lunedì 25 gennaio 2021

La «grande illusione» dell’egemonia liberale rende il mondo più insicuro? Il nuovo libro di John J. Mearsheimer




di Damiano Palano



Questa recensione al libro di J.J. Mearsheimer, La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo (Luiss University Press, pp. 328, euro 25.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 4 febbraio 2020.

Pochi anni prima che la guerra travolgesse il Vecchio continente, il giornalista britannico Norman Angell pubblicò il suo libro più fortunato, La grande illusione, destinato a diventare ben presto un manifesto pacifista tradotto in tutto il mondo. La sua tesi era estremamente semplice. Lo sviluppo dell’interdipendenza economica a suo avviso rendeva la guerra uno strumento ormai obsoleto. Uno Stato avrebbe infatti subito da una guerra danni superiori ai benefici che avrebbe potuto ottenere in caso di vittoria. La devastazione dell’economia dei paesi nemici avrebbe comportato effetti negativi sulla stabilità finanziaria, e dunque la stessa potenza conquistatrice sarebbe stata penalizzata. L’idea stessa di poter trarre benefici da un conflitto militare andava dunque considerata come un retaggio del passato, una «grande illusione» da abbandonare definitivamente, insieme con la diffidenza nei confronti degli Stati vicini. Ma gli eventi di qualche anno dopo smentirono in modo piuttosto clamoroso le previsioni di Angell. E il suo «idealismo» divenne anche per questo uno dei bersagli della spietata critica ‘realista’ di Edward H. Carr.



A più di un secolo di distanza, è oggi invece John J. Mearsheimer a scagliarsi contro le conseguenze di un’altra «grande illusione», ben diversa da quella contro cui metteva in guardia Angell. Il politologo americano – docente alla University of Chicago – è infatti alfiere di un «realismo offensivo» i cui cardini sono fissati nel volume La tragedia delle grandi potenze, di recente riproposto in traduzione italiana (Luiss University Press, pp. 528, euro 29.00). Ma il bersaglio polemico del nuovo libro di Mearsheimer – La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo (Luiss University Press, pp. 328, euro 25.00) – è soprattutto la politica estera condotta dagli Stati Uniti nel trentennio seguito alla caduta del Muro di Berlino. Dopo la fine della Guerra fredda, argomenta il politologo, Washington ha coltivato l’ambizione di costruire un’egemonia liberale e di esportare la democrazia nel mondo. Ma queste scelte hanno innescato conseguenze diametralmente opposte a quelle che si auspicavano.

La critica di Mearsheimer non si indirizza comunque contro le singole scelte compiute dalle amministrazioni di Clinton, Bush e Obama. Il discorso si colloca piuttosto su un piano teorico. L’obiettivo polemico è infatti il «sogno impossibile» dell’egemonia liberale, e cioè la strategia con cui uno «Stato mira a trasformare il maggior numero possibile di paesi in democrazie liberali ricalcate sul proprio modello, promuovendo nel contempo un’economia internazionale aperta e costruendo istituzioni internazionali». Di solito, secondo il ragionamento del politologo, le grandi potenze non si trovano mai in condizioni di perseguire una politica estera davvero liberale. In un sistema internazionale bipolare o multipolare gli Stati devono infatti innanzitutto preoccuparsi di garantire la loro sopravvivenza. Dunque, benché possano ricorrere spesso alle parole chiave della retorica dei diritti e della libertà, anche le potenze liberali adottano un pragmatico atteggiamento ‘realista’, che consiste innanzitutto nel garantire la propria sicurezza, evitando impegni che possano metterla a repentaglio. Ma se si trova dinanzi a una situazione particolarmente favorevole, e cioè a un assetto ‘unipolare’ che lo rende molto superiore a ogni potenziale avversario, uno Stato liberale tenderà ad abbandonare il realismo e si impegnerà per diffondere nel mondo i propri valori. Impiegherà cioè le proprie risorse per promuovere cambiamenti di regime e diffondere la democrazia, nella convinzione che ciò consenta di garantire il rispetto dei diritti individuali e che possa favorire anche la pacificazione del sistema internazionale. In realtà, sostiene Mearsheimer, l’egemonia liberale non può mai conseguire i propri obiettivi. E il suo fallimento implica anzi costi enormi. Probabilmente lo Stato che persegue una simile strategia si troverà infatti coinvolto in una serie di conflitti destinati a rendere sempre più lontana la meta di un ordine più pacifico. Il costante sforzo militare indebolirà inoltre la garanzia dei valori liberali persino in patria. E saranno rafforzati tanto il nazionalismo quanto il realismo, che secondo il politologo di Chicago sono destinati sempre a prevalere sul liberalismo.

