conquistare o di eliminare la natura», ma di farne «strumenti al servizio dello spirito umano e dell’ideale morale», si sarebbe potuti giungere a «una giustizia più vera e a una pace più stabile».

Damiano Palano

domenica 14 febbraio 2021

Quanto costa la democrazia? Un libro di Julia Cagé oltre i luoghi comuni

di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Julia Cagé, Il prezzo della democrazia. Soldi, potere e rappresentanza (Baldini e Castoldi, pp. 591, euro 22.00), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 18 settembre 2020.

Proprio all’alba del Ventesimo secolo, Moisei Y. Ostrogorski pubblicò il suo libro più famoso, La democrazia e i partiti politici. Negli Stati Uniti l’estensione del suffragio aveva già da molti anni trasformato i partiti in organizzazioni di massa. E proprio osservando la politica americana, lo studioso russo si convinse che i partiti fossero diventati una minaccia per la democrazia. Il collante principale di queste imponenti «Macchine» non era l’ideologia, come sarebbe stato per i partiti europei, bensì lo spoils system, ossia la possibilità di ricompensare i sostenitori attribuendo loro dei posti nell’amministrazione pubblica (priva in gran parte di burocrazia professionale). La pervasività delle «Macchine», secondo Ostrogorski, aveva però reso gli eletti sempre più irresponsabili nei confronti degli elettori. E così i partiti si erano tramutati in un ostacolo per un’autentica democrazia.

La documentata denuncia di Ostrogorski fu solo uno dei primi esempi della critica rivolta negli Stati Uniti contro i politici di professione. Proprio per superare il ‘filtro’ costituito dai funzionari di partito iniziò a essere adottato il meccanismo delle elezioni primarie, che in America contribuì a decretare la fine precoce del partito di massa. Ma, molti anni dopo, la critica «antipartitocratica» raggiunse anche il Vecchio continente. L’idea che i politici siano una «casta» privilegiata e parassitaria, come ben sappiamo, è diventata un luogo comune della retorica pubblica, e non solo di quella dei «populisti». E le denunce contro i «costi della politica» si sono quasi ovunque rivolte contro il meccanismo del finanziamento pubblico. Un’opinione decisamente fuori dal coro giunge invece dal corposo e documentato saggio della ricercatrice francese Julia Cagé, Il prezzo della democrazia. Soldi, potere e rappresentanza (Baldini e Castoldi, pp. 591, euro 22.00), che mette in luce come la crescente rilevanza dei finanziamenti privati alla politica vada a minare profondamente il rapporto tra elettori ed eletti.


La dinamica descritta dall’economista francese è in fondo piuttosto lineare. La crescente rilevanza delle campagne di comunicazione per aggiudicarsi le cariche pubbliche alimenta quasi ovunque la lievitazione delle spese elettorali, quantomeno laddove non sia fissato per legge un tetto massimo. Inevitabilmente ciò favorisce i candidati con ingenti risorse. Specie nei paesi in cui non esistono (o sono marginali) i meccanismi di finanziamento pubblico, sono cioè privilegiati i candidati che vengono foraggiati da munifici (e probabilmente interessati) sostenitori privati. Ma Cagé dimostra con molti dati come il finanziamento privato sia cresciuto in tutte le democrazie occidentali, spesso senza efficaci regolamentazioni e incentivato dalla possibilità di detrarre fiscalmente le somme versate a organizzazioni politiche. Una simile dinamica non può che riprodurre a livello politico le diseguaglianze sociali, perché attribuisce alla minoranza della popolazione che detiene i redditi più elevati una notevole influenza. Ma tali distorsioni non sono scongiurate neppure in quei sistemi che prevedono un sostegno finanziario alla politica. Il sistema italiano, che consente a ciascun contribuente di destinare a un partito il 2 per mille dell’imposta sul reddito, per Cagé tende a generare una sorta di tax plutocracy, nella misura in cui assegna un peso maggiore ai cittadini dotati di maggior capacità contributiva.

