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lunedì 28 dicembre 2020

Una «media potenza» alla ricerca di un posto nel mondo. Un libro di Emidio Diodato e Federico Niglia su cento anni di politica estera italiana





di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Emidio Diodato e Federico Niglia, L’Italia e la politica internazionale. Dalla Grande Guerra al (dis)ordine globale (Carocci, pp. 127, euro 13.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 15 febbraio 2020.


Nel 1873 Theodor Mommsen scrisse a Quintino Sella: «a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti». Il grande storico si riferiva naturalmente al ruolo che l’Italia avrebbe avuto, dopo la presa di Roma e la conclusione almeno temporanea del processo di unificazione. E quando evocava la dimensione cosmopolitica della capitale dell’impero e della cristianità, coglieva quello che sarebbe stato a lungo uno dei problemi cruciali della nuova Italia unitaria, coincidente con l’incapacità di pensare se stessa come «media potenza». Fin dai primi anni successivi all’unità, il nuovo Stato si pose d’altronde l’interrogativo cruciale di quale fosse il proprio posto in Europa e nel mondo. E per molti versi si tratta di una domanda che torna anche oggi. 
Emidio Diodato e Federico Niglia nel loro volume L’Italia e la politica internazionale. Dalla Grande Guerra al (dis)ordine globale (Carocci, pp. 127, euro 13.00) cercano di decifrare le traiettorie di più di un secolo di storia. E ciò che mettono in evidenza è la compresenza di tensioni contraddittorie nelle aspirazioni, negli atteggiamenti, nelle scelte con cui l’Italia si è collocata sulla scena mondiale. Già negli anni successivi all’unificazione, il nuovo Stato guarda all’Europa per trovarvi un sostegno al programma nazionale e per colmare il divario in termini di sviluppo con gli altri paesi. Ma lo fa senza essere una pura potenza «adattiva», interamente imitatrice dei modelli stranieri. Una simile tensione emerge soprattutto nel passaggio tra la stagione liberale e il fascismo. Per un verso, il regime mussoliniano riprende infatti l’idea che l’Italia abbia una missione civilizzatrice nel mondo mediterraneo e africano, già coltivata dalle élite liberali a cavallo tra Otto e Novecento. Ciò nondimeno, Diodato e Niglia si soffermano sulla specifica visione ‘geopolitica’ di Mussolini, persuaso che alla marcia su Roma debba seguire una «marcia all’Oceano», capace di aprire un varco sia verso l’Oceano Indiano sia verso l’Atlantico, e così di liberare l’Italia dalla «prigione» del Mediterraneo. Ma rilevano soprattutto come il progetto mussoliniano trasformi il Paese in una potenza «non adattiva», e cioè in uno Stato che punta a modificare gli equilibri internazionali senza adeguarsi alle regole stabilite da altri. Nel dopoguerra Carlo Sforza, ministro degli esteri dopo il 18 aprile 1948, fissa invece i cardini della scelta atlantista ed europeista, destinata a garantire un duplice ancoraggio alla democrazia italiana. Molti anni dopo, la fine della Guerra fredda avrebbe iniziato a rimettere in discussione gli assetti consolidati, e il sistema internazionale sarebbe diventato progressivamente più magmatico. La vecchia domanda sul ruolo dell’Italia è allora tornata nuovamente a riproporsi. Ma soprattutto è riemersa la tensione contradditoria tra adattamento e reazione. Benché attratta dai poli determinanti del sistema, l’Italia non ha infatti abbandonato la convinzione riposta nel proprio primato «civile e morale», talvolta al punto da rigettare quei modelli stranieri cui aveva in precedenza guardato con entusiasmo.


Damiano Palano

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