Le argomentazioni di Mearsheimer sono talvolta piuttosto rozze (anche se risultano nel complesso più raffinate che nella Tragedia delle grandi potenze). Inoltre, non c’è dubbio che alcuni ingredienti del suo realismo offensivo debbano risultare a molti lettori piuttosto indigesti. Ma la critica indirizzata al liberalismo internazionalistico è tutt’altro che ingenua, specialmente quando coglie il limite originario nella sua distorsione individualista, ossia nell’assunto erroneo che gli esseri umani siano individui solitari, mentre in realtà sono esseri sociali. Certo il realismo di Mearsheimer non si sottrae alla classica obiezione di alimentare una politica di potenza. In sostanza, rappresentando il mondo come insicuro e gli Stati come spinti da inesauribili ambizioni di potenza, il realismo offensivo rischierebbe di pronunciare una profezia destinata prima o poi ad avversarsi. Ma per la verità la strada che La grande illusione indica è quella della moderazione. Per il politologo Washington dovrebbe cioè adottare una linea di moderazione realista. Dovrebbe dunque rinunciare all’impegno per la diffusione della democrazia nel mondo, ritirandosi da molti dei teatri che hanno visto impegnate le truppe a stelle e strisce negli ultimi due decenni. Ma un simile cambiamento – lo riconosce in fondo anche Mearsheimer – è davvero improbabile. Richiederebbe d’altronde anche una radicale metamorfosi della cultura politica americana. E la rinuncia all’ambizione di rendere il mondo «un posto sicuro per la democrazia» che, più di cento anni fa, segnò l’ingresso degli Stati Uniti sulla scena della politica globale.


Damiano Palano

venerdì 22 gennaio 2021

Il nuovo lessico della partecipazione democratica. Un libro di Michele Sorice




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Michele Sorice, Partecipazione democratica. Teorie e problemi, ospitato nella nuova collana «Lessico democratico» (Mondadori Università, pp. 159, euro 13.00), è apparsa sul quotidiana "Avvenire" il 7 luglio 2019.

