mercoledì 19 agosto 2020

Fiducia e competenza: alla ricerca di un’élite responsabile. "Popolo ed élite", un libro pubblicato da Marsilio



di Damiano Palano

Questa recensione del volume Popolo ed élite. Come ricostruire la fiducia nelle competenze (Marsilio, pp. 252, euro 22.) è apparsa sul quotidiano "Avvenire"

Quando Vilfredo Pareto propose di utilizzare la parola élite, era ben consapevole della marcata connotazione valutativa del termine. Per lui la «classe eletta» era d’altronde composta dai più capaci, ossia da coloro che nei diversi rami di attività dimostravano doti superiori a quelle comuni. Ovviamente una simile visione non poteva che risultare in contrasto con i principi di fondo della dottrina democratica. E in effetti l’elitista Pareto considerava l’idea della sovranità del popolo solo come una finzione ideologica, dietro la quale si nascondeva sempre il potere di una minoranza. Anche i regimi rappresentativi, che consegnavano formalmente il potere nelle mani del popolo, non smentivano così la regola generale. Perché, come scriveva, «si ha dappertutto una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, parte colla forza e parte col consenso della classe governata, che è molto più numerosa».

Nel corso della seconda metà del Novecento, l’ipotesi di Pareto, formulata con un certo compiaciuto cinismo, non è stata davvero abbandonata, se non altro perché anche nei regimi democratici hanno continuato a esercitare un ruolo importante, e difficilmente negabile, minoranze potenti e compatte. Piuttosto, la critica elitista è stata riformulata in modo tale da renderla compatibile con una dottrina democratica a sua volta rivisitata e meno ambiziosa. E così, sulla scia di Joseph A. Schumpeter, si è iniziato a ritenere che il tratto distintivo della democrazia non sia l’assenza – o magari l’eliminazione – delle élite, bensì il ricorso alle elezioni come strumento per assegnare il potere a gruppi tra loro in competizione per il voto popolare. In questo quadro, il fatto che esistano delle minoranze non è dunque inteso come un ostacolo alla dinamica democratica, ma semmai come uno dei presupposti che rende effettivo quel pluralismo – quella «poliarchia» – che costituisce la base di un regime realmente democratico. A dispetto dell’efficacia teorica dell’«elitismo democratico» costruito da pensatori come Schumpeter, Dahl e Bobbio, la divaricazione tra élite e democrazia non può che riemergere periodicamente, tornando a contrapporre il popolo a quella minoranza che gli avrebbe sottratto lo scettro del potere. E l’ondata populista a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non è che la più recente riproposizione di una tensione per molti versi strutturale.

Proprio a questa lacerazione è dedicata anche l’indagine condotta dagli Amici di Marco Biagi nel volume Popolo ed élite. Come ricostruire la fiducia nelle competenze (Marsilio, pp. 252, euro 22.), nel quale sono ospitate le riflessioni di studiosi e intellettuali come Luca Antonini, Giuseppe Bertagna, Simone Bressan, Paolo Garonna e Maurizio Sacconi. La ‘rivolta contro le élite’ viene considerata nelle sue molteplici dimensioni, perché l’insofferenza verso l’«establishment» si è indirizzata in realtà contro un insieme eterogeneo di bersagli e ha coinvolto per esempio la «casta» dei professionisti della politica, il mondo economico e gli «esperti», o quantomeno coloro che sono percepiti come depositari di un sapere ‘tecnico’. Come esplicita il sottotitolo del volume, l’obiettivo è d’altronde quello di ricucire il rapporto tra i cittadini e una classe politica che faccia della competenza uno dei propri motivi di legittimazione. Ma al fondo della riflessione sta probabilmente anche il tentativo di rovesciare, o quantomeno di mettere in discussione, le letture che imputano la lacerazione tra élite e popolo soltanto a una sorta di rivolta ‘contro la conoscenza’, e che rinunciano a considerare le responsabilità e le mancanze – più o meno gravi – delle classi dirigenti. E in questo senso si muove per esempio il contributo introduttivo di Eugenia Roccella, che torna a rievocare le vecchie pagine di Cristopher Lasch, per molti versi anticipatrici dell’ascesa dei sentimenti anti-establishment. Per Roccella alla base della contemporanea lacerazione sta infatti il progressivo allontanamento della cultura delle élite cosmopolitiche dal «senso comune» dei ceti popolari. Negli ultimi decenni sono cioè venute consolidandosi le «concettualizzazioni e le teorizzazioni elaborate nei luoghi della produzione alta, diffuse attraverso quello che è stato chiamato il ceto medio riflessivo, e poi banalizzate fino a diventare appunto luogo comune di largo consumo». E una simile visione si è progressivamente distanziata da quella che si può ancora chiamare «tradizione», ossia «un patrimonio tramandato di generazione in generazione, trasmesso attraverso l’inculturazione, insieme alla lingua, alle usanze, alle abitudini culinarie, a tutto quel complesso di tratti culturali caratterizzanti che compongono alla fine l’identità nazionale». Il cosmopolitismo delle élite ha inoltre mostrato ciò che Robert Reich definì con largo anticipo il suo «lato oscuro», ossia l’assenza di un sentimento di responsabilità nei confronti di una comunità alla quale non si sente più di appartenere. Ma dalla lacerazione del rapporto con la tradizione scaturirebbero anche, come fenomeni degenerativi, tanto le tentazioni nazionaliste quanto l’arroganza narcisistica di coloro che negano il valore della conoscenza, delle competenze, della tecnica.

È quasi inevitabile che in Italia ogni riflessione sulle origini e sul significato della protesta contro l’establishment debba tornare sempre ai nodi irrisolti della storia nazionale. «Ogni discorso sulle élite», ha scritto d’altronde Lorenzo Ornaghi, rischia nel nostro Paese di rimanere sempre «il racconto, se non di una ‘assenza’, di una possibilità che, sempre auspicata o sognata, è rimasta inafferrabile o incompiuta». Ma le nubi che si addensano all’orizzonte rendono oggi quell’«assenza» molto più preoccupante. E «ricostruire la fiducia nelle competenze» diventa così un impegno cruciale anche per difendere la vitalità delle nostre istituzioni democratiche.



  

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