Sono trascorsi ormai quasi otto mesi dalla sera di
febbraio in cui il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciò per la
prima volta l’adozione di misure straordinarie volte a contenere la diffusione
dell’epidemia da Covid-19. In questi mesi ci siamo ormai abituati a vivere
nello «stato di emergenza», e – talvolta con un po’ di insofferenza – ci siamo anche
adeguati ai dispositivi di protezione e alle norme sul distanziamento sociale. Seguendo
le cifre sull’andamento dei contagi, sul numero dei ricoveri, sulla
concentrazione geografica dei focolai, ci siamo chiesti praticamente ogni
giorno quando il virus comincerà a perdere la sua forza, e quando potremo
finalmente salutare la fine della pandemia. Ma forse dovremmo anche iniziare a
chiederci come l’esperienza globale della pandemia cambierà il mondo, quali
tracce lascerà nel tessuto delle nostre società, e quali conseguenze produrrà
sulle nostre democrazie.
Mentre la «seconda ondata» sta iniziando ad abbattersi
sull’Europa, si possono ovviamente formulare solo ipotesi molto generiche, ma tutt’altro
che rassicuranti, sul futuro che ci attende. I problemi con cui ci troveremo
alle prese non saranno molto diversi da quelli che conosciamo da anni, ma saranno
ulteriormente esacerbati dalle tensioni che ci lascerà in eredità la pandemia. La
depressione economica che si profila all’orizzonte – e che ovviamente dipenderà
anche da ciò che accadrà nei prossimi mesi – segnerà quasi certamente un ulteriore
aggravamento della «crisi fiscale» dello Stato, che in alcuni casi potrebbe
anche offrire spazi consistenti al riemergere della protesta fiscale. In secondo
luogo, la contrazione delle economie occidentali, aggravando le diseguaglianze,
potrebbe contribuire a indebolire ulteriormente la fiducia riposta in leader e
partiti. Inoltre, le conseguenze del Covid-19 potrebbero accelerare il ‘declino
relativo’ dell’Occidente (sotto il profilo economico, politico e culturale), o
la stessa la tendenza allo spostamento verso Est del baricentro dell’economia
globale. Tutti questi fattori, amalgamandosi in un cocktail esplosivo, potrebbero
andare così fornire nuovo carburante al cultural
backlash: una reazione culturale
ai processi di globalizzazione e ai valori del ‘cosmopolitismo’ che scaturisce
soprattutto dalla sensazione di insicurezza e deprivazione sperimentata
da alcuni strati sociali. E, così, quote di elettorato potrebbero spostarsi verso
posizioni più radicali, potrebbero polarizzare ulteriormente lo scontro
politico, o aggravare il «deconsolidamento» delle democrazie mature. I
risultati di una ricerca condotta nelle scorse settimane da Ipsos su un
campione di cittadini italiani sembrerebbero confermare proprio l’ipotesi che
sia già in atto un processo di «deconsolidamento» democratico, ossia uno
‘scollamento’ dei cittadini occidentali dai valori democratici su cui si
reggono i nostri sistemi politici. Ma il dato più significativo non è forse quello
relativo alla percentuale di intervistati che si dichiarano delusi e
insoddisfatti rispetto alla democrazia, bensì il basso livello della fiducia
riposta nelle istituzioni, nella classe politica, nei partiti. Perché proprio
la fiducia nel sistema – e nella sua capacità di rispondere in modo
sufficientemente adeguato alla pandemia – potrebbe uscire colpita in modo duro dalla
crisi che stiamo vivendo.
Le conseguenze che ci d
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