di Damiano Palano
Questa nota è apparsa su CattolicaNews.
Il 20 e 21 settembre gli elettori italiani saranno chiamati
a esprimersi sulla legge di riforma costituzionale che riduce il numero dei
parlamentari, portando i deputati a 400 (dagli attuali 630) e quello dei
senatori a 200 (invece dei 315 di oggi). A differenza dei referendum
costituzionali celebrati nell’ultimo ventennio, la questione sottoposta al
giudizio degli elettori è in questo caso molto più semplice. Proprio la sua
“semplicità” rende il quesito facilmente comprensibile a tutti gli elettori (e
sicuramente molto più comprensibile rispetto ai precedenti, sulla ripartizione
delle competenze tra Stato e regioni, o tra Camera e Senato). Ma probabilmente
– proprio in virtù della “semplicità” della modifica – è difficile attendersi
dall’eventuale attuazione della riforma significativi cambiamenti nelle
dinamiche del sistema politico. Anche se, al di là degli ipotetici benefici, la
modifica del numero dei parlamentari avrebbe certamente degli effetti sulla rappresentatività
delle assemblee.
Oggi un deputato della Camera rappresenta, in termini
aritmetici, circa 96 mila abitanti, mentre, se vincessero i “sì”, il rapporto
diventerebbe di un deputato per circa 150 mila abitanti. Al Senato, si
passerebbe invece dai 188 mila abitanti per senatore di oggi a circa 300 mila. Il
rischio che alcuni territori e le forze minoritarie (al di sotto del 10% dei
suffragi) possano perdere peso è dunque tutt’altro che ipotetico (soprattutto
al Senato). Secondo gli avversari, una
simile modifica romperebbe con lo spirito della Costituzione e provocherebbe un
vulnus destinato ad approfondire il solco tra classe politica e il “paese
reale”, invece di colmarlo. Per i fautori del “sì”, la riduzione dei
parlamentari eliminerebbe invece l’anomalia di camere sovraffollate, senza
intaccare la democraticità. I paragoni con le altre democrazie sono però in
parte fuorvianti (perché l’Italia ha un bicameralismo “perfetto”, non del tutto
comparabile con quelli di altri paesi). Ad ogni modo, una Camera con soli 400
deputati diventerebbe davvero una delle camere basse più ‘sguarnite’ della
scena europea, quantomeno in rapporto alla popolazione. I tre grandi paesi
europei che demograficamente si avvicinano all’Italia hanno infatti assemblee
piuttosto nutrite e simili in termini dimensionali all’attuale Camera dei
deputati (in Germania il Bundestag ha più di 700 membri, la Camera dei Comuni
britannica 650, l’Assemblea nazionale francese 577). Contando anche gli eletti
in Senato, i 600 parlamentari italiani collocherebbero comunque l’Italia in un
quadro sostanzialmente in linea con quello della gran parte delle democrazie
occidentali.
Valutare però le conseguenze della riforma sulla
rappresentatività e sulla governabilità è molto più difficile. Oltre che dalle
dimensioni delle assemblee, il rapporto con gli elettori dipende infatti dal
modo in cui i rappresentanti sono eletti, ossia dal sistema elettorale adottato
(e, nel caso di un sistema proporzionale, dall’ampiezza delle circoscrizioni).
La cosiddetta “governabilità” – in termini un po’ grossolani, la stabilità
degli esecutivi – dipende anche dalla strutturazione del sistema partitico e da
come i partiti stessi sono organizzati al loro interno. E, più in generale, la
“rappresentatività” è il risultato di interazioni che chiamano in gioco anche i
livelli di governo locali e subnazionali, oltre che quei “corpi intermedi” di
cui spesso negli ultimi anni si è messa in discussione la funzione.
Ciò non significa che il “taglio” di deputati e senatori sia
una misura irrilevante. Potrebbe forse contribuire a rendere più efficiente il
sistema politico – se fosse accompagnato da una serie di modifiche indispensabili
(una nuova legge elettorale e nuovi regolamenti parlamentari, per cominciare).
Ma potrebbe anche produrre conseguenze negative e aggravare quel deficit di
credibilità delle istituzioni che paradossalmente vorrebbe curare. Gli esiti
dipendono comunque da molti fattori, che la riforma ovviamente non prevede. Il
presupposto per impostare la discussione non è dunque solo ammainare (o
accantonare) la bandiera dell’antipolitica, o evitare di ripetere, ancora una
volta, che i problemi del Paese sono “ben altri”. Ma è anche riconoscere che,
da una riforma “semplice” (e forse “troppo semplice”), sarebbe ingenuo
attendersi un contributo anche parziale per la soluzione di problemi complicati
come quelli che ci attendono.
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