di Damiano Palano
Questa recensione del volume Popolo ed élite. Come ricostruire la fiducia nelle competenze (Marsilio, pp. 252, euro 22.) è apparsa sul quotidiano "Avvenire"
Quando Vilfredo
Pareto propose di utilizzare la parola élite, era ben consapevole della
marcata connotazione valutativa del termine. Per lui la «classe eletta» era d’altronde
composta dai più capaci, ossia da coloro che nei diversi rami di attività
dimostravano doti superiori a quelle comuni. Ovviamente una simile visione non
poteva che risultare in contrasto con i principi di fondo della dottrina
democratica. E in effetti l’elitista Pareto considerava l’idea della sovranità
del popolo solo come una finzione ideologica, dietro la quale si nascondeva
sempre il potere di una minoranza. Anche i regimi rappresentativi, che consegnavano
formalmente il potere nelle mani del popolo, non smentivano così la regola
generale. Perché, come scriveva, «si ha dappertutto una classe governante poco
numerosa, che si mantiene al potere, parte colla forza e parte col consenso
della classe governata, che è molto più numerosa».
Nel
corso della seconda metà del Novecento, l’ipotesi di Pareto, formulata con un
certo compiaciuto cinismo, non è stata davvero abbandonata, se non altro perché
anche nei regimi democratici hanno continuato a esercitare un ruolo importante,
e difficilmente negabile, minoranze potenti e compatte. Piuttosto, la critica
elitista è stata riformulata in modo tale da renderla compatibile con una
dottrina democratica a sua volta rivisitata e meno ambiziosa. E così, sulla
scia di Joseph A. Schumpeter, si è iniziato a ritenere che il tratto distintivo
della democrazia non sia l’assenza – o magari l’eliminazione – delle élite,
bensì il ricorso alle elezioni come strumento per assegnare il potere a gruppi
tra loro in competizione per il voto popolare. In questo quadro, il fatto che
esistano delle minoranze non è dunque inteso come un ostacolo alla dinamica
democratica, ma semmai come uno dei presupposti che rende effettivo quel
pluralismo – quella «poliarchia» – che costituisce la base di un regime
realmente democratico. A dispetto dell’efficacia teorica dell’«elitismo
democratico» costruito da pensatori come Schumpeter, Dahl e Bobbio, la
divaricazione tra élite e democrazia non può che riemergere periodicamente,
tornando a contrapporre il popolo a quella minoranza che gli avrebbe sottratto
lo scettro del potere. E l’ondata populista a cui abbiamo assistito negli
ultimi anni non è che la più recente riproposizione di una tensione per molti
versi strutturale.
Proprio
a questa lacerazione è dedicata anche l’indagine condotta dagli Amici di Marco
Biagi nel volume Popolo ed élite. Come ricostruire la fiducia nelle
competenze (Marsilio, pp. 252, euro 22.), nel quale sono ospitate le
riflessioni di studiosi e intellettuali come Luca Antonini, Giuseppe Bertagna,
Simone Bressan, Paolo Garonna e Maurizio Sacconi. La ‘rivolta contro le élite’
viene considerata nelle sue molteplici dimensioni, perché l’insofferenza verso
l’«establishment» si è indirizzata in realtà contro un insieme eterogeneo di
bersagli e ha coinvolto per esempio la «casta» dei professionisti della politica,
il mondo economico e gli «esperti», o quantomeno coloro che sono percepiti come
depositari di un sapere ‘tecnico’. Come esplicita il sottotitolo del volume,
l’obiettivo è d’altronde quello di ricucire il rapporto tra i cittadini e una
classe politica che faccia della competenza uno dei propri motivi di
legittimazione. Ma al fondo della riflessione sta probabilmente anche il
tentativo di rovesciare, o quantomeno di mettere in discussione, le letture che
imputano la lacerazione tra élite e popolo soltanto a una sorta di rivolta
‘contro la conoscenza’, e che rinunciano a considerare le responsabilità e le
mancanze – più o meno gravi – delle classi dirigenti. E in questo senso si
muove per esempio il contributo introduttivo di Eugenia Roccella, che torna a rievocare
le vecchie pagine di Cristopher Lasch, per molti versi anticipatrici dell’ascesa
dei sentimenti anti-establishment. Per Roccella alla base della contemporanea lacerazione
sta infatti il progressivo allontanamento della cultura delle élite
cosmopolitiche dal «senso comune» dei ceti popolari. Negli ultimi decenni sono
cioè venute consolidandosi le «concettualizzazioni e le teorizzazioni elaborate
nei luoghi della produzione alta, diffuse attraverso quello che è stato
chiamato il ceto medio riflessivo, e poi banalizzate fino a diventare appunto
luogo comune di largo consumo». E una simile visione si è progressivamente
distanziata da quella che si può ancora chiamare «tradizione», ossia «un
patrimonio tramandato di generazione in generazione, trasmesso attraverso
l’inculturazione, insieme alla lingua, alle usanze, alle abitudini culinarie, a
tutto quel complesso di tratti culturali caratterizzanti che compongono alla fine
l’identità nazionale». Il cosmopolitismo delle élite ha inoltre mostrato ciò
che Robert Reich definì con largo anticipo il suo «lato oscuro», ossia
l’assenza di un sentimento di responsabilità nei confronti di una comunità alla
quale non si sente più di appartenere. Ma dalla lacerazione del rapporto con la
tradizione scaturirebbero anche, come fenomeni degenerativi, tanto le
tentazioni nazionaliste quanto l’arroganza narcisistica di coloro che negano il
valore della conoscenza, delle competenze, della tecnica.
È
quasi inevitabile che in Italia ogni riflessione sulle origini e sul
significato della protesta contro l’establishment debba tornare sempre ai nodi
irrisolti della storia nazionale. «Ogni discorso sulle élite», ha scritto d’altronde
Lorenzo Ornaghi, rischia nel nostro Paese di rimanere sempre «il racconto, se non
di una ‘assenza’, di una possibilità che, sempre auspicata o sognata, è rimasta
inafferrabile o incompiuta». Ma le nubi che si addensano all’orizzonte rendono
oggi quell’«assenza» molto più preoccupante. E «ricostruire la fiducia nelle
competenze» diventa così un impegno cruciale anche per difendere la vitalità
delle nostre istituzioni democratiche.
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