«La libertà è partecipazione», cantava Giorgio Gaber negli anni Settanta, in una fase in cui la politica sembrava onnipresente. Da allora le cose sono notevolmente cambiate e la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica ha cambiato forma, tanto da diventare talvolta invisibile. Quasi senza eccezioni il numero degli iscritti ai partiti è bruscamente calato in tutte le democrazie occidentali e anche il tasso di affluenza alle consultazioni elettorali è sensibilmente diminuito (sebbene le differenze tra i vari contesti nazionali siano notevoli). Al tempo stesso, è cresciuto però un impegno meno strutturato, ‘intermittente’, molto spesso inafferrabile da parte degli stessi soggetti organizzati. E proprio per cogliere i mutamenti intervenuti negli ultimi decenni le scienze sociali hanno dovuto aggiornare la loro cassetta degli attrezzi. 
Una guida per orientarsi in queste trasformazioni è rappresentata dal volume di Michele Sorice, Partecipazione democratica. Teorie e problemi, ospitato nella nuova collana «Lessico democratico» di Mondadori Università (pp. 159, euro 13.00). Per un verso, la partecipazione è stata rinnovata ‘dal basso’, con la costruzione di reti organizzative che si sono poste l’obiettivo di sviluppare forme inedite di impegno civico. Per un altro, sono state invece le stesse istituzioni a promuovere, ‘dall’alto’, il coinvolgimento dei cittadini, sperimentando per esempio alcuni tentativi di e-government, consultazioni pubbliche, forme di dibattito pubblico e strumenti di democrazia elettronica, a supporto di processi deliberativi. Il principale esempio in questo senso è rappresentato dal débat public francese, che consiste in un processo istituzionalizzato di consultazione e che profila anche un nuovo canale di partecipazione. Le sperimentazioni si sono indirizzate inoltre verso una più radicale «innovazione democratica», di cui Sorice individua cinque principali aree: la creazione di «mini pubblici», che sono assemblee composte da un campione rappresentativo di una determinata popolazione; i bilanci partecipativi, sperimentati a livello locale; i referendum e le iniziative dei cittadini, che introducono meccanismi di democrazia diretta a fianco delle istituzioni rappresentative; la governance collaborativa, in cui la negoziazione prevede il coinvolgimento di attori di profilo differenziato; infine, la partecipazione digitale, che può concretizzarsi in piattaforme di partecipazione democratica. Ed è ovviamente proprio questo uno dei punti più delicati. Il grande entusiasmo alimentato dalla democrazia elettronica si è infatti scontrato con una serie di ostacoli. Non solo perché la tecnologia non è ‘neutra’. Ma anche perché, come sottolinea Sorice, il rischio è che l’utilizzo di questi strumenti conduca alla standardizzazione delle stesse pratiche partecipative. E questo significa dunque che le nuove tecnologie possono contribuire davvero a rafforzare le dinamiche democratiche solo se sono inserite all’interno di strutturate procedure partecipative e deliberative.

Damiano Palano

lunedì 18 gennaio 2021

Anatomia di un regime "ibrido". "La Russia di Putin" di Mara Morini (Mulino)


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Mara Morini, La Russia di Putin Il Mulino, pp. 215, euro 14.00), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 31 luglio 2020.

Dopo vent’anni di permanenza al potere, Vladimir Putin è ormai da tempo il più longevo leader russo dopo Stalin. In carica dall’agosto 1999 come capo del governo e dal 31 dicembre dello stesso anno come presidente ad interim della Federazione Russa, ha d’altronde impresso un’impronta marcata sulle traiettorie imboccate dopo la dissoluzione dell’Urss. E, soprattutto, è stato in grado di normalizzare un sistema che negli anni Novanta si trovò alle prese con le enormi difficoltà della transizione a un’economia di mercato, della liberalizzazione politica e delle spinte secessioniste. 

Ma, come mostra Mara Morini nel suo libro La Russia di Putin (Il Mulino, pp. 215, euro 14.00), pur riconquistando la stabilità e un relativo benessere economico, il paese rimane un caso di democratizzazione fallita che sottopone ai politologi una serie di domande. La principale riguarda la stessa configurazione di un regime “ibrido”, che sfugge alle categorie con cui vengono classificati i sistemi politici. Non si tratta infatti di un classico regime autoritario, perché esiste un certo grado di pluralismo partitico, perché si svolgono delle elezioni, perché viene garantito ad alcune forze di opposizione il diritto di formulare pubblicamente delle critiche. Eppure, non si tratta di un regime democratico, perché la competizione politica è fortemente limitata e perché la garanzia delle libertà, dei diritti di espressione e del pluralismo è troppo debole. Morini ritiene dunque che la Russia di oggi non possa essere neppure parzialmente ricompresa nell’alveo dei regimi democratici. E anche espressioni come “democrazia elettorale” o “democrazia illiberale” rischiano di essere fuorvianti. 

