lunedì 28 settembre 2020
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sabato 26 settembre 2020
La politica a un giro di boa che chiude un ciclo. Dopo il referendum e la tornata elettorale del 20 e 21 settembre
di Damiano Palano
Dopo una tornata elettorale e referendaria senza veri vincitori, il sistema politico italiano è alla fine di una fase iniziata nel 2011 e all’inizio, probabilmente, di una nuova stagione di turbolenza
Questo commento è apparso su "Huffington Post" il 25 settembre 2010
Il responso che le urne ci hanno consegnato la sera del 21 settembre si presta a letture molto diverse. Nessuna delle principali forze politiche può dirsi veramente sconfitta. Il Movimento 5 Stelle può rivendicare il successo della propria riforma costituzionale, che corona la tradizionale battaglia contro la “casta”. Il Partito Democratico è riuscito a riconfermarsi con i propri candidati alla guida di regioni cruciali come Campania, Puglia e Toscana. Il fronte di (centro)destra può invece stilare un bilancio almeno in parte positivo per la riconferma di Toti in Liguria e di Zaia in Veneto, ma anche per la vittoria di un proprio candidato nelle Marche. Ciò nonostante, nessuno esce davvero vittorioso da questa anomala tornata elettorale. Anzi, si potrebbe persino sostenere che tutti i principali contendenti escano in varia misura sconfitti. Forse non è così del tutto improprio leggere questo appuntamento elettorale come un “giro di boa”, con cui si conclude un ciclo della politica italiana, iniziato nel 2011. E come il punto di avvio di una nuova stagione, ancora in cerca di un’identità e di protagonisti.
Il Movimento 5 Stelle
Il referendum costituzionale è un “giro di boa” per i pentastellati perché il favore degli elettori verso il taglio dei parlamentari non può nascondere le enormi difficoltà che questa formazione politica sperimenta (certo non da oggi). L’abbandono dei territori, l’incapacità di incidere sulle elezioni locali e regionali, il logoramento dovuto all’esperienza di governo, l’eclatante contrasto tra la retorica delle origini e la realtà di un ceto parlamentare adeguatosi molto presto ai rituali (e ai “privilegi”) del potere, l’abbandono di pressoché tutte le battaglie che avevano segnato la nascita del Movimento sono anzi elementi che rendono il “giro di boa” molto simile a un finale di partita, o quantomeno al suo preludio. Tutte queste criticità non sono d’altronde elementi congiunturali, perché hanno a che vedere con la stessa fisionomia originaria dei 5 Stelle. Un partito post-ideologico non può infatti contare su quelle risorse identitarie cui, anche nei momenti critici, possono affidarsi i partiti ideologici e subculturali. E la retorica anti-politica, anti-casta, anti-establishment è una risorsa davvero troppo friabile, oltre che un’arma di cui nuovi sfidanti possono agevolmente impossessarsi.
Il Pd di Zingaretti
La tornata del 20 e 21 settembre può essere però considerata come un giro di boa anche per Pd e Lega. Per il partito di Zingaretti, il risultato in Toscana e in Puglia non può occultare né l’assenza di una nitida proposta politica sul futuro del Paese né la portata di una conflittualità interna ereditata da una storia che, dal 2007, non è riuscita a creare una vera identità politica. E questi problemi – che nascono da lontano – saranno nei prossimi mesi enfatizzati dalla necessità improrogabile di chiarire la natura del rapporto con il Movimento 5 Stelle e con Giuseppe Conte.
La Lega di Salvini
Per la Lega la sconfitta in Toscana non può essere davvero considerata un fallimento, ma certo questo risultato – dopo quello emiliano di nove mesi fa – contribuisce a dare l’impressione che la leadership di Matteo Salvini abbia ormai esaurito la propria spinta propulsiva. Il successo di Luca Zaia in Veneto può rappresentare una spina nel fianco per il progetto di Salvini, ma non semplicemente perché la sua leadership potrebbe essere messa a rischio da un ingombrante sfidante. Piuttosto, è probabile che il presidente veneto torni a battere su quella frattura centro/periferia (e Nord/Sud) che fu cruciale per la nascita delle leghe regionali trent’anni fa, ma che è pressoché scomparsa dall’orizzonte retorico e politico di Salvini.
