Questo articolo - scritto nell'aprile 2020, nella prima fase della crisi sanitaria - è apparso sulla "Rivista di Politica" (n. 2/2020) e nell'ebook curato da Alessandro Campi, Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l'economia, la comunicazione e le relazioni internazionale (Rubbettino). L'intero ebook può essere scaricato gratuitamente sul sito della casa editrice.
La pandemia ha
imposto anche alle nazioni europee un’eccezione iperbolica che sembra a molti
contenere una sorta di rivelazione, promettente o catastrofica, del corso della
storia, di cosa l’umanità dovrebbe pensare della propria autonomia, delle
proprie miserie o della propria interdipendenza oggettiva. In ogni caso, dalle
sue prime letali apparizioni, un virus ha in un certo senso sospeso, con
diversi beni che danno forma alla vita umana, anche il pensiero politico. Tra
la solitudine dei morenti e il distanziamento dei vivi, si fatica così a
immaginare in che forma il mondo, sincronizzato dall’imperativo della
conservazione della vita, resterà il prodotto delle decisioni o delle rinunce
umane. A molti è forse tornata piuttosto alla mente un’immagine, a seconda della
sorte dolorosa o grata: «ogni giorno è
buono per nascere e per morire».
Il tempo
dell’azione umana, il tempo dell’azione che lega la nascita alla morte, appare
così oggi essenzialmente indeterminabile: non si sa quando «il mondo che verrà»
avrà inizio, come dovrà vivere chi lo abiterà o quali attività saranno ritenute
essenziali per sopravvivere nell’umanità integrata dalle minacce. L’accidente
che ha destinato a un distanziamento condiviso miliardi di persone non sembra
dunque comportare informazioni «pratiche» sull’esperienza personale e comune,
su cosa si dovrà fare delle comunità umane una volta che saranno state
vaccinate. In altri termini, contrariamente a quanto un’opinione diffusa sembra
affermare, non è certo che sarà possibile «ricominciare la vita comune» alla
luce di ciò che una catarsi sincera, o una lucidità improvvisa, ha spinto a
chiamare fin dai primi giorni del dramma, in una sorta di confessione negativa,
le lezioni della pandemia. Fin da quei giorni, in ogni caso, si è sprigionata
un’impetuosa impressione – il «mondo non sarà più come prima» – che sembra
riguardare ciò che l’umanità europea pensava di sapere, non solo sul proprio
sistema sanitario o sulla propria indipendenza strategica, ma anche sul mondo e
sulla sua forma di vita.
Se gravi prove di
forza materiali e spirituali si annunciano, l’esame di coscienza collettivo in
cui gli europei sono di fatto imbarcati sarà all’opera in ogni deliberazione su
pratiche, istituzioni e regole, in ogni nazione e tra le nazioni. Si può forse
cominciarlo esaminando la natura dell’evento a cui siamo esposti, esplicitando
le questioni politiche che ha sollevato e chiedendosi se una crisi sanitaria
può determinare i criteri completi, o i principi attivi, della vita comune. Le
rapide considerazioni che seguono corrono il rischio di contribuire a quel
chiarimento fondamentale che è in effetti imposto, ma che non mi pare potrà
essere pienamente definito, dai rischi presenti.
L’impressione che
la pandemia abbia apportato un accidente rivelatore della situazione
dell’Europa e del mondo, o della situazione umana nel presente europeo e
mondiale, si è propagata con la stessa velocità del virus. La promessa
contenuta in quell’impressione, che non vi è ragione di escludere scetticamente,
mi pare però comportare dei malintesi. È vero che gli eventi, secondo una tesi che percorre la storia del pensiero e dei
popoli, rivelano e istruiscono. Vi sono però vari tipi di eventi e occorre
essere disposti ad apprendere. Vi sono gli «accidenti estrinseci o intrinseci»
dell’esperienza politica che per Machiavelli conducono gli uomini a
riconoscersi e le repubbliche a tornare ai loro principi. Vi sono prove
eccezionali che esplicitano ciò che tiene insieme gli elementi di un corpo
politico, gli elementi di cui l’esperienza ordinaria cela i legami profondi. Vi
sono drammi collettivi, guerre e rivoluzioni, che interrompono mutamenti
sociali internazionali, li accelerano o li reintegrano allo spazio della
deliberazione civica. Vi sono «affaire» in cui la sorte di un uomo obbliga
tutta una nazione a manifestare, o a tradire, la sua giustizia e l’incontro
delle sue componenti spirituali. Di fronte all’evento, giudicando le crisi e le
tendenze storiche, uomini e comunità si rapportano al tutto della vita comune
che riscoprono nel momento della sua più grave indeterminazione. L’evento è la
promessa di un mondo in attesa di piena fondazione o lo choc culminante delle
contraddizioni di un ordine da rifondare. Così compreso, l’evento è insomma il
tempo rivelatore dell’operazione umana, il momento che strappa parole e azioni
alla loro inerzia o che manifesta la vita comune come il prodotto di parole e
azioni, anche quando queste si appropriano dei processi tecnici o economici.
