domenica 9 febbraio 2020

Siamo tutti populisti? L'anatomia del fenomeno in un libro curato da Marco Tarchi


 

Di Damiano Palano


Questo testo è apparso su quotidiano "Il Foglio" il 3 gennaio 2020.


Se oggi ci chiediamo «chi» siano i populisti, dare una risposta è tutt’altro che complicato. I giornali, la tv e il dibattito politico contribuiscono pressoché quotidianamente ad affollare la galleria dei leader e dei movimenti che possono essere ricondotti in questa famiglia. Ma se ci poniamo invece la domanda su «cosa» sia il populismo, al di là delle sue manifestazioni quotidiane, la risposta si rivela ben più ostica. Perché emerge un ostacolo legato principalmente all’eterogeneità dei fenomeni di solito associati a questa categoria. Non si tratta comunque di una difficoltà sorta solo negli ultimi anni. Come si ricorda spesso, già nel maggio 1967, in un celebre convegno organizzato presso la London School of Economics, risultò chiaro che il «populismo» presentava molte facce, e che gli studiosi si riferivano con quel termine a cose piuttosto diverse. Per questo, commentando i lavori del convegno, Isaiah Berlin osservò che il dibattito sul populismo rischiava di rimanere vittima del «complesso di Cenerentola». «Esiste una scarpa – la parola populismo – per la quale da qualche parte esiste un piede», aveva osservato Berlin. E anche se questa scarpa «va bene per ogni tipo di piede, non bisogna lasciarsi ingannare da quelli che si adattano più o meno bene», e così il principe azzurro è destinato «a vagare alla ricerca del piede giusto». Cinquant’anni dopo, gli studiosi non sembrano ancora aver trovato la loro Cenerentola. E la discussione su quale sia l’«essenza» del populismo non ha raggiunto un punto condiviso.

Per orientarsi in questo dibattito, uno strumento prezioso – ed estremamente ricco – è il volume, curato da Marco Tarchi, Anatomia del populismo (Diana edizioni, pp. 361, euro 19.00), nel quale sono raccolti fra gli altri contributi di studiosi come Margaret Canovan, Chantal Delsol, Cas Mudde, Paul Taggart e Pierre-André Taguieff. In Italia Tarchi fu in effetti tra i primi politologi a dedicare un’attenzione non occasionale ai movimenti populisti. Sulla rivista «Trasgressioni» – che era nata negli anni Ottanta raccogliendo alcune suggestioni di Alain de Benoist – Tarchi iniziò a ospitare una riflessione a più voci su cosa si dovesse intendere per «populismo». La rivista puntò in primo luogo a mettere in discussione il pregiudizio negativo che gravava – e grava ancora oggi – sull’utilizzo scientifico del concetto. E così accolse gli interventi di studiosi che, oltre a ricostruire la fisionomia dei singoli movimenti populisti, si interrogavano sul concetto e sul modo in cui adottarlo per interpretare i mutamenti negli scenari politici. Nel volume sono ora riproposti i principali contributi di quella discussione, molti dei quali sono ancora oggi ricchi di sollecitazioni, oltre che utili per orientarsi in una letteratura nel frattempo divenuta caotica.

Tarchi ha anche fornito una propria definizione del populismo. Dopo aver respinto l’ipotesi che si tratti di una vera e propria ideologia, è tornato a utilizzare il concetto di «mentalità», proposto da Theodor Geiger negli anni Trenta e poi ripreso dal politologo spagnolo Juan Linz per identificare il patrimonio valoriale cui attingono i regimi autoritari (ben distinti in questo da quelli totalitari). Le mentalità sono modi di pensare e sentire emotivi che rimandano a valori generali, sono piuttosto fluttuanti e non hanno una forma chiaramente determinata, mentre le ideologie sono più strutturate, scaturiscono da un processo di riflessione e sono spesso codificate. Il populismo andrebbe dunque considerato come una forma mentis che concepisce il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, come una concezione che attribuisce «naturali qualità etiche» al popolo, che ne «contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali». E che soprattutto rivendica il primato del popolo, «come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione».

Dal punto di vista dell’indagine empirica non è sempre facile riconoscere una «mentalità» populista. E, soprattutto in una fase di scomparsa di ideologie strutturate e compatte come quelle del Novecento, è difficile individuare qualche forza politica totalmente immune dal contagio di questa mentalità. Ma è forse per questo che, sviluppando ulteriormente la proposta di Tarchi, ci si potrebbe domandare se quella specifica forma mentis non sia una mentalità anche nel senso in cui ne parlavano Philippe Aries e Michelle Vovelle. Collocando al centro dei loro studi proprio la «mentalità», gli storici della terza generazione delle «Annales» a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso iniziarono infatti a occuparsi degli atteggiamenti verso la ricchezza il piacere, il tempo, la morte. In questo senso, le mentalità, come le definiva Robert Mandrou, erano sostanzialmente «visioni del mondo», capaci di resistere nel tempo e anche di sopravvivere all’avanzata delle ideologie. In alcuni suoi studi importanti sulla «mentalità rivoluzionaria», Vovelle mostrò come, ancora prima del 1789, avessero iniziato a modificarsi gli atteggiamenti nei confronti della tradizione, della famiglia, dell’autorità. E come quel mutamento nella «mentalità» avesse finito poi col rompere gli argini. Anche oggi ci potremmo allora chiedere se l’esplosione populista degli ultimi anni non sia il frutto di un mutamento nelle «mentalità». Un mutamento (favorito ma non determinato dalla rivoluzione comunicativa) che è andato a modificare atteggiamenti, comportamenti, rappresentazioni collettive. Così potremmo forse anche scoprire che quel modo un po’ sbrigativo di guardare alla politica, di invocare il popolo sovrano, di richiedere soluzioni facili per problemi complicati, non riguarda soltanto formazioni oustsider o ‘antisistema’, ma ormai un po’ tutti noi. E che quella «mentalità populista» di cui pure deprechiamo le semplificazioni, lo stile brutale, gli espedienti retorici, ha già modificato anche il nostro modo di guardare alla politica.  


Damiano Palano

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