Questa breve rassegna è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 21 luglio 2020.
Quando nel 2017 Mark
Zuckerberg diffuse un documento in cui dichiarava che l’obiettivo di Facebook era
«creare una comunità globale che vada bene per tutti», molti vi videro un
manifesto che preannunciava la discesa in politica del giovane imprenditore.
Senza dubbio si trattava però anche del tentativo di neutralizzare la tesi
secondo cui la piattaforma aveva avuto qualche ruolo nel referendum sulla
Brexit e nelle elezioni presidenziali americane del 2016. In effetti, dopo lo shock
di quei due appuntamenti l’ottimismo con cui si era guardato alla rivoluzione
digitale è stato ridimensionato. E una fitta letteratura ha messo sul banco degli
imputati proprio i social network.
Anche il memoriale di Britanny
Kaiser, La dittatura dei dati (Harper Collins, pp. 429, euro 20.00)
contribuisce a rafforzare questa immagine piuttosto fosca, perché la giovane
consulente politica racconta l’esperienza in Cambridge Analytica, nel periodo
cruciale in cui la società fu coinvolta nelle campagne per l’uscita del Regno
Unito dall’Ue e per l’elezione di Trump alla Casa Bianca. E in questo senso
fornisce una chiara esemplificazione di come i big data possano
essere utilizzati per manipolare i cittadini, facendo leva sulle loro paure e
sulla percezione di insicurezza.
In
questo dibattito, inevitabilmente destinato a infittirsi nel prossimo futuro,
si inserisce anche la riflessione di Mauro Barberis, che fin dal titolo del suo
libro più recente – Come internet sta uccidendo la democrazia (Chiarelettere,
pp. 215, euro 16.00) – propone una tesi radicale. Secondo lo studioso il
mutamento intervenuto con l’ingresso degli smartphone non avrebbe modificato
solo il nostro rapporto con la tecnologia, ma avrebbe provocato una
trasformazione radicale anche nell’ambiente in cui le istituzioni si trovano a
operare. La più evidente conseguenza della rivoluzione digitale sarebbe
innanzitutto il populismo, o, meglio, il «neopopulismo digitale». La diffusione
degli smartphone e la contemporanea esplosione della comunicazione sui social innescano
infatti lo spostamento verso una diversa logica comunicativa, in cui prevalgono
il tribalismo, i pregiudizi di conferma, le tendenze a sopravvalutare le
proprie conoscenze e altri effetti distorsivi. Il nuovo ambiente comunicativo
offrirebbe così una straordinaria occasione a forze antidemocratiche, che – pur
senza disporre delle enormi risorse finanziarie che in passato sarebbero state necessarie
– possono puntare a conquistare il potere semplicemente concentrandosi su
campagne online capaci di veicolare insoddisfazione, risentimento, protesta. La
soluzione – sottolinea Barberis – non può essere comunque quella di
‘disconnettersi’ dalla rete. Ma consiste piuttosto nell’elaborare regole in
grado di vincolare i nuovi poteri. Per esempio, ponendo limiti più stringenti
alle grandi piattaforme ed equilibrando regolamentazione e libertà. O anche impedendo
il ricorso ai social da parte di chi ricopre cariche istituzionali, con
l’obiettivo di ostacolare un circolo vizioso difficilmente gestibile.
Un
quadro così cupo contrasta naturalmente con l’immagine che a lungo abbiamo
coltivato della rivoluzione digitale. Ma è evidente che gli smartphone, i
social network e la connessione pressoché costante alla rete hanno davvero
cambiato l’ambiente in cui ci troviamo a vivere e persino il nostro modo di
interagire con i nostri simili. Per molti versi – lo abbiamo imparato ancora di
più nel lungo isolamento imposto dal Covid – non possiamo più neppure
immaginare un mondo differente. Ed è proprio per questo che dovremmo davvero
iniziare a pensare a nuova divisione dei poteri, capace di controllare – se non
di neutralizzare – quelle forze che negli ultimi anni sono cresciute sotto i
nostri occhi, spesso senza che ne fossimo del tutto consapevoli.
Damiano Palano
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