Ora, è difficile
eludere il fatto, o il paradosso, che sospende tanti nostri pensieri:
l’accidente pandemico si è innanzitutto rivelato come un evento subìto e che ha
richiesto una responsabilità che si confonde con l’immobilizzazione e il
distanziamento dell’umanità. Fin dai primi giorni, alcuni imperativi che si
dicevano irreversibili, ormai naturali come il vento, della società moderna
sono stati sospesi insieme ad alcune delle più antiche opere di misericordia e
ai principi più cari alle democrazie europee. Più profondamente, o guardando
oltre il tempo del giusto sforzo sanitario, se come si scrive prendendo alla
lettera il male che ci contagia la rivelazione «pandemica» sarebbe «senza
precedenti» in quanto totale, è forse
bene caratterizzare da subito questa sua peculiarità: in quanto tale, la crisi
pandemica non sembra annunciare o implicare essenzialmente alcun principio positivo di vita comune che
riguarderebbe tutto il popolo e tutti i popoli. Né il distanziamento né
il confinamento, come tutti sanno, sono un’affermazione di vita o un obiettivo
comune. Non si può dire del resto, nemmeno scrivendo all’ora dell’urgenza, che
l’evento abbia fatto regnare su uomini e popoli un consenso diverso dalla paura
della morte accidentale.
Proviamo tuttavia a
scrutare i segni di questo tempo eccezionale per elaborarne degli insegnamenti,
seguendo il desiderio diffuso, che non avrebbero bisogno di postulare che
l’umanità può giungere accidentalmente alla conoscenza di sé, quel riconoscimento
a cui la lunga storia dello spirito, delle guerre o dei flagelli dovrebbe
averle già condotta. Cominciamo col vedere a quale intelligenza della politica
la crisi presente ha eventualmente riaperto gli occhi europei. Le decisioni e
le parole politiche mi sembrano aver reso sensibile l’ambivalenza «pratica» del
dramma o dell’evento a cui ho fatto allusione. La minaccia è apparsa al contempo come refrattaria a criteri
politici – tanto il «virus non conosce frontiere» né ammette discussioni
diverse dalle congetture scientifiche – e come capace di reimporre le più
drastiche manovre statali, a partire dal ristabilimento di frontiere interne
all’Europa e tra ogni casa, perché sono in realtà gli uomini e non il vento a
contagiare. La «guerra» da combattere, motivo di un’indiscutibile Union sacrée, è dichiarata a un «nemico
invisibile» che ha attaccato tutta l’umanità, ma che smaschera anche le risorse
e le strategie distintive di ogni nazione. Non si potrebbe così dire se il
virus ha ridestato o ha sospeso la politica nelle società moderne, senza riporre
la questione primaria del rapporto che la politica intrattiene con la norma
della vita umana e le eccezioni della città. Proviamo a distinguere promesse e
minacce.
Da qualche
settimana, le società di individui hanno conosciuto decisioni collettive,
esperienze di solidarietà e discorsi di fierezza nazionale che hanno reso
un’attualità dolorosamente effettiva all’immagine della comunità di destino.