La denuncia dello svuotamento della democrazia è accompagnata anche da una serie di proposte. La principale consiste nell’introduzione di un meccanismo di ripartizione dei finanziamenti che assegni alle preferenze espresse dai singoli cittadini un peso uguale (e non dunque un peso dipendente dalla capacità contributiva di ciascuno). Un’altra misura è quella della limitazione dei finanziamenti privati, che dovrebbero essere contenuti sotto un tetto molto più basso rispetto a quello odierno. Infine, Cagè suggerisce l’introduzione di un sistema rappresentativo «misto», che garantisca anche una rappresentanza «socio-professionale» della popolazione. In altre parole, un terzo dei seggi nell’assemblea legislativa dovrebbe essere riservato a rappresentanti eletti all’interno di liste che riflettano la composizione della società (per esempio, garantendo che il 50% degli eletti sia costituito da impiegati e operai).

L’idea di una rappresentanza che tenga conto anche della ripartizione socio-economica della popolazione non è certo nuova, perché risale almeno alla metà dell’Ottocento. Ma il fatto che oggi sia riproposta da Cagé in una nuova variante è anche un riflesso della crescente diseguaglianza sociale, al centro di molte analisi negli ultimi anni (e per esempio dei libri di Thomas Piketty, marito dell’economista francese). L’idea che una rappresentanza «socio-professionale» possa costituire un antidoto allo ‘svuotamento’ della democrazia è però piuttosto ingenua, se non altro perché sottovaluta le pressioni cui questi eletti potrebbero essere sottoposti da parte degli interessi economici. Inoltre, senza mettere in discussione la diffidenza nei confronti dei politici di professione, questa proposta condivide almeno implicitamente l’idea che per svolgere il ‘lavoro della rappresentanza’ non siano necessarie competenze specifiche, una formazione adeguata o un particolare ‘apprendistato’. Al netto di tali ingenuità (e di qualche semplificazione), il libro di Cagé rappresenta però una lettura estremamente utile. Adottare un sistema equo ed efficiente di finanziamento pubblico non è forse l’unico modo per ridare credibilità alla politica. E la crisi dei partiti ha radici ben più profonde. Ciò nonostante, come sostiene la ricercatrice francese, le modalità con cui vengono economicamente sostenuti i partiti sono davvero centrali. E l’esistenza di un finanziamento pubblico, accompagnata a una rigida regolamentazione del finanziamento privato, rimane davvero uno dei nodi cruciali da cui dipende il futuro delle nostre democrazie.

Damiano Palano

 

sabato 13 febbraio 2021

Il «partito» cento anni dopo. La forma della mobilitazione politica a un secolo dalla nascita del Pci

 

 di Damiano Palano

Questa nota è apparsa sul sito della Fondazione Feltrinelli il 21 gennaio 2021, in un dossier dedicati ai cento anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano

Pochi giorni prima della scissione di Livorno, Antonio Gramsci scrisse sull’«Ordine Nuovo» che la nascita di un nuovo partito comunista avrebbe dovuto completare il processo di unificazione iniziato col Risorgimento. «La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano», si leggeva nell’editoriale dell’11 gennaio 1921, mentre «la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano». Al di là della lettura del processo di unificazione nazionale, su cui più tardi Gramsci avrebbe avuto modo di tornare a più riprese, le parole dell’«Ordine Nuovo» palesavano soprattutto la convinzione che lo strumento per «unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano» fosse il partito. «Politicamente», scrisse il dirigente sardo alcuni mesi dopo, quando ormai la crisi della società italiana si stava delineando chiaramente, «le grandi masse esistono solo se inquadrate nei partiti politici: i mutamenti d’opinione che si verificano nelle masse sotto la spinta delle forze economiche determinanti vengono interpretate dai partiti, che si scindono prima in tendenze, per poi scindersi in una molteplicità di nuoci partiti organici».