Più che adottare una nuova formula definitoria, Morini cerca però di fissare i tratti di un assetto del tutto peculiare, ricostruendo le tappe principali dei trent’anni seguiti alla fine della Guerra fredda e ricomponendo il puzzle di un sistema di potere meno monolitico di quanto possa apparire. La Russia di oggi è infatti un’eredità della stagione sovietica ma anche un risultato del caos che seguì alla dissoluzione del potere statale negli anni Novanta e delle decisioni adottate a favore di un presidenzialismo di fatto privo di contrappesi. Si è così passati da un sistema neopatrimoniale, contrassegnato da una pluralità di gruppi in competizione tra loro, a una configurazione «piramidale». Il presidente regge infatti i fili principali di una trama in cui la politica informale prevale nettamente su quella formale e in cui la corruzione gioca un ruolo centrale. Il “partito del potere” rappresenta naturalmente uno degli strumenti con cui il centro politico controlla il vasto territorio russo. Ma anche i partiti dell’opposizione “sistemica” sono per molti versi parte integrante del regime, perché non ne contestano le basi più solide e perché beneficiano di una serie di vantaggi. E proprio un tale insieme di fattori – istituzionali, culturali ed economici – sembrerebbe dunque rendere davvero poco probabile, quantomeno nel futuro più prossimo, l’adozione da parte della Russia di un sistema liberal-democratico.

Damiano Palano

lunedì 11 gennaio 2021

Bolle elettorale. Un testo di Guido Vitiello


di Guido Vitiello

Questo testo è apparso sul quotidiano "Il Foglio" il 26 settembre 2020

Nella mia bolla ultimamente si parla molto di bolle. Anzi, il bello della mia bolla rispetto ad altre bolle è che riflette senza tregua sulla sua natura di bolla, salvo poi piangere sul sapone versato. Come puttini in un quadro di vanitas, sospingiamo all’insù le nostre fragili bolle speculative, lanciando congetture sul mondo fuori dalla bolla e sul destino di una società divisa per bolle. 

Ho appena letto “Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione” (Scholé) di Damiano Palano, teorico della politica e buon lettore di fantascienza (cosa indispensabile, di questi tempi) e mi sono fatto due idee forse ingenue sul dibattito di questi giorni. La prima è che l’invocazione di moderati e moderazione, tornata in auge dopo le regionali, rischia di essere una pia illusione.

 La “force tranquille” si sposava perfettamente allo stile della televisione generalista, ma la logica delle campagne elettorali sui social network invita, al contrario, a portare all’effervescenza bolle di elettori apatici dando a ciascuna il messaggio più radicale possibile. E il caratteraccio del medium ha la meglio sul temperamento del candidato, foss’anche la quintessenza della mitezza.

 La seconda idea, legata alla prima, è che la proposta del maggioritario, rilanciata dopo il referendum, rischierebbe nelle condizioni attuali di creare non già una polarizzazione ancorata al centro, ma una corsa agli estremi illiberali, un’escalation di orbanismi e madurismi. Ma questa è una riflessione che molti della mia bolla, formatisi negli anni Novanta, non osano portare in fondo. Per timore di vederla scoppiare, la bolla.

Guido Vitiello

martedì 5 gennaio 2021

La democrazia non è semplificazione. Le lezione della Costituzione italiana secondo Filippo Pizzolato


