di Vittorio Emanuele Parsi
Questo articolo è apparso sul “Messaggero” il 9 novembre 2020
Se vorrà riuscire a essere il presidente di tutti gli americani, Joe Biden dovrà dimostrare di non essere “un uomo per tutte le stagioni”. Le sfide che lo attendono sono talmente gigantesche che soltanto una leadership salda ed efficace potrà produrre la riunione sotto una sola bandiera di una nazione lacerata. Queste sfide si chiamano, rispettivamente: disintossicazione della società dal mix esplosivo di sovraeccitazione e bugie che hanno caratterizzato questa stagione; gestione responsabile della pandemia; riequilibrio “dell’economia dell’1%”; rilancio della leadership americana nel mondo. L’effetto più devastante di quattro anni di presidenza Trump è stato di aver legittimato e amplificato un clima di scontro permanente e ridicolizzazione della verità. È la tossina peggiore che può essere inserita nel corpo della democrazia, in grado di staccare la carne della società dallo scheletro delle sue istituzioni, come un botulismo della politica. Trump ne ha fatto un uso massiccio e crescente, a mano a mano che il dilettantismo e l’incompetenza della sua azione veniva amplificata dalla magnitudine dei problemi che non riusciva ad affrontare. A una settimana dalle elezioni, il presidente in carica (e sconfitto) si ostina a contestare la legittimità del mandato del presidente eletto (perché vittorioso). È l’ennesimo gesto di un uomo che ha sistematicamente anteposto i propri interessi personali a quelli delle istituzioni, della comunità e della Costituzione che aveva giurato solennemente di difendere. Ora Joe Biden dovrà dimostrare di saper rendere nuovamente potabili i pozzi avvelenati della democrazia. Dovrà essere capace di ristabilire il prestigio della verità e l’autorità dei fatti di fronte alla nebbia della calunnia, dell’insinuazione e della discordia che il suo predecessore ha alimentato.
Nell’affrontare il Covid-19 Trump ha dimostrato una colpevole negligenza e
questo, quasi certamente, gli è costato la rielezione. Paradossalmente, in
questo campo l’azione del nuovo presidente partirà avvantaggiata, tanto è stata
negativa la gestione della pandemia da parte del suo predecessore. Già prendere
più seriamente la minaccia marcherà la differenza, anche se ciò ovviamente non
sarà sufficiente per sconfiggerla.
L’impatto asimmetrico del Covid, che ha
colpito i neri più dei bianchi e i poveri più dei ricchi, ha esasperato le
diseguaglianze crescenti della società americana, che da almeno quarant’anni
sta replicando il sentiero che, quasi un secolo fa, sfociò nella Grande
Depressione. Decenni di “rivoluzione conservatrice” hanno finito col
polarizzare culturalmente l’America, tra coste e pianure centrali, tra metropoli
e campagne, lungo una frattura alimentata dalle superstizioni creazioniste e
dalla diffidenza nei confronti della scienza tipiche della destra
ultrareligiosa. È quel “pessimismo nostalgico politicizzato” di cui scrive
Colin Crouch nel suo ultimo saggio, che non scompare certo con Donald Trump e
che la durezza dei tempi che viviamo alimenta.
Biden dovrà dimostrare che proprio la
tragica grandezza della sfida può esaltare le qualità di chi è chiamato a
confrontarsi con essa. Come fecero Roosevelt e Johnson, capaci di cogliere la
drammaticità dei tempi che si trovarono a vivere e di cambiare l’America: non
limitandosi a contemplare le ragioni delle divisioni del passato, ma offrendo
una visione per il futuro, con il New Deal e la Great Society. Entrambi presero
sulle spalle un Paese diviso e piegato e lo traghettarono oltre. Perché era la
sola cosa da fare, certo, ma anche perché lo seppero e lo vollero fare. Erano
uomini “pragmatici”, che capirono che proprio il pragmatismo imponeva di fare
scelte forti, “radicali”, perché un colpo di barra deciso è la sola possibilità
per uscire dall’angolo morto e tornare al vento.
Biden ha annunciato in un programma di
interventi pubblici e di nuova regolamentazione dell’economia persino superiore
a quelli presenti nel programma di Obama. È la sola rotta percorribile, per
quanto ardua, affinché gli Stati Uniti possano tornare a essere il Paese leader
delle democrazie.
Le angosce che hanno gonfiato le vele di
populismo e sovranismo rimangono tutte. E devono essere affrontate senza
illudersi che un ritorno al passato sia la soluzione. Una globalizzazione meno
selvaggia, un mercato più inclusivo ed equo, uno sviluppo più attento alla
salvaguardia del pianeta, una società che non mortifichi qualità e aspirazioni
della sua metà femminile: sono tutti obiettivi più a portata di mano con
l’America che senza l’America o contro l’America. Ecco perché la vittoria di
Joe Biden è stata accolta con tanta soddisfazione da tutti i leader europei.
Da sola non basterà a rimettere in
carreggiata multilateralismo e internazionalismo liberale, né risolverà
magicamente i problemi ambientali. Neppure cambierà la realtà di una crescita
relativa del ruolo cinese nel mondo o delle tensioni esplosive del Medio
Oriente: ma ci fa guadagnare tempo, ci fornisce rassicurazioni sul metodo e
sulla responsabilità con cui Washington si muoverà nei prossimi quattro anni.
Ci offre, in sintesi, maggiori speranze di successo.
Nessun commento:
Posta un commento