La fiducia con cui Gramsci guardava alla macchina «per fabbricare passioni», come Simone Weil definì criticamente il partito, sembra oggi irrimediabilmente incrinata. Cento anni dopo è così davvero difficile ritenere che i partiti – non solo quelli che abbiamo di fronte nelle democrazie occidentali, ma la stessa «forma-partito» - siano in grado di «unificare economicamente e spiritualmente» i frammenti di una società sempre più individualizzata, scomposta in segmenti autoreferenziali, persino inafferrabile nei suoi mutamenti. E anche per questo negli ultimi decenni i movimenti sociali si sono quasi sempre rivolti ad altri strumenti, ricercando strade che fossero in grado di aggirare la «legge ferrea dell’oligarchia» e di sottrarsi alla tentazione di diventare organizzazioni ‘stato-centriche’. Nonostante molte analisi condotte negli ultimi decenni ci confermino che il tempo del partito di massa novecentesco è irrimediabilmente finito, dovremmo però paradossalmente riconoscere che il partito non ha perso la propria centralità politica. O, quantomeno, che non ha perso il suo ruolo la specifica funzione costitutiva del partito: una funzione che ha a che vedere con la costruzione di linee di conflitto visibili e dunque con l’elaborazione delle identità collettive.

‘Relativizzando’ l’esperienza novecentesca, il nucleo concettuale dell’idea di «partito» – pur nelle molteplici configurazioni che essa assume nel tempo – può essere infatti ricondotto ad alcuni elementi distintivi. In primo luogo, il «partito» si configura in relazione a un atto di divisione (politica) della società, un atto che crea una parte politica e una linea di frattura all’interno della società. In secondo luogo, la divisione cui risulta connesso il «partito» è il risultato di un’azione ‘visibile’, non solo perché questa divisione avviene nello spazio pubblico in cui si manifesta la contrapposizione, ma perché, nella misura in cui divide, ‘mostra’ qualcosa che in precedenza non esisteva, o che quantomeno non esisteva ‘politicamente’. Ciò significa dunque che il partito si qualifica per l’effetto della divisione politica di un terreno sociale che in precedenza appariva ‘liscio’, privo di increspature visibili (o, comunque, privo di quella specifica linea di frattura). Infine, il partito trae la propria legittimazione proprio dalla divisione che ha creato o cui ha dato rilievo politico (anche nel caso in cui non ne sia l’artefice): in altre parole, il partito può esistere fino a quando la divisione che ha definito, o da cui trae alimento, sopravvive. E per questo la linea di divisione diventa per il partito l’essenziale capitale politico da preservare e rafforzare.

Benché il modello del partito novecentesco sia davvero attraversato da linee di crisi che lo rendono obsoleto, la funzione ‘costitutiva’ del partito continua a rimanere cruciale. L’esistenza dei partiti è infatti strettamente connessa con lo ‘svuotamento’ del trono che segna il nostro orizzonte politico. Il destino dei partiti e la loro possibilità di sopravvivenza dipendono così dalla necessità di continuare a dare una ‘visibile’ rappresentazione a una parte. E sebbene formulare previsioni sia sempre rischioso, una simile necessità non sembra destinata a venir meno nel prossimo futuro. Naturalmente il tempo del «moderno Principe» si è concluso, e la crisi delle grandi ideologie che hanno segnato il Novecento è destinata ad accompagnare ancora a lungo le società occidentali. Ma, ciò nonostante, è davvero improbabile che i partiti del futuro – nemmeno il «partito piattaforma» – possano rinunciare (almeno del tutto) a quella funzione costitutiva che qualificava la battaglia del «moderno Principe» (almeno sul piano teorico). E seppur con molte cautele, si può anzi persino ipotizzare che i «Principi postmoderni» dovranno riorganizzare le loro strutture proprio con l’obiettivo di svolgere la funzione costitutiva nel modo più efficace, pur scontrandosi con la realtà di una società «liquida» e con identità in costante mutamento.

