Questa recensione al libro di Alessandro Mulieri, Democrazia totalitaria. Una storia controversa del governo popolare (Donzelli, 19.00, euro pp. 215) è apparsa su quotidiano "Avvenire".
Nella lunga stagione della Guerra fredda la nostra immagine della
democrazia si è saldata con la tradizione liberale e, soprattutto dopo il
fatidico 1989, è andata a coincidere in tutto e per tutto con la sagoma della «liberaldemocrazia».
Le vicende del «secolo breve» ci hanno cioè indotto non solo a considerare la
‘tradizione democratica’ come sostanzialmente omogenea rispetto ai principi e alle
istituzioni del liberalismo, ma anche a sottovalutare le tensioni ‘illiberali’,
anti-pluraliste, persino ‘totalitarie’ coltivate a lungo dalle varie correnti
dottrinarie che aspiravano a consegnare al popolo lo scettro del potere. Anche
per questo abbiamo finito col dimenticare che molti pensatori liberali avevano invece
guardato con sospetto alle rivendicazioni democratiche. E che alcuni avevano intravisto
le radici più profonde dei totalitarismi proprio nel pensiero democratico. Un
utile strumento per ripercorrere le tappe di questa discussione è rappresentato
dal volume di Alessandro Mulieri, Democrazia
totalitaria. Una storia controversa del governo popolare (Donzelli, 19.00,
euro pp. 215), che torna a rileggere le riflessioni sviluppate negli anni
Quaranta e Cinquanta da pensatori come Karl Popper, Friedrich von Hayek, Isaiah
Berlin e Hannah Arendt. Oltre a esaminare le sequenze della «rivolta liberale
contro la democrazia», Mulieri si sofferma però soprattutto sul ruolo di Jacob
L. Talmon, che – in un libro importante nel 1952 – introdusse la categoria di
«democrazia totalitaria». Fu infatti proprio lo storico di origine polacca a sostenere
con maggior convinzione la tesi secondo cui, per comprendere i regimi
totalitari novecenteschi, era necessario ricercarne le origini ben più
indietro, ossia nella tradizione illuminista e tardo-illuminista. Per Talmon,
fu in particolare Jean-Jacques Rousseau a elaborare i contorni di un modello di
«democrazia totalitaria», alle cui basi stavano una concezione monolitica del
popolo, una ripresa della visione classica della democrazia diretta e soprattutto
una sorta di messianismo politico il cui scopo era la salvezza dei membri della
comunità.
Dietro la facciata del ‘potere del popolo’, secondo Talmon era però
destinata a riemergere puntualmente l’azione di un manipolo di ‘rivoluzionari
di professione’, che legittimavano il loro ruolo qualificando se stessi come
autentici interpreti della «volontà del popolo». D’altronde la convinzione
dello storico era che esistesse una stretta parentela tra la stagione del
Terrore giacobino e quella delle purghe staliniane. La matrice comune andava
cioè individuata nel riferimento di questi regimi a una concezione monistica
della politica e all’aspirazione a realizzare la felicità in terra mediante una
rivoluzionaria trasformazione della società, per cui ogni strumento era valido.
E nonostante la sua interpretazione fosse senz’altro segnata dal clima della
Guerra fredda, le pagine di Talmon – come Mulieri mostra in modo efficace – non
cessano di riproporre importanti sollecitazioni, soprattutto in una stagione in
cui l’ascesa globale del populismo rimette in discussione il rapporto tra
democrazia e liberalismo.
Damiano Palano
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