Nella fine un nuovo inizio
Tutte le forze politiche sono ben consapevoli del fatto che il referendum del 20 e 21 settembre abbia chiuso una stagione. E anche per questo nei prossimi mesi la discussione interna ai vari soggetti si farà piuttosto accesa, con inevitabili ricadute sulle ipotesi di riforma elettorale (tutt’altro che secondaria per gli esiti delle contrattazioni su alleanze, coalizioni, scissioni e nuove formazioni). Ma la sensazione è che le soluzioni “ingegneristiche” – grazie alle quali costruire ipotetiche maggioranze sommando “pezzi” di elettorato e frammenti di ceto politico – siano destinate ad avere ben poca fortuna (come d’altronde è avvenuto nel passato). Non è infatti da escludere che il “giro di boa” possa coincidere con anche con l’inizio di una nuova fase di fluidità politica.
Chi riempirà il vuoto?
Per molti versi, si può cioè ipotizzare che oggi si concluda davvero la parabola iniziata nel 2011, con la caduta del governo Berlusconi e la crisi del debito sovrano. Allora, milioni di elettori, abbandonando i partiti cui si erano (sempre più debolmente) legati nella “Seconda Repubblica”, iniziarono a dirigersi verso nuove proposte politiche, che sono diventate le protagoniste dell’“ondata populista”. La parabola del Movimento 5 Stelle sembra così quasi il paradigma della sorte dei “micropoteri” contemporanei: poteri in grado di logorare la reputazione dei “grandi” attori, eppure incapaci di difendere la posizione conquistata, di consolidare il consenso, di erigere barriere contro nuovi sfidanti. La parabola pentastellata ha già imboccato da tempo la fase discendente, anche se non sappiamo quanto durerà e come si concluderà. Ciò nondimeno, è davvero probabile che nello spazio politico italiano si stia nuovamente ricreando un “vuoto” analogo a quello del 2011. Se allora fu la crisi economica a innescarlo, oggi è naturalmente la pandemia – con i suoi ritmi e le sue dinamiche – ad accelerare e a indirizzare il processo. Chi riempirà il “vuoto”, e con quali proposte, è una domanda a cui solo i prossimi mesi potranno rispondere. E naturalmente sarà importante capire se conquisteranno un peso quelle forze “centriste” che fino a questo momento non hanno inciso in modo rilevante, anche per la loro frammentazione.
Una nuova stagione di turbolenza
Se una fase dell’ondata populista si è forse conclusa, è comunque probabile che i nuovi potenziali protagonisti non rinuncino all’armamentario retorico “populista”. Anche perché – benché spesso siamo resistenti a riconoscerlo – la concezione “populista” della democrazia è entrata ormai nel nostro Dna di cittadini postmoderni, critici, disincantanti. La vera domanda è piuttosto quali saranno le linee di contrapposizione su cui punteranno coloro che cercheranno di occupare il “vuoto”, agitando il cocktail di delusione, risentimento e paura. È prematuro fare previsioni. Ma l’esperienza globale del Covid-19 potrebbe essere uno spartiacque anche da questo punto di vista. Il populismo degli anni Venti potrebbe davvero mostrarsi come sensibilmente diverso da quello che abbiamo conosciuto negli ultimi dieci anni. E il “giro di boa” potrebbe allora dare inizio a una nuova stagione di turbolenza per la politica italiana.
giovedì 10 settembre 2020
Una riforma (troppo) “semplice” per problemi complicati? Verso il referendum del 20 settembre
di Damiano Palano
Questa nota è apparsa su CattolicaNews.