 

mercoledì 10 febbraio 2021

Gustave Le Bon nell’era dello sciame. Una nuova edizione della classica "Psicologia delle folle"




di Damiano Palano

Pochi saggi politici possono vantare un successo così vasto e duraturo come quello ottenuto dalla Psicologia delle folle di Gustave Le Bon (1842-1931). Pubblicato per la prima volta nel 1895, il libro conobbe subito una fortuna travolgente in Francia ed ebbe traduzioni in tutto il mondo. E da allora non ha cessato di essere letto e ripubblicato. A più di un secolo dalla sua prima uscita viene riproposto ora in una nuova edizione anche dalla casa editrice milanese Shake, nota soprattutto per avere diffuso in Italia sul finire del Novecento i testi chiave della cultura cyberpunk. Probabilmente la scelta non è fortuita, perché anche Le Bon fu a suo modo un visionario che comprese, ben prima di molti suoi contemporanei, la trasformazione che stava avvenendo. Nel suo libro, che puntava a essere una sorta di Principe adeguato alla nuova «era delle folle», forniva innanzitutto una spiegazione ‘scientifica’ della psicologia collettiva. E riteneva in particolare che in determinate situazioni – quando si formava una «folla psicologica» – i singoli individui smarrissero la loro componente razionale, per rimanere preda di una forza emotiva primordiale, capace di trascinarli verso violenze efferate o verso atti di eroismo. Le Bon non mancava di fornire una serie di indicazioni a coloro che aspiravano a governare le folle. E gli strumenti che suggeriva per «far penetrare lentamente le idee e le credenze nell’animo delle folle» erano soprattutto tre: l’affermazione («svincolata da ogni ragionamento e ogni prova»), la ripetizione e il contagio.

Molte delle tesi al centro del libro erano tutt’altro che inedite. Per molti versi, La psychologie des foules costituiva anzi solo una sintesi – senza dubbio evocativa – di un’ampia letteratura cresciuta nella seconda metà dell’Ottocento. Molte delle «leggi» che Le Bon fissava nel suo pamphlet si limitavano infatti a tradurre in un linguaggio letterariamente efficace quelle intuizioni che già un singolare magistrato sociologo come Gabriel Tarde aveva sviluppato in alcune sue opere, e cui l’italiano Scipio Sighele – epigono della scuola lombrosiana – aveva fornito una certa coerenza nel suo libro sulla Folla delinquente (1891). Le raffigurazioni delle orde selvagge, utilizzate per esemplificare la psicologia elementare delle moltitudini, attingevano infine soprattutto a quel fenomenale archivio che erano le Origini della Francia contemporanea di Hippolyte Taine. Ma, a dispetto dei molti debiti contratti con i suoi predecessori (debiti che peraltro si rifiutò sempre di riconoscere), Le Bon ebbe comunque il merito di utilizzare le ipotesi sulla psicologia collettiva per fondare quella che si proponeva di essere una nuova scienza di governo (e non solo per spiegare le condotte devianti).



Nonostante i tormentati rapporti con il mondo accademico, la popolarità di Le Bon crebbe costantemente, varcando i confini francesi. Nel corso di una sua visita a Parigi, nel 1914, l’ex presidente americano Theodore Roosevelt chiese per esempio di conoscerlo e in un colloquio riservato dichiarò di avere tenuto le sue Leggi psicologiche dell’evoluzione dei popoli costantemente sulla scrivania nel corso di tutta la presidenza. Ma questa attestazione di stima non fu l’unica che gli giunse dal mondo politico. Molti uomini di Stato, sia in Francia sia in altri paesi, entrarono infatti in contatto con Le Bon, che si fece peraltro instancabile propagandista del suo ruolo di ‘consigliere del principe’, pubblicando in appendice ai suoi volumi antologie di giudizi elogiativi pronunciati da elevate personalità politiche. Come Mussolini, che nel 1931 gli scrisse: «la democrazia è il regime che dà o cerca di dare l’illusione al popolo di essere sovrano. Gli strumenti di questa illusione sono stati diversi secondo le epoche e secondo i popoli, ma questo fondamento e quell’obiettivo non sono mai variati»

Non è dunque affatto sorprendente che La psicologia delle folle torni a essere letta nell’epoca degli ‘sciami digitali’ e delle fake news. Naturalmente oggi consideriamo le ipotesi di Le Bon e la sua spiegazione della «folla psicologica» come prive di scientificità, e per di più incrostate da distorsioni per noi inaccettabili. Ma quella rappresentazione elementare delle dinamiche collettive coglie ancora vividamente molti elementi del presente. E le sue pagine non hanno perso il fascino che dovevano esercitare sui lettori di più di centoventi anni fa. 

