di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Sonia Lucarelli, Cala il sipario
sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo, recentemente pubblicato da Vita e
Pensiero (pp. 284, euro 25.00), nella collana dell'Alta Scuola di Ecnomia e Relazioni Internazionali - Aseri, diretta da Vittorio Emanuele Parsi, è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 19 giugno 2020.
«Ciò che cerchiamo è
il regno della legge, basato sul consenso dei governati e sostenuto
dall’opinione organizzata dell’umanità», affermò Woodrow Wilson nel luglio
1918, illustrando i principi che dovevano guidare la ricostruzione dell’ordine
postbellico. Quando aveva spinto gli Stati Uniti a entrare nella Prima guerra
mondiale, il presidente americano aveva infatti chiarito che il suo obiettivo era
una «pace senza vittoria». Si doveva cioè puntare a costruire istituzioni
sovranazionali capaci di impedire nuovi conflitti, e i perni del nuovo ordine
dovevano essere l’apertura degli scambi e l’auto-determinazione nazionale,
mentre un’organizzazione sovranazionale avrebbe sanzionato il ricorso alla
violenza da parte degli Stati. Per molti motivi convergenti la Società delle
Nazioni, nata proprio dalla visione di Wilson (ma rimasta ben presto priva del
sostegno americano), si rivelò largamente inefficace. E il fragile ordine
liberale finì così per essere travolto dalla chiusura economica e dalla
formazione di blocchi antagonisti. Ma quando vent’anni dopo tornarono in
guerra, questa volta per opporsi alle potenze dell’Asse, gli Stati Uniti ripresero
il vecchio progetto, seppur rivisto grazie a un’iniezione di realismo. Anche il
nuovo ordine internazionale liberale delineato a Bretton Woods avrebbe infatti puntato
a promuovere un’economia aperta. A differenza di quello profilato da Wilson, si
sarebbe però poggiato sul ruolo di guida di Washington e avrebbe coinvolto
soprattutto i paesi occidentali.
Dopo
la fine della Guerra fredda, l’ordine internazionale liberale si è esteso all’intero
pianeta, trasformando gli Stati Uniti in un egemone globale all’apparenza privo
di rivali. Anche per questo, durante il lungo «momento unipolare», l’egemonia
di Washinton è apparsa a molti osservatori come una sorta di impero dai
connotati inediti. A partire dalla crisi economica del 2008 il dibattito
politologico ha iniziato invece a riconoscere i segnali di una rapida erosione
del vecchio ordine, anche se la discussione sulle origini della crisi è andata
in direzioni piuttosto differenti, come d’altronde le previsioni sulle tendenze
future. E, come è facile immaginare, le ripercussioni politiche della pandemia
sono destinate a rendere il dibattito sul futuro delle istituzioni
internazionali ben più che un’esercitazione accademica. Un’ottima introduzione
a questa discussione è proposta dal libro di Sonia Lucarelli Cala il sipario
sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo (Vita e
Pensiero, pp. 284, euro 25.00), dedicato a una ricostruzione articolata delle
molteplici linee di tensione che vengono oggi a sfidare l’assetto nato dopo la
fine della Seconda guerra mondiale. A innescare una spinta alla trasformazione è
naturalmente anche la fine del «momento unipolare», ossia l’ascesa sulla scena
di nuove potenze. E in questo senso è il ruolo della Cina a rappresentare la
principale incognita, anche perché il gigante asiatico è stato in grado di
sfruttare le opportunità offerte da un sistema di scambi aperti, senza però
avviare al proprio interno alcun processo di liberalizzazione politica. Ma la
politologa pone l’attenzione soprattutto su alcune sfide che nascono dall’interno
delle democrazie occidentali. La prima è rappresentata innanzitutto
dall’impatto sociale della globalizzazione, che ha aumentato le diseguaglianze
ed eroso il ruolo dei corpi intermedi, creando il cocktail alla base della
fortuna dei populismi. In secondo luogo, sono le ricadute della stessa
rivoluzione digitale – sulle soggettività dei cittadini, sugli strumenti di
controllo e manipolazione, sulla frammentazione dello spazio pubblico – a
spiazzare le consolidate modalità della governance globale. Infine, le
aspirazioni universalistiche dell’ordine liberale vengono a collidere con un
ritorno dei particolarismi che scaturisce tanto dalla diversità culturale
interna alle democrazie liberali, quanto dal peso crescente di Stati non
occidentali. L’ordine liberale, per l’effetto combinato di tali pressioni, non
solo si trova dunque a mostrare sempre più spesso la propria inadeguatezza ad
affrontare e gestire le sfide globali. Ma è anche contemporaneamente
delegittimato, tanto da quei leader populisti che – a partire da Donald Trump –
contestano la prospettiva ‘globalista’ in nome delle appartenenze nazionali,
quanto da una società civile transnazionale disillusa e impaurita. E da tutte
quelle forze che, nella chiusura dei confini non solo ai flussi economici,
vedono un antidoto agli effetti deteriori della globalizzazione.
Non
è certo sorprendente che, sotto la pressione degli eventi, sia riemersa in
questi mesi la grande domanda sulla possibilità di giungere a un «governo
mondiale», su cui si interrogarono grandi intellettuali come Jacques Maritain e
Hans Kelsen. Per le sue dimensioni, per la sua velocità di diffusione e per la
consapevolezza del problema, la pandemia ci ha infatti posto dinanzi a una
crisi che coinvolge l’intera umanità. E ha mostrato ancora più chiaramente la
fragilità delle istituzioni sovranazionali esistenti. Benché l’ordine liberale
non sia affatto esente da limiti, secondo la politologa non esistono
alternative migliori. Per i suoi principi e la sua flessibilità rimane infatti
l’unico assetto che possa consentire di far convivere uguaglianza, sicurezza e
libertà, oltre che democrazia e mercato. Pur dinanzi a una serie di nuove
sfide, la vecchia visione wilsoniana di un «regno della legge, basato sul
consenso dei governati e sostenuto dall’opinione organizzata dell’umanità» non
perderebbe il proprio valore. E il momento per far calare il sipario non
sarebbe dunque ancora arrivato. Anche se, come scrive Lucarelli, «trama, ruoli,
musiche e attori vanno ripensati a fondo perché lo spettacolo possa
continuare».
Damiano Palano
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