di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Giovanni Borgnognone, House of Trump. Una presidenza privata (Bocconi Editore, pp. 150, euro 17.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 28 maggio 2020.
Il
16 giugno 2016, aprendo a New York la sua campagna elettorale per la Casa
Bianca, Donald Trump annunciò che il «sogno americano» era morto e che la sua
discesa in campo puntava a far tornare l’America grande come un tempo. La
conferenza stampa sembrò allora solo l’ennesima trovata di un tycoon famoso
per le manie di grandezza e per la partecipazione a un reality show in
cui maltrattava i concorrenti, alla ricerca di un posto nelle sue imprese. Quasi
tutti gli esperti esclusero che il miliardario newyorkese avesse qualche
credibile possibilità di vincere persino le primarie repubblicane. Ma quel
giorno iniziò per molti versi una nuova stagione della politica americana, di
cui sarebbe azzardato spingersi a prevedere la durata. Dal 9 novembre 2016 è
cominciata una fitta discussione per comprendere le motivazioni di un successo
tanto inaspettato. E anche il volume di Giovanni Borgognone, House of Trump.
Una presidenza privata (Bocconi Editore, pp. 150, euro 17.00), cerca di
proporre un’interpretazione dei motivi che hanno condotto alla Casa Bianca un
personaggio tanto controverso.
Più che stilare un bilancio dell’amministrazione
Trump, Borgognone si chiede soprattutto quale sia il rapporto del tycoon
con la tradizione politica americana e con le sue lacerazioni più profonde. E
in questo senso la categoria di «populismo» risulta sfocata, perché in realtà
le varianti del populismo sono molte e fra loro molto eterogenee. Certo si
possono riconoscere numerose analogie fra Trump ed Andrew Jackson, che
conquistò la presidenza nel 1828 presentando se stesso come un «uomo della
strada» in rotta di collisione con la classe politica tradizionale. Ma l’«appello al popolo» contro l’establishment
è risuonato nella storia degli Stati Uniti troppo frequentemente perché possa
essere considerato come un tratto davvero distintivo del «trumpismo». E allo
stesso modo risultano semplicistiche altre linee interpretative, centrate sui
tratti psicologici del miliardario, sul suo conservatorismo, o addirittura sulla
sua prossimità al fascismo. In realtà il vero fattore su cui puntare
l’attenzione è secondo Borgognone il «risentimento razziale» che Trump è stato
in grado di cavalcare, dando visibilità politica a correnti sotterranee. Il
risentimento odierno è in ogni caso differente dal vecchio razzismo, basato
sulla convinzione della superiorità dei bianchi. L’ambizione è piuttosto quella
di costruire nazioni etnicamente separate. Lo slogan «Make America Great Again»
era così soprattutto la promessa di riconsegnare al ceto medio bianco quel
benessere perduto nel corso dei decenni e dopo la crisi del 2008. Il risentimento
odierno non sembrerebbe comunque avere alla base una solida adesione al
«nazionalismo bianco». I suoi tratti appaiono piuttosto il ripiegamento
costante verso il privato, l’assenza di una vera progettualità, una marcata
componente emotiva. E, incapace di dare coerenza a tutti questi elementi, la
«presidenza privata» di Trump, con il suo frenetico iperattivismo, sembrerebbe
piuttosto riflettere la grande mutazione narcisistica, che ha contribuito a
erodere molte delle basi su cui si reggeva la tradizione civica americana.
Damiano Palano
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