di Damiano
Palano
Riflettendo sui motivi che avevano
condotto alla nascita del regime fascista e sulle cause del fallimento della
«rivoluzione in Occidente, Gramsci – negli anni della sua prigionia – tornò a
interrogarsi sui nodi cruciali della storia italiana. Le ipotesi che formulò
nelle pagine dei Quaderni si
distanziavano in modo netto dalla visione delle relazioni tra società e Stato proposta
dal marxismo della Seconda Internazionale. Tra la «base» e la «sovrastruttura»
delle istituzioni politiche si collocava infatti il terreno della «società
civile», come ambito in cui le classi si confrontavano in una lunga «guerra di
posizione» volta alla conquista dell’«egemonia politico-culturale». Il
protagonista della lunga contrapposizione attraverso le «casematte» della
società per Gramsci doveva essere naturalmente il partito, il «moderno
Principe» cui era affidata la trasformazione sociale. Anche se il pensatore
sardo si riferiva a un tipo specifico di partito, l’immagine del «moderno
Principe» è diventata quasi il paradigma del partito di massa novecentesco,
ossia di un’organizzazione politica capillarmente radicata sul territorio,
capace di trasmettere una visione del mondo, dotata al proprio interno di una
ferrea disciplina. Ma, benché i partiti non siano scomparsi dalla scena delle
nostre democrazie, è invece chiaro che quel partito di massa – spesso esecrato
per il suo profilo antidemocratico, talvolta rimpianto nostalgicamente – non
esiste più da molti anni, travolto da trasformazioni comunicative, culturali e
sociali. È invece tutt’altro che chiaro se i partiti siano davvero destinati a
scomparire, o se non debbano semplicemente mutare forma.
In alcuni suoi preziosi volumi, Mauro Calise ha avuto il merito di cogliere per tempo le tendenze che modificavano la fisionomia dei principali protagonisti delle nostre democrazie, sottolineando in particolare come la ‘personalizzazione’ della politica – in larga parte favorita della mediatizzazione – spingesse alla nascita di nuovi «partiti personali». Nel suo nuovo libro, Il Principe digitale, scritto a quattro mani con Fortunato Musella (Laterza, pp. 175, euro 14.00), l’attenzione si sposta invece sulle implicazioni politiche della rivoluzione del web. «Nel volgere di un decennio», scrivono i due politologi, «ci siamo trasformati in una platform society, in cui ogni ganglo della nostra esistenza è filtrato dai social media». Il numero degli abitanti del pianeta connessi a internet è di circa 4 miliardi, di cui tre quarti sono anche utenti dei social network. Ma l’aspetto più importante non riguarda tanto la tecnologia, quanto l’utilizzo che ognuno di noi ne fa quando naviga, apparentemente in autonomia, nell’immenso mare della rete. Perché il nuovo «individualismo di massa, autocentrato e acefalo» è diventato la cifra del presente.
La rete non ha
generato però una democratizzazione delle organizzazioni politiche. Come
chiariscono Calise e Musella, la rivoluzione comunicativa degli ultimi dieci anni
ha generato la formazione di nuove gerarchie e di nuovi strumenti di
manipolazione e di controllo. E anche i partiti digitali sono in realtà
contrassegnati sia da leadership fortemente personalizzate sia da
un’organizzazione interna nettamente centralizzata. La personalizzazione dei
partiti e l’individualizzazione delle masse si alimentano dunque a vicenda, in
un circolo vizioso da cui non sembra possibile uscire. Ciò nonostante, la
previsione dei due politologi non è del tutto pessimistica. Certo, la rete non
è la soluzione a tutti i nostri problemi, e anzi potrebbe anche contribuire ad
aggravarli. Nella storia occidentale, il corpo assoluto del sovrano ha
impiegato secoli a ‘spersonalizzarsi’ e a incardinarsi nella figura dello
Stato. Nel corso del Novecento l’ingresso delle masse sulla scena politica è
stato mediato dai partiti di massa, ed è stato reso possibile dalla delega concessa
al «moderno Principe». Oggi la rivoluzione digitale non consente invece alcuna
delega, e il vecchio compromesso tra popolo e partiti è costantemente logorato
dalla partecipazione diretta, costante, volubile che la rete consente. Ma l’esito
della trasformazione in atto – e le implicazioni che essa riserva per le sorti
delle nostre democrazie – non è segnato. Dipende soprattutto dalla
responsabilità che mostreranno gli individui e dall’uso che sapranno fare della
libertà che concede loro la rete. Magari inventando anche un nuovo «Principe
digitale».
Damiano Palano