Non si poteva tenere l’Italia separata dal caso virale, né abbandonare alcuni
in nome della produzione. Non si esita così in Europa a trarre dalla pandemia
chiavi di lettura politiche e significati epocali la cui portata riflette
l’iperbole del dramma: «per la prima
volta nella storia umana si fa passare la vita degli individui prima
dell’economia», «il
"valore" della vita è notevolmente aumentato nell’inconscio
collettivo dei paesi più ricchi». La deliberata scelta di sospendere anche il
regno dei meccanismi economici per proteggere vite e sistemi sanitari, quali
che siano state le situazioni dei paesi europei, ha risituato di fatto gli europei
nell’elemento in cui i corpi politici si governano come un tutto e pongono,
attraverso il rifiuto di sacrificare persone, la più alta questione della
giustizia.
Molti senz’altro
obiettano oggi silenziosamente che «l’economia» radicalmente sospesa porrà ora
alla «vita» lunghe conseguenze dolorose, o che ci aspetta ora l’arduo compito
di reintegrare l’economia nella «vita attiva». Non si può in ogni caso
trascurare un altro fatto imposto dall’inesorabile sequenza in cui ci siamo
trovati: in un altro senso, a essere sospesa è stata anche la deliberazione politica,
la deliberazione che di fatto riguarda il giusto rapporto tra le «attività
essenziali» alla vita attiva, alla vita completa. Si può dire che la
deliberazione politica è stata quasi svuotata dal rischio del contagio, a
seconda dei paesi a gradi diversi, se si persiste in particolare a non
escludere nei tempi moderni, con Aristotele, la preoccupazione «architettonica»
della politica, l’arte che assegna alle diverse attività il loro posto nell’insieme.
Il caso italiano si è rivelato, anche in quel caso, dolorosamente eminente.
L’eccezione davvero impressionante, o la paura che era giusto provare, ha
tuttavia imposto una risposta «generalizzata» che è sembrata da principio
escludere dalla grammatica della decisione la considerazione proporzionata di
gruppi, età e fini della vita comune. Solo l’economia in realtà non è mai
uscita dalla preoccupazione pubblica della vita e della morte. La protezione
delle vite, regola elementare dello Stato, ha in quel senso quasi saturato un
orizzonte collettivo in cui l’animale razionale poteva forse discernere tempi,
luoghi e pratiche. In nazioni cristiane che non sacrificano «deliberatamente»
delle persone, il tentativo stesso di quella deliberazione ha ceduto presto
all’impressione di un meccanismo letale da fermare insieme alla vita comune. Gli
argomenti della scienza hanno finito in un certo senso per alterare il senso
politico della prudenza, il cui modus
operandi non può escludere alcuna circostanza e alcun bene, benché non
avessero in sé criteri etico-politici per scegliere tra le opzioni collettive.
In quella che molti hanno provato come un’abrogazione temporanea di tutti i ragionamenti
pratici, anche le opere della misericordia sono rientrate nell’orbita del divieto
provvisorio ma generale.
Del nostro esame di
coscienza collettivo dovrà forse far parte anche questo dubbio o
quest’impotente constatazione: in un meccanismo irresistibile che ha rivelato la
vulnerabilità anche della nostra gerarchia dei beni e delle disposizioni che ci
sono care, la solidarietà, la competenza e la responsabilità sembrano aver
anche accompagnato ciò che i più impazienti osservatori chiamano oggi un
«crollo etico e politico», «un’abdicazione di tutti i principi della civiltà»,
l’inizio di una profonda corruzione (G. Agamben). In un tempo in cui le regole
e le opere della libertà e della fede sono improvvisamente uscite dall’orbita
della vita comune indispensabile, le lezioni che si sono gravate nell’anima
europea potrebbero perpetuare anche il ricordo di una tragica rivelazione: l’immagine di una vita necessaria ma
separabile dalle esperienze che ne garantiscono il bene, l’immagine scettica di
un «valore» da scrivere con le virgolette, l’immagine di una vulnerabilità da
proteggere interminabilmente dall’economia, dai virus, dalle proprie azioni e
relazioni.