Damiano Palano

lunedì 1 febbraio 2021

Il circolo vizioso del «Selfie-government». La malattia senile della democrazia nella diagnosi di Luigi Di Gregorio




di Damiano Palano


Questo testo è apparso sul quotidano "Il foglio" il 21 dicembre 2019 


Nell’ottobre 2017, aprendo il primo meeting della sua Fondazione, Barack Obama spiegò ai sostenitori perché da quel momento non si sarebbe più prestato alla liturgia dei selfie. «Le persone che incontro non mi guardano più negli occhi», «si avvicinano a me solo così», disse mimando il gesto con cui di solito si armeggia sullo smartphone per regolare l’autoscatto. Se per fare una bella foto ci precludiamo la possibilità di avere una conversazione con qualcuno, di ascoltare quello che dice o di guardarlo negli occhi, disse allora Obama, finiamo col «creare qualcosa che ci separa dagli altri invece che approfondire la relazione con loro». La posizione del predecessore di Donald Trump alla Casa Bianca rimane fino a questo momento probabilmente un unicum. Il rituale del selfie conclusivo è invece entrato a pieno diritto nella fenomenologia delle forme di aggregazione politica, e proprio per questo mostra in modo quasi paradigmatico i tratti di quel nuovo soggetto che popola la scena contemporanea. È per molti versi proprio a questo soggetto sfuggente che Luigi Di Gregorio dedica buona parte del suo Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico (Rubbettino, pp. 314, euro 18.00), un saggio nel quale rifluiscono tanto i risultati di una ricca attività di ricerca quanto l’esperienza di consulente politico. Secondo il politologo è infatti proprio nella psicologia dell’odierno «uomo-folla» che vanno rinvenute le cause del «malessere democratico». La tesi di fondo di Di Gregorio – il quale si discosta dalle diagnosi avanzate in questi anni da molti osservatori – è cioè che a essere «malato» sia proprio il popolo. E la patologia di cui soffrono i sistemi politici contemporanei è per lui soprattutto l’esito della trasformazione culturale che, nella transizione alla modernità, ha investito i cittadini delle democrazie occidentali, travolti da un lungo catalogo di processi degenerativi: «individualizzazione, perdita di senso sociale, fine delle metanarrazioni, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, narcisismo, nuove percezioni e concezioni di tempo e spazio, trionfo della sindrome consumistica e della logica totalizzante dell’‘usa e getta’, fine dei luoghi pubblici relazionali e proliferazione dei nonluoghi».

Il Novecento è stato politicamente segnato della presenza delle masse. Anche se i secoli precedenti avevano conosciuto molte forme di azione collettiva, le masse compatte, organizzate, disciplinate del «secolo breve» avevano in effetti qualcosa di qualitativamente differente dalle vecchie sommosse di piazza, dalle moltitudini urbane che chiedevano pane e dalle folle che assaltavano i forni. Organizzate dai grandi partiti o mobilitate dagli apparati dei regimi totalitari, le masse sono infatti apparse – a torto o a ragione – come il prodotto di quella che, non casualmente, è stata chiamata «massificazione»: un processo che puntava a organizzare e mobilitare i singoli, ma che cercava anche di renderli tra loro omogenei, di tramutarli negli ingranaggi passivi di un mastodontico organismo sociale. Ed è anche per questo che la «massa» novecentesca è andata a identificare uno specifico tipo umano: l’«uomo-massa» passivo, privo di autonomia, conformista, eterodiretto, soggetto al dominio pressoché incontrastato di leader politici, di «persuasori occulti», di macchine burocratiche. Insieme alle grandi ideologie del Novecento, le masse sembrano però essere uscite dalla scena, e neppure quei movimenti che spesso chiamiamo «populisti» sembrano in grado di riconsegnare loro un ruolo. L’«uomo-massa» secondo Di Gregorio è stato sostituito proprio da un «uomo-folla» volubile, privo di solide credenze, narcisista, che proprio come il consumatore deve nutrirsi costantemente di nuovi protagonisti dello spettacolo politico. In altre parole, secondo Di Gregorio, la postmodernità segna in politica il culmine della parabola dell’homo ludens: «un individuo che ha progressivamente abbandonato il valore del ritardo della gratificazione», sostituito con «la ricerca spasmodica e continua della gratificazione immediata».

