di Damiano Palano
Questo testo è apparso sul quotidano "Il foglio" il 21 dicembre 2019
Nell’ottobre 2017, aprendo il primo meeting della sua
Fondazione, Barack Obama spiegò ai sostenitori perché da quel momento non si
sarebbe più prestato alla liturgia dei selfie. «Le persone che incontro non mi
guardano più negli occhi», «si avvicinano a me solo così», disse mimando il
gesto con cui di solito si armeggia sullo smartphone per regolare l’autoscatto.
Se per fare una bella foto ci precludiamo la possibilità di avere una
conversazione con qualcuno, di ascoltare quello che dice o di guardarlo negli
occhi, disse allora Obama, finiamo col «creare qualcosa che ci separa dagli altri
invece che approfondire la relazione con loro». La posizione del predecessore
di Donald Trump alla Casa Bianca rimane fino a questo momento probabilmente un
unicum. Il rituale del selfie conclusivo è invece entrato a pieno diritto nella
fenomenologia delle forme di aggregazione politica, e proprio per questo mostra
in modo quasi paradigmatico i tratti di quel nuovo soggetto che popola la scena
contemporanea. È per molti versi proprio a questo soggetto sfuggente che Luigi
Di Gregorio dedica buona parte del suo Demopatìa.
Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico (Rubbettino, pp. 314,
euro 18.00), un saggio nel quale rifluiscono tanto i risultati di una ricca
attività di ricerca quanto l’esperienza di consulente politico. Secondo il
politologo è infatti proprio nella psicologia dell’odierno «uomo-folla» che
vanno rinvenute le cause del «malessere democratico». La tesi di fondo di Di
Gregorio – il quale si discosta dalle diagnosi avanzate in questi anni da molti
osservatori – è cioè che a essere «malato» sia proprio il popolo. E la
patologia di cui soffrono i sistemi politici contemporanei è per lui
soprattutto l’esito della trasformazione culturale che, nella transizione alla
modernità, ha investito i cittadini delle democrazie occidentali, travolti da
un lungo catalogo di processi degenerativi: «individualizzazione, perdita di
senso sociale, fine delle metanarrazioni, crisi del sapere, delle istituzioni e
delle autorità cognitive, narcisismo, nuove percezioni e concezioni di tempo e
spazio, trionfo della sindrome consumistica e della logica totalizzante
dell’‘usa e getta’, fine dei luoghi pubblici relazionali e proliferazione dei
nonluoghi».
Il Novecento è stato politicamente segnato della presenza delle masse. Anche se i secoli precedenti avevano conosciuto molte forme di azione collettiva, le masse compatte, organizzate, disciplinate del «secolo breve» avevano in effetti qualcosa di qualitativamente differente dalle vecchie sommosse di piazza, dalle moltitudini urbane che chiedevano pane e dalle folle che assaltavano i forni. Organizzate dai grandi partiti o mobilitate dagli apparati dei regimi totalitari, le masse sono infatti apparse – a torto o a ragione – come il prodotto di quella che, non casualmente, è stata chiamata «massificazione»: un processo che puntava a organizzare e mobilitare i singoli, ma che cercava anche di renderli tra loro omogenei, di tramutarli negli ingranaggi passivi di un mastodontico organismo sociale. Ed è anche per questo che la «massa» novecentesca è andata a identificare uno specifico tipo umano: l’«uomo-massa» passivo, privo di autonomia, conformista, eterodiretto, soggetto al dominio pressoché incontrastato di leader politici, di «persuasori occulti», di macchine burocratiche. Insieme alle grandi ideologie del Novecento, le masse sembrano però essere uscite dalla scena, e neppure quei movimenti che spesso chiamiamo «populisti» sembrano in grado di riconsegnare loro un ruolo. L’«uomo-massa» secondo Di Gregorio è stato sostituito proprio da un «uomo-folla» volubile, privo di solide credenze, narcisista, che proprio come il consumatore deve nutrirsi costantemente di nuovi protagonisti dello spettacolo politico. In altre parole, secondo Di Gregorio, la postmodernità segna in politica il culmine della parabola dell’homo ludens: «un individuo che ha progressivamente abbandonato il valore del ritardo della gratificazione», sostituito con «la ricerca spasmodica e continua della gratificazione immediata».
Ciò non significa che la politica non abbia responsabilità, che sono se non altro quelle di aver rinunciato a svolgere un ruolo dirigente. Ma la causa principale secondo Di Gregorio è chiara e va rinvenuta nella metamorfosi del popolo, nella «demopatìa». A veicolare la transizione sarebbero stati soprattutto i media. La personalizzazione e la mediatizzazione della politica avrebbero cioè incrementato la life politics, ossia l’importanza attribuita alla vita quotidiana, ai suoi dettagli, al puro gossip. Ma avrebbero anche innescato la trappola della fast politics, che costringe i leader politici a dover adottare – o meglio: a dover annunciare – misure immediate. Anche se dopo qualche giorno nessuno ricorda più nulla di quei provvedimenti tanto urgenti, così come gli stessi motivi che hanno indotto ad adottarli. Ciò che resta è una «sondocrazia» permanente, in cui l’opinione pubblica diventa «emozione pubblica», volatile, volubile. Il cittadino-elettore si allontana sempre di più dalla logica dell’elettore razionale. Più che un voto di opinione, il suo tende a diventare un «voto di emozione» fluttuante. Ma è proprio per alimentare nuovi emozioni che lo spettacolo non può evitare di cercare nuovi protagonisti e nuovi «eroi», strappandoli ad altri campi e proiettandoli nell’agone elettorale. E quegli outsider devono fatalmente ricorrere all’arsenale della demagogia, a promesse irrealizzabili. Collocate al centro di una discussione schematica, le questioni politiche finiscono per essere semplificate, banalizzate, ridotte a opposizioni binarie. E nel circolo vizioso chiunque può convincersi di poter ricoprire cariche istituzionali, come se l’abilità retorica di suggerire in un talk show soluzioni miracolose per i problemi della disoccupazione giovanile, del debito pubblico o dell’evasione fiscale equivalga alla concreta capacità di tradurre quegli slogan in misure strutturate e in un esercizio adeguato dell’attività di governo.
Ad alimentare le code di ammiratori in attesa di un autoscatto è ovviamente l’inesauribile ossessione narcisistica di voler apparire. E proprio per questo nessuna di quelle immagini diventerà probabilmente memorabile. D’altronde, se nessuna società del passato ha mai avuto la capacità di conservare una memoria così dettagliata e sistematica di tutto ciò che accade in ogni istante quasi in ogni luogo del pianeta, nessun’altra epoca ha mai percepito i frammenti del proprio passato con la stessa sensazione di futilità che proviamo quando, frugando nella memoria fisica dei nostri smartphone, ci rendiamo conto che quasi nulla di tutto ciò che conserviamo meriti davvero di essere ricordato. Ma – ci avverte Di Gregorio – la voracità con l’homo ludens immagazzina fotografie, filmati, messaggi che quasi inevitabilmente finiranno dimenticati nei meandri più oscuri della memoria digitale dei suoi dispositivi è in fondo la stessa con cui il cittadino delle democrazie contemporanee ‘divora’ i protagonisti dello spettacolo politico. E in questo interminabile pasto cannibale – più che la «verità», da sempre in conflitto con le logiche del potere – la vittima principale non può che essere proprio la politica. Perché nel grottesco circolo vizioso del selfie-government, proprio nulla sembra in grado di sottrarsi al vortice della futilità.
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