Si deve ammettere
in ogni caso che «l’alta politica» consisterà ora – «dopo» – a non abituare
uomini che hanno esperito la polverizzazione di opinioni autorevoli e pratiche
ordinarie a quelle eccezioni, alla sospensione di «attività inessenziali» in
cui si trovano però i beni della vita. Vi sono dunque ragioni serie per
dissipare fin d’ora i malintesi che accompagnano questi giorni, per mantenere
la coscienza del fine nel cuore della necessità. La pandemia ci ha messo in
particolare sotto gli occhi due grandi fatti – l’interdipendenza umana e la
morte – che comportano in realtà, non una rivelazione
finale, ma delle questioni decisive sulle verità durevoli della condizione
umana e sull’orientazione generale delle
nazioni europee. Non conosco il «mondo che verrà» ma immagino sarà senz’altro
il prodotto di ciò che comprenderemo da quelle «lezioni».
Tra le rivelazioni
apportate dalla pandemia, vi sarebbe dunque il fatto educatore, o l’educazione
dolorosa, della nostra esistenza planetaria, di ciò che viene chiamata l’interdipendenza
globale. L’argomento, che ha un lungo passato e versioni liberali, sociologiche
o religiose, si presenta in generale in questi termini: la pandemia ha rivelato
il fatto del destino comune degli
uomini in cui occorre allora riconoscere, adeguando coscienze, leggi e
politiche, un valore. Lo scetticismo
è muto anche oggi di fronte a quell’argomento: vi sono senz’altro segni visibili
dell’unità umana nell’attualità storica, manifestazioni o indizi di una
comunità universale reale. A giudicare in tutta sincerità da quanto abbiamo
sotto gli occhi, tuttavia, la crisi attuale sembra piuttosto ridestare il
giudizio sui processi dell’interdipendenza, confusi di solito con il progresso
dell’universale o della salvezza, e non autorizza a trarne imperativi politici,
etici e spirituali. Non si potranno scartare alcuni fatti.
Il primo che viene
irresistibilmente e tristemente alla mente, anche se la sua formulazione
pubblica è oggi difficile, è che ad avere accomunato «tutto il popolo» e «tutti
i popoli» è una malattia
potenzialmente letale, un contagio la cui circolazione è stata accelerata dalle
connessioni globali. L’interdipendenza è stata in altri termini la condizione
dell’aggravarsi di una sventura. Quanto meno neutra, non sembra congiungere, in
un’evidenza incontestabile e indifferente alle azioni, l’integrazione materiale
e il bene comune dell’umanità. Il significato politico del contagio si è del
resto manifestato attraverso risposte, al contempo spirituali e materiali,
nazionali, risposte che sono state tanto più tardive quanto più i paesi si sono
scoperti «dipendenti» in settori strategici – non «autosufficienti». Per
concretizzare quelle risposte esposte al rischio dell’illimitatezza del dramma,
è stato necessario delimitare lo spazio del governo degli uomini, chiarire le
responsabilità all’opera, attingere alle appartenenze che sostengono i
sacrifici ultimi e i calcoli ordinari.
In questo senso, se
si presta attenzione alle sequenze pratiche dell’evento, i fatti che si sono
manifestati non sono privi di significato nemmeno per il «valore» che si
attribuisce all’interdipendenza e per le decisioni internazionali che si
prospettano. Qualche anno fa, un lucido filosofo della mente e dell’azione
aveva chiarito la questione del movimento generale delle società contemporanee
– e per contrasto delle condizioni della responsabilità collettiva – in questi
termini: «Non è un po’ demente e
irresponsabile aver spinto l’interdipendenza a questo punto? Si vedono i
problemi dell’interconnessione generalizzata quando si tratta dell’informatica
o della sanità pubblica – i virus informatici si diffondono a tutta velocità,
come i problemi sanitari… E possono gli esseri umani vivere degnamente in
sistemi d’interdipendenza così vasti, in cui i movimenti di correzione sono di
un’estrema brutalità?» (V. Descombes, Exercices
d’humanité, 2013, p. 165). Lo sfondo di quell’interrogazione su come
l’umanità esercita se stessa si è chiarito in effetti con estrema brutalità.
