di Damiano Palano
Proprio all’alba del Ventesimo secolo, Moisei Y. Ostrogorski pubblicò il suo libro più famoso, La democrazia e i partiti politici. Negli Stati Uniti l’estensione del suffragio aveva già da molti anni trasformato i partiti in organizzazioni di massa. E proprio osservando la politica americana, lo studioso russo si convinse che i partiti fossero diventati una minaccia per la democrazia. Il collante principale di queste imponenti «Macchine» non era l’ideologia, come sarebbe stato per i partiti europei, bensì lo spoils system, ossia la possibilità di ricompensare i sostenitori attribuendo loro dei posti nell’amministrazione pubblica (priva in gran parte di burocrazia professionale). La pervasività delle «Macchine», secondo Ostrogorski, aveva però reso gli eletti sempre più irresponsabili nei confronti degli elettori. E così i partiti si erano tramutati in un ostacolo per un’autentica democrazia.
La documentata denuncia di Ostrogorski fu solo uno dei primi esempi della critica rivolta negli Stati Uniti contro i politici di professione. Proprio per superare il ‘filtro’ costituito dai funzionari di partito iniziò a essere adottato il meccanismo delle elezioni primarie, che in America contribuì a decretare la fine precoce del partito di massa. Ma, molti anni dopo, la critica «antipartitocratica» raggiunse anche il Vecchio continente. L’idea che i politici siano una «casta» privilegiata e parassitaria, come ben sappiamo, è diventata un luogo comune della retorica pubblica, e non solo di quella dei «populisti». E le denunce contro i «costi della politica» si sono quasi ovunque rivolte contro il meccanismo del finanziamento pubblico. Un’opinione decisamente fuori dal coro giunge invece dal corposo e documentato saggio della ricercatrice francese Julia Cagé, Il prezzo della democrazia. Soldi, potere e rappresentanza (Baldini e Castoldi, pp. 591, euro 22.00), che mette in luce come la crescente rilevanza dei finanziamenti privati alla politica vada a minare profondamente il rapporto tra elettori ed eletti.
La dinamica
descritta dall’economista francese è in fondo piuttosto lineare. La crescente
rilevanza delle campagne di comunicazione per aggiudicarsi le cariche pubbliche
alimenta quasi ovunque la lievitazione delle spese elettorali, quantomeno
laddove non sia fissato per legge un tetto massimo. Inevitabilmente ciò favorisce
i candidati con ingenti risorse. Specie nei paesi in cui non esistono (o sono
marginali) i meccanismi di finanziamento pubblico, sono cioè privilegiati i candidati
che vengono foraggiati da munifici (e probabilmente interessati) sostenitori
privati. Ma Cagé dimostra con molti dati come il finanziamento privato sia
cresciuto in tutte le democrazie occidentali, spesso senza efficaci
regolamentazioni e incentivato dalla possibilità di detrarre fiscalmente le somme
versate a organizzazioni politiche. Una simile dinamica non può che riprodurre
a livello politico le diseguaglianze sociali, perché attribuisce alla minoranza
della popolazione che detiene i redditi più elevati una notevole influenza. Ma
tali distorsioni non sono scongiurate neppure in quei sistemi che prevedono un
sostegno finanziario alla politica. Il sistema italiano, che consente a ciascun
contribuente di destinare a un partito il 2 per mille dell’imposta sul reddito,
per Cagé tende a generare una sorta di tax plutocracy, nella misura in
cui assegna un peso maggiore ai cittadini dotati di maggior capacità
contributiva.
La denuncia dello
svuotamento della democrazia è accompagnata anche da una serie di proposte. La
principale consiste nell’introduzione di un meccanismo di ripartizione dei
finanziamenti che assegni alle preferenze espresse dai singoli cittadini un
peso uguale (e non dunque un peso dipendente dalla capacità contributiva di
ciascuno). Un’altra misura è quella della limitazione dei finanziamenti
privati, che dovrebbero essere contenuti sotto un tetto molto più basso
rispetto a quello odierno. Infine, Cagè suggerisce l’introduzione di un sistema
rappresentativo «misto», che garantisca anche una rappresentanza
«socio-professionale» della popolazione. In altre parole, un terzo dei seggi
nell’assemblea legislativa dovrebbe essere riservato a rappresentanti eletti
all’interno di liste che riflettano la composizione della società (per esempio,
garantendo che il 50% degli eletti sia costituito da impiegati e operai).
L’idea di una rappresentanza che tenga conto anche della ripartizione socio-economica della popolazione non è certo nuova, perché risale almeno alla metà dell’Ottocento. Ma il fatto che oggi sia riproposta da Cagé in una nuova variante è anche un riflesso della crescente diseguaglianza sociale, al centro di molte analisi negli ultimi anni (e per esempio dei libri di Thomas Piketty, marito dell’economista francese). L’idea che una rappresentanza «socio-professionale» possa costituire un antidoto allo ‘svuotamento’ della democrazia è però piuttosto ingenua, se non altro perché sottovaluta le pressioni cui questi eletti potrebbero essere sottoposti da parte degli interessi economici. Inoltre, senza mettere in discussione la diffidenza nei confronti dei politici di professione, questa proposta condivide almeno implicitamente l’idea che per svolgere il ‘lavoro della rappresentanza’ non siano necessarie competenze specifiche, una formazione adeguata o un particolare ‘apprendistato’. Al netto di tali ingenuità (e di qualche semplificazione), il libro di Cagé rappresenta però una lettura estremamente utile. Adottare un sistema equo ed efficiente di finanziamento pubblico non è forse l’unico modo per ridare credibilità alla politica. E la crisi dei partiti ha radici ben più profonde. Ciò nonostante, come sostiene la ricercatrice francese, le modalità con cui vengono economicamente sostenuti i partiti sono davvero centrali. E l’esistenza di un finanziamento pubblico, accompagnata a una rigida regolamentazione del finanziamento privato, rimane davvero uno dei nodi cruciali da cui dipende il futuro delle nostre democrazie.
Damiano Palano
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