di Damiano Palano
Le elezioni americane del 3 novembre confermano le divisioni profonde dell’elettorato americano. Una tribalizzazione rafforzata dalle tecnologie, che erodono la cultura civica e il capitale sociale su cui si basavano questa e altre democrazie occidentali.
Questa nota è apparsa su VPplus il 7 novembre 2020.
All’alba del 9 novembre 2016, scoprimmo un’America molto diversa da quella che avevamo conosciuto. Il responso delle urne non ci disse soltanto che a insediarsi alla Casa Bianca sarebbe stato Donald Trump, l’originale miliardario newyorkese che per mesi era stato ritratto dalla stampa e da molti osservatori come un fenomeno da baraccone e come un candidato sconfitto in partenza nella competizione con Hillary Clinton. Il risultato di quelle elezioni ci disse soprattutto che una fetta cospicua di cittadini aveva creduto nello slogan «Make America Great Again» inalberato durante la sua campagna, che non si era scandalizzata per i toni razzisti del tycoon, per le fake news che popolavano i suoi tweet, per il suo passato burrascoso, che non aveva giudicato risibili molte delle promesse lanciate nei suoi comizi. In altre parole, avevamo scoperto che una parte dell’America aveva riconosciuto in Trump un outsider capace di difendere i propri interessi e i propri valori. Un outsider a cui veniva consegnato il compito di difendere, dalla globalizzazione e dalle élite liberal, gruppi sociali che erano abissalmente lontani da quello da cui l’immobiliarista newyorkese proveniva.
Quattro
anni dopo sappiamo che l’America non è diventata di nuovo grande come era stata
nella seconda metà del Novecento. L’economia ha certo beneficiato delle ricette
dell’amministrazione Trump, ma gli effetti positivi sono stati mandati in fumo
dall’irruzione della pandemia. Sotto il profilo internazionale, gli Usa hanno
invece visto ulteriormente incrinarsi la legittimità del loro ruolo di egemone
globale, e sarà molto difficile che – anche a dispetto degli sforzi che Joe
Biden potrebbe riporre in un rilancio del multilateralismo – la situazione
torni sui vecchi binari. Ma, soprattutto, i risultati delle elezioni del 3
novembre ci confermano che l’America è un paese diviso, lacerato come
probabilmente non è mai stato nel corso dell’ultimo secolo. E il punto non è
tanto che l’esito del voto si giochi – a dispetto, ancora una volta, di ciò che
ci avevano predetto i sondaggi da molti mesi – su una manciata di schede,
quantomeno negli Stati in bilico. I dati su cui riflettere sono piuttosto
l’intensità della partecipazione e la distanza, davvero marcata, che esiste tra
i due gruppi di elettorato. Non è una scoperta che giunga davvero inaspettata.
Molti politologi e molte indagini ci avevano ripetuto negli scorsi anni che nelle
democrazie occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti, stava crescendo il
livello della “polarizzazione”. In altre parole, la distanza ideologica tra
democratici e repubblicani stava crescendo, non solo tra le leadership
politiche, ma tra le stesse basi elettorali, al punto tale da mettere in
discussione quella tolleranza reciproca e quell’autocontrollo che rappresentano
i pilastri più solidi di una democrazia dell’alternanza. I risultati delle urne
ce lo confermano in modo quasi clamoroso, anche perché l’affluenza al voto –
nonostante le circostanze eccezionali della pandemia – ha raggiunto il livello
più alto da oltre un secolo, dimostrando così che la società americana è
probabilmente molto più politicizzata ora rispetto al passato. Non sono però
solo i risultati delle urne, o le stesse contestazioni che li accompagnano (e
li accompagneranno probabilmente a lungo), a palesare le proporzioni della
“polarizzazione”. A fornirci una fotografia forse ancora più efficace – e
inquietante – sono molti degli eventi che hanno preceduto e seguito le elezioni
del 3 novembre: la contestazione delle procedure elettorali, la
delegittimazione dell’avversario, l’allusione (neppure troppo implicita) alla
possibilità di ricorrere alle armi, la comparsa di una violenza politica non
più praticata da attori marginali ma da soggetti che risultano per molti versi
interni alla dialettica delle forze istituzionali.