Naturalmente si immagina senza fatica il senso di fatalità davanti al movimento
planetario che quest’evento contribuirà a far pesare su pensieri e decisioni
europee. È prevedibile che sulla scelta di discernere, secondo giustizia, tra
le cooperazioni internazionali da perseguire, che sul rischio inevitabile di
quella deliberazione concreta propria della comunità delle nazioni, peserà
ancora il sospetto di un ripiegamento egoistico o di una rinuncia
all’universale. L’ambivalenza dell’interdipendenza brutalmente rivelata dalla
pandemia rinnova tuttavia anche la questione dei principi attivi dell’ordine
internazionale. Se tra la lezione che stiamo subendo, o vogliamo trarre, vi è
anche quella del limite costitutivo e
ordinativo delle cose umane, occorrerà allora provare a dissipare i malintesi
politici e etici propri di questa sorta di sillogismo negativo: 1) La questione
dei limiti necessari alla responsabilità collettiva è delegittimata, come ogni
comunità reale, in nome della interdipendenza umana. 2) La famiglia umana è
compresa, non in nome dei beni che la formano e delle sue azioni, ma alla luce
delle sue comuni minacce. 3) La vulnerabilità diviene il criterio che orienta
indefinitamente l’interdipendenza che continuerà anche a minacciarla. Senza il chiarimento di questi equivoci, la
pandemia avrà forse manifestato agli occhi degli europei la fatalità sinistra
di un’umanità globale costretta a determinarsi attraverso l’abbassamento dei
suoi fini, la fatalità di una fratellanza rivelata dalla tragedia e che
richiede la rinuncia alla politica, alle rivendicazioni di giustizia, al
rapporto tra l’uomo e Dio. L’obiezione a quella fatalità unificatrice verrà
senz’altro lo stesso, ma dalla pressione degli imperi o dallo sfinimento di
certe nazioni.
L’interdipendenza
globale ha in ogni caso irradiato, in questo caso, una minaccia mortale. Il
grande fatto che ha sorpreso governo e cittadini, che ha impaurito un po’
tutti, è in un certo senso il rischio della morte che non lasceremo alle spalle
con il tempo dell’eccezione. Sarà senz’altro futile ogni riflessione che non
farà lo sforzo di trarre qualche lezione personale e collettiva da e su
quell’informazione, su quel rischio che comporta una persistente questione, su
quel costo umano incalcolabile. Anche nel «mondo che verrà» non solo il
rapporto alla morte sarà direttamente oggetto di varie legislazioni
scientifiche, ma costituirà in un certo senso, in un senso certo misterioso ma
effettivo, l’orizzonte che chiarifica o oscura le deliberazioni delle nazioni.
Corro dunque il rischio di una considerazione sul fatto fondamentale che oggi
ci lascia silenti.
La morte è tornata
a circolare, più ricattatrice dei capitali e più celere delle notizie, tra gli
uomini, in una forma crudele, involontaria e innocente che ha paralizzato la
prudenza, la carità, le orazioni funebri. L’esame di coscienza collettivo
incontra in quella circolazione un eventuale, ricorrente, vero kairos. Ad alcuni saggi sperimentati non
è sfuggito: il tempo della pandemia offre l’occasione agli europei di «meditare
sinceramente» il loro rapporto «ambivalente» alla morte e, con esso, i loro
motivi di vita (P. Thibaud, Il
confinamento, la morte e le patrie carnali, R. Brague, La pandemia, i malintesi del progresso e la speranza cristiana, in RdPonline, aprile 2018). Ammettiamo ed
esaminiamo quell’ambivalenza, quella difficile sincerità collettiva. Come una
questione ultima, la parola pubblica tende a scacciare il riferimento alla
morte, ma presupponendo di fatto la morte come una sorta di criterio assoluto,
il sommo male da ritardare, l’ostacolo terminale di tutta la vita. Rischio
insopportabile e onnipresenza inconfessabile, la morte appare allora indicibile
e totalizzante. La vita tende così a distogliere da essa l’attenzione, perché
vi riconosce solo un ostacolo, ma a trarne anche un’orientazione pratica, o
piuttosto la fuga che rischia sempre di differire la ricerca dell’azione
virtuosa o del bene comune.