di Damiano Palano

«Il primo avversario della democrazia», ha scritto Tzvetan Todorov, «è la semplificazione, che riduce il plurale all’unico, aprendo così la via alla dismisura». E non è certo casuale che Filippo Pizzolato richiami le parole dell’intellettuale bulgaro aprendo il suo volume I sentieri costituzionali della democrazia (Carocci, pp. 113, euro 12.00), che suggerisce di tornare alla Carta del 1948 per superare il malessere odierno delle istituzioni. 
Agli occhi dello studioso, per affrontare la «crisi» che oggi vive la democrazia, le soluzioni più frequentemente indicate sono destinate a rivelarsi inefficaci. 
Quando ci si concentra solo sui meccanismi istituzionali, si finisce infatti col confinare la dinamica democratica all’interno della sfera strettamente istituzionale, dimenticando tutto ciò che sta fuori, e in particolare le forme di partecipazione più continuativa in cui si articola la vita politica di una società. Percorrendo questo binario, non si può che giungere all’immagine di una «democrazia d’investitura», a una democrazia cioè circoscritta al momento in cui gli elettori scelgono i loro governanti, se non addirittura a una democrazia ‘presidenzializzata’ sempre più prossima al plebiscitarismo. Pizzolato guarda invece a un modo ben differente di concepire la democrazia, delineato nella stagione costituente dalle riflessioni di Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Aldo Moro: una concezione che ritrova il fondamento nella pluralità di formazioni sociali in cui si esprime la personalità dei singoli. Ridurre la democrazia al semplice principio maggioritario è dunque un’operazione semplicistica, non solo perché la maggioranza potrebbe violare i diritti delle minoranze, ma anche perché la democrazia intrattiene un rapporto fondativo con i diritti (politici, civili, sociali). E senza il rispetto di tali diritti nessuna decisione può essere davvero democratica. Ma il contributo più prezioso della Costituzione italiana consiste secondo Pizzolato nel modo in cui l’esercizio dei diritti individuali viene concepito, e più in particolare nelle modalità con cui si realizza il principio – sancito nell’articolo 1 – secondo cui la sovranità appartiene al «popolo». 
Benché non si trovi nella Carta una definizione del popolo, la sua fisionomia è infatti pluralistica, perché si tratta di «una realtà strutturata e organizzata, intessuta con un filo di relazioni sociali e di legami istituzionali». Nessuna forza politica, e ovviamente nessun leader, può dunque pretendere di indentificarsi interamente con il popolo. Mentre la partecipazione – in tutte le sue diverse forme – rimane centrale, proprio nella misura in cui dà concreta manifestazione alla struttura plurale del popolo. Sulla scorta di una simile visione, Pizzolato invita anche a diffidare dell’eccessivo pessimismo di molte indagini che lamentano una crisi della partecipazione. Ma se davvero la partecipazione non cessa di arricchire la vita delle nostre società, anche le modalità intermittenti in cui si realizza rischiano comunque di rimanere spesso inafferrabili. Rendendo fragili le basi su cui si reggono le istituzioni democratiche.

Damiano Palano




lunedì 4 gennaio 2021

L’ordine liberale è in crisi, ma non ha alternative. Un libro di Sonia Lucarelli sulle sfide del sistema internazionale




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Sonia Lucarelli, Cala il sipario sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo, recentemente pubblicato da Vita e Pensiero (pp. 284, euro 25.00), nella collana dell'Alta Scuola di Ecnomia e Relazioni Internazionali - Aseri, diretta da Vittorio Emanuele Parsi, è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 19 giugno 2020.


«Ciò che cerchiamo è il regno della legge, basato sul consenso dei governati e sostenuto dall’opinione organizzata dell’umanità», affermò Woodrow Wilson nel luglio 1918, illustrando i principi che dovevano guidare la ricostruzione dell’ordine postbellico. Quando aveva spinto gli Stati Uniti a entrare nella Prima guerra mondiale, il presidente americano aveva infatti chiarito che il suo obiettivo era una «pace senza vittoria». Si doveva cioè puntare a costruire istituzioni sovranazionali capaci di impedire nuovi conflitti, e i perni del nuovo ordine dovevano essere l’apertura degli scambi e l’auto-determinazione nazionale, mentre un’organizzazione sovranazionale avrebbe sanzionato il ricorso alla violenza da parte degli Stati. Per molti motivi convergenti la Società delle Nazioni, nata proprio dalla visione di Wilson (ma rimasta ben presto priva del sostegno americano), si rivelò largamente inefficace. E il fragile ordine liberale finì così per essere travolto dalla chiusura economica e dalla formazione di blocchi antagonisti. Ma quando vent’anni dopo tornarono in guerra, questa volta per opporsi alle potenze dell’Asse, gli Stati Uniti ripresero il vecchio progetto, seppur rivisto grazie a un’iniezione di realismo. Anche il nuovo ordine internazionale liberale delineato a Bretton Woods avrebbe infatti puntato a promuovere un’economia aperta. A differenza di quello profilato da Wilson, si sarebbe però poggiato sul ruolo di guida di Washington e avrebbe coinvolto soprattutto i paesi occidentali.