Il 20 e 21 settembre gli elettori italiani saranno chiamati
a esprimersi sulla legge di riforma costituzionale che riduce il numero dei
parlamentari, portando i deputati a 400 (dagli attuali 630) e quello dei
senatori a 200 (invece dei 315 di oggi). A differenza dei referendum
costituzionali celebrati nell’ultimo ventennio, la questione sottoposta al
giudizio degli elettori è in questo caso molto più semplice. Proprio la sua
“semplicità” rende il quesito facilmente comprensibile a tutti gli elettori (e
sicuramente molto più comprensibile rispetto ai precedenti, sulla ripartizione
delle competenze tra Stato e regioni, o tra Camera e Senato). Ma probabilmente
– proprio in virtù della “semplicità” della modifica – è difficile attendersi
dall’eventuale attuazione della riforma significativi cambiamenti nelle
dinamiche del sistema politico. Anche se, al di là degli ipotetici benefici, la
modifica del numero dei parlamentari avrebbe certamente degli effetti sulla rappresentatività
delle assemblee.
Oggi un deputato della Camera rappresenta, in termini
aritmetici, circa 96 mila abitanti, mentre, se vincessero i “sì”, il rapporto
diventerebbe di un deputato per circa 150 mila abitanti. Al Senato, si
passerebbe invece dai 188 mila abitanti per senatore di oggi a circa 300 mila. Il
rischio che alcuni territori e le forze minoritarie (al di sotto del 10% dei
suffragi) possano perdere peso è dunque tutt’altro che ipotetico (soprattutto
al Senato). Secondo gli avversari, una
simile modifica romperebbe con lo spirito della Costituzione e provocherebbe un
vulnus destinato ad approfondire il solco tra classe politica e il “paese
reale”, invece di colmarlo. Per i fautori del “sì”, la riduzione dei
parlamentari eliminerebbe invece l’anomalia di camere sovraffollate, senza
intaccare la democraticità. I paragoni con le altre democrazie sono però in
parte fuorvianti (perché l’Italia ha un bicameralismo “perfetto”, non del tutto
comparabile con quelli di altri paesi). Ad ogni modo, una Camera con soli 400
deputati diventerebbe davvero una delle camere basse più ‘sguarnite’ della
scena europea, quantomeno in rapporto alla popolazione. I tre grandi paesi
europei che demograficamente si avvicinano all’Italia hanno infatti assemblee
piuttosto nutrite e simili in termini dimensionali all’attuale Camera dei
deputati (in Germania il Bundestag ha più di 700 membri, la Camera dei Comuni
britannica 650, l’Assemblea nazionale francese 577). Contando anche gli eletti
in Senato, i 600 parlamentari italiani collocherebbero comunque l’Italia in un
quadro sostanzialmente in linea con quello della gran parte delle democrazie
occidentali.
Valutare però le conseguenze della riforma sulla
rappresentatività e sulla governabilità è molto più difficile. Oltre che dalle
dimensioni delle assemblee, il rapporto con gli elettori dipende infatti dal
modo in cui i rappresentanti sono eletti, ossia dal sistema elettorale adottato
(e, nel caso di un sistema proporzionale, dall’ampiezza delle circoscrizioni).
La cosiddetta “governabilità” – in termini un po’ grossolani, la stabilità
degli esecutivi – dipende anche dalla strutturazione del sistema partitico e da
come i partiti stessi sono organizzati al loro interno. E, più in generale, la
“rappresentatività” è il risultato di interazioni che chiamano in gioco anche i
livelli di governo locali e subnazionali, oltre che quei “corpi intermedi” di
cui spesso negli ultimi anni si è messa in discussione la funzione.
Ciò non significa che il “taglio” di deputati e senatori sia
una misura irrilevante. Potrebbe forse contribuire a rendere più efficiente il
sistema politico – se fosse accompagnato da una serie di modifiche indispensabili
(una nuova legge elettorale e nuovi regolamenti parlamentari, per cominciare).
Ma potrebbe anche produrre conseguenze negative e aggravare quel deficit di
credibilità delle istituzioni che paradossalmente vorrebbe curare. Gli esiti
dipendono comunque da molti fattori, che la riforma ovviamente non prevede. Il
presupposto per impostare la discussione non è dunque solo ammainare (o
accantonare) la bandiera dell’antipolitica, o evitare di ripetere, ancora una
volta, che i problemi del Paese sono “ben altri”. Ma è anche riconoscere che,
da una riforma “semplice” (e forse “troppo semplice”), sarebbe ingenuo
attendersi un contributo anche parziale per la soluzione di problemi complicati
come quelli che ci attendono.