Dinanzi
a questa America divisa in due, in fondo riscopriamo ciò che avevamo sempre
sospettato. E cioè che, al di là della retorica dell’american dream, il
paese dello Zio Sam era sempre stato lacerato da profonde diseguaglianze e
discriminazioni. I politologi statunitensi degli anni Cinquanta e Sessanta scrivevano
che il segreto dell’esperimento democratico americano era la civic culture:
una cultura politica contrassegnata dalla coesione intorno ai valori di fondo
della comunità nazionale, una cultura che trasformava la competizione
elettorale in un ‘gioco’, perché nessuno dei contendenti era percepito come una
minaccia e perché nella tornata successiva il risultato si sarebbe potuto
ribaltare. Quell’immagine era già allora sin troppo generosa, perché trascurava
la forza delle linee di divisioni ereditate dal passato, che l’esito della
Guerra civile, il New Deal e la Guerra fredda non avevano cancellato. Quelle
profonde fratture tornano per molti versi a riaffiorare con maggiore evidenza
oggi, ‘incapsulando’ dentro vecchi contenitori identitari il disagio che nasce
dalle nuove diseguaglianze, dall’impoverimento dei ceti medi, dalla paura verso
i “nuovi arrivati”, dal risentimento verso quell’establishment che ha tradito
molte delle proprie promesse.
Se
possiamo ravvisare nell’America polarizzata del 2020 molti lasciti dell’America
di ieri, forse dobbiamo però anche riconoscere nella ‘tribalizzazione’ contemporanea
qualcosa di più che la semplice riemersione del passato. Molti anni fa,
Marshall McLuhan, con una delle sue formule fulminanti, scrisse che mentre «le
tecnologie specialistiche detribalizzano», ogni tecnologia non specialistica
«ritribalizza». E la polarizzazione di oggi è in effetti anche un prodotto di
quella tecnologia non specialistica che – veicolata soprattutto dagli
smartphone che teniamo in tasca – ha colonizzato le nostre vite. In una società
come quella americana – una società sempre più individualizzata, sempre più
priva delle vecchie riserve di capitale sociale – la radicalizzazione è cioè
anche l’esito di quei flussi comunicativi “personalizzati” che viaggiano sui
social media. Le identità collettive di oggi, a differenza di quelle del
passato, sono in sostanza costruite e rafforzate dentro quelle “bolle”
autoreferenziali in cui ciascuno di noi – come disse Barack Obama nel suo
ultimo discorso da presidente – tende sempre di più a chiudersi, alla ricerca
di sicurezze e di conferme alle proprie convinzioni. Anche questo rende le
contrapposizioni di oggi tanto differenti da quelle che abbiamo conosciuto nel
Novecento. Ed è anche per questo che non sono eccessivi i timori sui rischi che
questa polarizzazione potrebbe comportare per la stabilità delle istituzioni
democratiche americane. Priva degli argini garantiti nel passato dai partiti di
massa, e in un paese tutt’altro che abituato a gestire col compromesso le
spinte conflittuali, la ‘tribalizzazione’ può davvero innescare una spirale di
turbolenze che non è destinata a esaurirsi con l’uscita di scena di Donald
Trump.
In
questi mesi, dinanzi alle risposte fornite dagli Stati all’emergenza sanitaria,
l’ombra del vecchio Leviatano di Hobbes è tornata spesso ad aleggiare sul
futuro delle nostre democrazie. Molti hanno infatti attirato l’attenzione sulla
possibilità che, per rispondere alla pandemia, i cittadini occidentali debbano
cedere una parte delle loro libertà in cambio della tutela della loro salute. Ma
il clima politico che ha preceduto (e che forse seguirà) le elezioni
presidenziali del 2020 sembra piuttosto evocare il mostro biblico con cui
Hobbes volle identificare il lungo conflitto che, nella prima rivoluzione
inglese, oppose Carlo I al Parlamento. Perché, se le forze politiche non si
impegneranno a trovare un nuovo compromesso, la situazione degli Stati Uniti di
domani potrebbe assomigliare davvero a una sorta di Behemoth 2.0.
Damiano Palano
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