Dopo la fine della Guerra fredda, l’ordine internazionale liberale si è esteso all’intero pianeta, trasformando gli Stati Uniti in un egemone globale all’apparenza privo di rivali. Anche per questo, durante il lungo «momento unipolare», l’egemonia di Washinton è apparsa a molti osservatori come una sorta di impero dai connotati inediti. A partire dalla crisi economica del 2008 il dibattito politologico ha iniziato invece a riconoscere i segnali di una rapida erosione del vecchio ordine, anche se la discussione sulle origini della crisi è andata in direzioni piuttosto differenti, come d’altronde le previsioni sulle tendenze future. E, come è facile immaginare, le ripercussioni politiche della pandemia sono destinate a rendere il dibattito sul futuro delle istituzioni internazionali ben più che un’esercitazione accademica. Un’ottima introduzione a questa discussione è proposta dal libro di Sonia Lucarelli Cala il sipario sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo (Vita e Pensiero, pp. 284, euro 25.00), dedicato a una ricostruzione articolata delle molteplici linee di tensione che vengono oggi a sfidare l’assetto nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. A innescare una spinta alla trasformazione è naturalmente anche la fine del «momento unipolare», ossia l’ascesa sulla scena di nuove potenze. E in questo senso è il ruolo della Cina a rappresentare la principale incognita, anche perché il gigante asiatico è stato in grado di sfruttare le opportunità offerte da un sistema di scambi aperti, senza però avviare al proprio interno alcun processo di liberalizzazione politica. Ma la politologa pone l’attenzione soprattutto su alcune sfide che nascono dall’interno delle democrazie occidentali. La prima è rappresentata innanzitutto dall’impatto sociale della globalizzazione, che ha aumentato le diseguaglianze ed eroso il ruolo dei corpi intermedi, creando il cocktail alla base della fortuna dei populismi. In secondo luogo, sono le ricadute della stessa rivoluzione digitale – sulle soggettività dei cittadini, sugli strumenti di controllo e manipolazione, sulla frammentazione dello spazio pubblico – a spiazzare le consolidate modalità della governance globale. Infine, le aspirazioni universalistiche dell’ordine liberale vengono a collidere con un ritorno dei particolarismi che scaturisce tanto dalla diversità culturale interna alle democrazie liberali, quanto dal peso crescente di Stati non occidentali. L’ordine liberale, per l’effetto combinato di tali pressioni, non solo si trova dunque a mostrare sempre più spesso la propria inadeguatezza ad affrontare e gestire le sfide globali. Ma è anche contemporaneamente delegittimato, tanto da quei leader populisti che – a partire da Donald Trump – contestano la prospettiva ‘globalista’ in nome delle appartenenze nazionali, quanto da una società civile transnazionale disillusa e impaurita. E da tutte quelle forze che, nella chiusura dei confini non solo ai flussi economici, vedono un antidoto agli effetti deteriori della globalizzazione.

Non è certo sorprendente che, sotto la pressione degli eventi, sia riemersa in questi mesi la grande domanda sulla possibilità di giungere a un «governo mondiale», su cui si interrogarono grandi intellettuali come Jacques Maritain e Hans Kelsen. Per le sue dimensioni, per la sua velocità di diffusione e per la consapevolezza del problema, la pandemia ci ha infatti posto dinanzi a una crisi che coinvolge l’intera umanità. E ha mostrato ancora più chiaramente la fragilità delle istituzioni sovranazionali esistenti. Benché l’ordine liberale non sia affatto esente da limiti, secondo la politologa non esistono alternative migliori. Per i suoi principi e la sua flessibilità rimane infatti l’unico assetto che possa consentire di far convivere uguaglianza, sicurezza e libertà, oltre che democrazia e mercato. Pur dinanzi a una serie di nuove sfide, la vecchia visione wilsoniana di un «regno della legge, basato sul consenso dei governati e sostenuto dall’opinione organizzata dell’umanità» non perderebbe il proprio valore. E il momento per far calare il sipario non sarebbe dunque ancora arrivato. Anche se, come scrive Lucarelli, «trama, ruoli, musiche e attori vanno ripensati a fondo perché lo spettacolo possa continuare». 


Damiano Palano