di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Mara Morini, La Russia di Putin Il Mulino, pp. 215, euro 14.00), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 31 luglio 2020.
Dopo vent’anni di permanenza al potere, Vladimir Putin è ormai da tempo il più longevo leader russo dopo Stalin. In carica dall’agosto 1999 come capo del governo e dal 31 dicembre dello stesso anno come presidente ad interim della Federazione Russa, ha d’altronde impresso un’impronta marcata sulle traiettorie imboccate dopo la dissoluzione dell’Urss. E, soprattutto, è stato in grado di normalizzare un sistema che negli anni Novanta si trovò alle prese con le enormi difficoltà della transizione a un’economia di mercato, della liberalizzazione politica e delle spinte secessioniste.
Ma, come mostra Mara Morini nel suo libro La Russia di Putin (Il Mulino, pp. 215, euro 14.00), pur riconquistando la stabilità e un relativo benessere economico, il paese rimane un caso di democratizzazione fallita che sottopone ai politologi una serie di domande. La principale riguarda la stessa configurazione di un regime “ibrido”, che sfugge alle categorie con cui vengono classificati i sistemi politici. Non si tratta infatti di un classico regime autoritario, perché esiste un certo grado di pluralismo partitico, perché si svolgono delle elezioni, perché viene garantito ad alcune forze di opposizione il diritto di formulare pubblicamente delle critiche. Eppure, non si tratta di un regime democratico, perché la competizione politica è fortemente limitata e perché la garanzia delle libertà, dei diritti di espressione e del pluralismo è troppo debole. Morini ritiene dunque che la Russia di oggi non possa essere neppure parzialmente ricompresa nell’alveo dei regimi democratici. E anche espressioni come “democrazia elettorale” o “democrazia illiberale” rischiano di essere fuorvianti.
Più che adottare una nuova formula definitoria, Morini cerca però di fissare i tratti di un assetto del tutto peculiare, ricostruendo le tappe principali dei trent’anni seguiti alla fine della Guerra fredda e ricomponendo il puzzle di un sistema di potere meno monolitico di quanto possa apparire. La Russia di oggi è infatti un’eredità della stagione sovietica ma anche un risultato del caos che seguì alla dissoluzione del potere statale negli anni Novanta e delle decisioni adottate a favore di un presidenzialismo di fatto privo di contrappesi. Si è così passati da un sistema neopatrimoniale, contrassegnato da una pluralità di gruppi in competizione tra loro, a una configurazione «piramidale». Il presidente regge infatti i fili principali di una trama in cui la politica informale prevale nettamente su quella formale e in cui la corruzione gioca un ruolo centrale. Il “partito del potere” rappresenta naturalmente uno degli strumenti con cui il centro politico controlla il vasto territorio russo. Ma anche i partiti dell’opposizione “sistemica” sono per molti versi parte integrante del regime, perché non ne contestano le basi più solide e perché beneficiano di una serie di vantaggi. E proprio un tale insieme di fattori – istituzionali, culturali ed economici – sembrerebbe dunque rendere davvero poco probabile, quantomeno nel futuro più prossimo, l’adozione da parte della Russia di un sistema liberal-democratico.
Damiano Palano
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