di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Emidio
Diodato e Federico Niglia, L’Italia
e la politica internazionale. Dalla Grande Guerra al (dis)ordine globale (Carocci,
pp. 127, euro 13.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 15 febbraio 2020.
Nel 1873 Theodor Mommsen scrisse a Quintino Sella: «a Roma non si sta
senza avere dei propositi cosmopoliti». Il grande storico si riferiva
naturalmente al ruolo che l’Italia avrebbe avuto, dopo la presa di Roma e la
conclusione almeno temporanea del processo di unificazione. E quando evocava la
dimensione cosmopolitica della capitale dell’impero e della cristianità,
coglieva quello che sarebbe stato a lungo uno dei problemi cruciali della nuova
Italia unitaria, coincidente con l’incapacità di pensare se stessa come «media
potenza». Fin dai primi anni successivi all’unità, il nuovo Stato si pose
d’altronde l’interrogativo cruciale di quale fosse il proprio posto in Europa e
nel mondo. E per molti versi si tratta di una domanda che torna anche oggi.
Emidio
Diodato e Federico Niglia nel loro volume L’Italia
e la politica internazionale. Dalla Grande Guerra al (dis)ordine globale (Carocci,
pp. 127, euro 13.00) cercano di decifrare le traiettorie di più di un secolo di
storia. E ciò che mettono in evidenza è la compresenza di tensioni
contraddittorie nelle aspirazioni, negli atteggiamenti, nelle scelte con cui
l’Italia si è collocata sulla scena mondiale. Già negli anni successivi
all’unificazione, il nuovo Stato guarda all’Europa per trovarvi un sostegno al
programma nazionale e per colmare il divario in termini di sviluppo con gli
altri paesi. Ma lo fa senza essere una pura potenza «adattiva», interamente imitatrice
dei modelli stranieri. Una simile tensione emerge soprattutto nel passaggio tra
la stagione liberale e il fascismo. Per un verso, il regime mussoliniano riprende
infatti l’idea che l’Italia abbia una missione civilizzatrice nel mondo
mediterraneo e africano, già coltivata dalle élite liberali a cavallo tra Otto
e Novecento. Ciò nondimeno, Diodato e Niglia si soffermano sulla specifica
visione ‘geopolitica’ di Mussolini, persuaso che alla marcia su Roma debba
seguire una «marcia all’Oceano», capace di aprire un varco sia verso l’Oceano
Indiano sia verso l’Atlantico, e così di liberare l’Italia dalla «prigione» del
Mediterraneo. Ma rilevano soprattutto come il progetto mussoliniano trasformi
il Paese in una potenza «non adattiva», e cioè in uno Stato che punta a
modificare gli equilibri internazionali senza adeguarsi alle regole stabilite
da altri. Nel dopoguerra Carlo Sforza, ministro degli esteri dopo il 18 aprile
1948, fissa invece i cardini della scelta atlantista ed europeista, destinata a
garantire un duplice ancoraggio alla democrazia italiana. Molti anni dopo, la
fine della Guerra fredda avrebbe iniziato a rimettere in discussione gli
assetti consolidati, e il sistema internazionale sarebbe diventato
progressivamente più magmatico. La vecchia domanda sul ruolo dell’Italia è allora
tornata nuovamente a riproporsi. Ma soprattutto è riemersa la tensione
contradditoria tra adattamento e reazione. Benché attratta dai poli
determinanti del sistema, l’Italia non ha infatti abbandonato la convinzione
riposta nel proprio primato «civile e morale», talvolta al punto da rigettare
quei modelli stranieri cui aveva in precedenza guardato con entusiasmo.
Damiano Palano
Nessun commento:
Posta un commento