Se questa è la
nostra tendenza, il tempo della pandemia, sotto quest’aspetto anche politico,
avrebbe in effetti la forza di un rivelatore collettivo: anche nelle società
liberali, ognuno ha esperito la propria dipendenza per così dire ultima e
un’interdipendenza umana più profonda e personale di quella imposta dai
movimenti globali, ciò che ha fatto a tanti temere, non solo di non conservare
la propria vita, ma di dare la morte ad altri.
Si sarebbe così
tentati di dire che la morte si è manifestata come un «fatto sociale totale»
della politica, non fosse incapace, in se stessa, di ispirare una vita comune
completa – a meno ovviamente di divenire essa stessa una politica o una
religione. Anche la morte pandemica porta però a porre pienamente la questione
politica, a chiedersi quale sarebbe l’azione che sa assumere l’orizzonte della
morte – e il desiderio di evitare la morte – senza però considerare il rinvio
della morte l’imperativo implicito, o la logica dichiarata, dell’azione umana. Si
può dire che quell’equilibrio intimo e comune non sarà ritrovato in Europa
dimenticando le comunità politiche e spirituali – le «assemblee» che l’Europa
conosce – in cui l’azione trova, anche nell’eccezione, le sue regole e il suo
respiro. Esaminiamo sinceramente anche questo fatto. Ciò che ha scosso anche
gli europei è forse che la morte si è manifestata di nuovo come un fatto collettivo – o meglio, come un
fatto che ha richiesto una protezione collettiva o la considerazione della vita come una responsabilità collettiva.
Ciò che scuote e indebolisce ancora gli europei è che quel collettivo non si è
manifestato incontestabilmente come l’umanità, se non nella forma negativa di
una minaccia globale, né come l’Europa, a dispetto delle dipendenze sanitarie e
degli «accidenti estrinseci» subiti in comune. Ciò che potrebbe scuotere e
disorientare a lungo gli europei è che né il fatto bruto della morte né la
protezione dalla morte possono determinare completamente, in quanto tali, un
collettivo in cui è possibile ricominciare ad agire e a comporre i beni del
mondo umano. Ma quale sarà la comunità in cui gli europei troveranno i motivi
di vita, anche quelli che danno significato alla morte? La pandemia globale è
un evento che lascerà lunghe tracce dolorose, ma è in un certo senso
collettivamente ineffabile anche perché sembra permettere di eludere, se non la
scoraggia, quella questione.
Torno a quanto dicevo all’inizio: non sarà possibile tornare alla vita comune solo alla luce delle lezioni della pandemia, anche se diverse persone ne stanno offrendo di nobili e concrete. Tutte le deliberazioni che si annunciano, su sicurezza, economia e civiltà, sull’ordine europeo o mondiale, saranno in un certo senso rivelatrici anche dei giorni pandemici, come delle ragioni che ci hanno in un certo senso spinto, se si osa scriverlo, a lasciare che i morti seppelliscano i morti. Le parole odierne – la vita che passa davanti all’economia, l’orgoglio del patriottismo degli italiani, il sollievo spirituale offerto dal silenzio maestoso di san Pietro – troveranno eventualmente nelle azioni prossime, nella vita comune che prenderà forma, un significato coerente e completo. Il «mondo che verrà» avrà in quel modo ancora a che fare con l’esperienza politica, in cui le comunità commisurano visibilmente le loro «attività essenziali», e con i rischi di una storia incarnata. Non ci si accontenterà di dire che l’umanità dovrebbe trovare in una sventura biologica le ragioni della sua unione, la sua rivelazione incompleta o negativa. Né le nazioni europee né i cristiani hanno in effetti buone ragioni per esagerare la retorica di ciò che l’interdipendenza vulnerabile, di uomini e popoli, impone alla vita comune. Manifestazione dolorosa di una possibile, rinnovata coscienza del limite, la vulnerabilità non dice in quale comunità gli uomini esperiranno, nel tempo, i loro beni né quale sia la comunità che riunisce, oltre il tempo, i mortali. Nelle risposte a quelle persistenti domande vi saranno le lezioni e le rivelazioni che oggi irresistibilmente cerchiamo, forse per sfuggire alla disarmante impressione di una tragedia inesorabile che ha lasciato i più spettatori, della vita come della morte.
Giulio De Ligio
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