Ciò non significa che la politica non abbia responsabilità, che sono se non altro quelle di aver rinunciato a svolgere un ruolo dirigente. Ma la causa principale secondo Di Gregorio è chiara e va rinvenuta nella metamorfosi del popolo, nella «demopatìa». A veicolare la transizione sarebbero stati soprattutto i media. La personalizzazione e la mediatizzazione della politica avrebbero cioè incrementato la life politics, ossia l’importanza attribuita alla vita quotidiana, ai suoi dettagli, al puro gossip. Ma avrebbero anche innescato la trappola della fast politics, che costringe i leader politici a dover adottare – o meglio: a dover annunciare – misure immediate. Anche se dopo qualche giorno nessuno ricorda più nulla di quei provvedimenti tanto urgenti, così come gli stessi motivi che hanno indotto ad adottarli. Ciò che resta è una «sondocrazia» permanente, in cui l’opinione pubblica diventa «emozione pubblica», volatile, volubile. Il cittadino-elettore si allontana sempre di più dalla logica dell’elettore razionale. Più che un voto di opinione, il suo tende a diventare un «voto di emozione» fluttuante. Ma è proprio per alimentare nuovi emozioni che lo spettacolo non può evitare di cercare nuovi protagonisti e nuovi «eroi», strappandoli ad altri campi e proiettandoli nell’agone elettorale. E quegli outsider devono fatalmente ricorrere all’arsenale della demagogia, a promesse irrealizzabili. Collocate al centro di una discussione schematica, le questioni politiche finiscono per essere semplificate, banalizzate, ridotte a opposizioni binarie. E nel circolo vizioso chiunque può convincersi di poter ricoprire cariche istituzionali, come se l’abilità retorica di suggerire in un talk show soluzioni miracolose per i problemi della disoccupazione giovanile, del debito pubblico o dell’evasione fiscale equivalga alla concreta capacità di tradurre quegli slogan in misure strutturate e in un esercizio adeguato dell’attività di governo. 

Ad alimentare le code di ammiratori in attesa di un autoscatto è ovviamente l’inesauribile ossessione narcisistica di voler apparire. E proprio per questo nessuna di quelle immagini diventerà probabilmente memorabile. D’altronde, se nessuna società del passato ha mai avuto la capacità di conservare una memoria così dettagliata e sistematica di tutto ciò che accade in ogni istante quasi in ogni luogo del pianeta, nessun’altra epoca ha mai percepito i frammenti del proprio passato con la stessa sensazione di futilità che proviamo quando, frugando nella memoria fisica dei nostri smartphone, ci rendiamo conto che quasi nulla di tutto ciò che conserviamo meriti davvero di essere ricordato. Ma – ci avverte Di Gregorio – la voracità con l’homo ludens immagazzina fotografie, filmati, messaggi che quasi inevitabilmente finiranno dimenticati nei meandri più oscuri della memoria digitale dei suoi dispositivi è in fondo la stessa con cui il cittadino delle democrazie contemporanee ‘divora’ i protagonisti dello spettacolo politico. E in questo interminabile pasto cannibale – più che la «verità», da sempre in conflitto con le logiche del potere – la vittima principale non può che essere proprio la politica. Perché nel grottesco circolo vizioso del selfie-government, proprio nulla sembra in grado di sottrarsi al vortice della futilità.


Damiano Palano