di Damiano Palano
«Il
primo avversario della democrazia», ha scritto Tzvetan Todorov, «è la
semplificazione, che riduce il plurale all’unico, aprendo così la via alla
dismisura». E non è certo casuale che Filippo Pizzolato richiami le parole
dell’intellettuale bulgaro aprendo il suo volume I sentieri costituzionali
della democrazia (Carocci, pp. 113, euro 12.00), che suggerisce di tornare
alla Carta del 1948 per superare il malessere odierno delle istituzioni.
Agli
occhi dello studioso, per affrontare la «crisi» che oggi vive la democrazia, le
soluzioni più frequentemente indicate sono destinate a rivelarsi inefficaci.
Quando
ci si concentra solo sui meccanismi istituzionali, si finisce infatti col
confinare la dinamica democratica all’interno della sfera strettamente
istituzionale, dimenticando tutto ciò che sta fuori, e in particolare le forme
di partecipazione più continuativa in cui si articola la vita politica di una
società. Percorrendo questo binario, non si può che giungere all’immagine di
una «democrazia d’investitura», a una democrazia cioè circoscritta al momento
in cui gli elettori scelgono i loro governanti, se non addirittura a una
democrazia ‘presidenzializzata’ sempre più prossima al plebiscitarismo.
Pizzolato guarda invece a un modo ben differente di concepire la democrazia,
delineato nella stagione costituente dalle riflessioni di Giuseppe Dossetti,
Giorgio La Pira e Aldo Moro: una concezione che ritrova il fondamento nella
pluralità di formazioni sociali in cui si esprime la personalità dei singoli.
Ridurre la democrazia al semplice principio maggioritario è dunque un’operazione
semplicistica, non solo perché la maggioranza potrebbe violare i diritti delle
minoranze, ma anche perché la democrazia intrattiene un rapporto fondativo con
i diritti (politici, civili, sociali). E senza il rispetto di tali diritti
nessuna decisione può essere davvero democratica. Ma il contributo più prezioso
della Costituzione italiana consiste secondo Pizzolato nel modo in cui
l’esercizio dei diritti individuali viene concepito, e più in particolare nelle
modalità con cui si realizza il principio – sancito nell’articolo 1 – secondo
cui la sovranità appartiene al «popolo».
Benché non si trovi nella Carta una
definizione del popolo, la sua fisionomia è infatti pluralistica, perché si
tratta di «una realtà strutturata e organizzata, intessuta con un filo di
relazioni sociali e di legami istituzionali». Nessuna forza politica, e
ovviamente nessun leader, può dunque pretendere di indentificarsi interamente
con il popolo. Mentre la partecipazione – in tutte le sue diverse forme –
rimane centrale, proprio nella misura in cui dà concreta manifestazione alla
struttura plurale del popolo. Sulla scorta di una simile visione, Pizzolato
invita anche a diffidare dell’eccessivo pessimismo di molte indagini che
lamentano una crisi della partecipazione. Ma se davvero la partecipazione non
cessa di arricchire la vita delle nostre società, anche le modalità
intermittenti in cui si realizza rischiano comunque di rimanere spesso
inafferrabili. Rendendo fragili le basi su cui si reggono le istituzioni
democratiche.
Damiano Palano
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