di Damiano Palano
Questa recensione ai due volumi di Paul Tillich, Il demoniaco. Contributo a
un’interpretazione del senso della storia (a cura di Luca Crescenzi, Ets, pp. 63, euro 10) e Filosofia del potere (a cura di Alessandro Gamba, Glossa,
pp. 89, euro 14.00), è apparsa su "Avvenire" il 23 giugno 2018, con il titolo Paul Tillich e l'influenza del demoniaco sugli Stati.
Quando Paul Tillich
si trasferì negli Stati Uniti, nel 1933, aveva ormai quarantasette anni. Era
nato infatti in Prussia nel 1886, nel 1912 era diventato pastore luterano e allo
scoppio della Grande guerra si era arruolato volontario come cappellano
militare. Dopo aver conseguito il dottorato a Breslavia, aveva inoltre insegnato
a Marburg, Dresda e Francoforte. Ma, soprattutto, era divenuto un esponente del
movimento dei «socialisti cristiani». Attraverso una strada originale, era giunto
infatti – anche grazie alla scoperta dei manoscritti economico-filosofici del
giovane Marx – a una convergenza con le posizioni esposte da Lukáks in Storia e coscienza di classe e con i
primi saggi di Marcuse. Il «socialismo religioso» di Tillich, criticando il determinismo
della Seconda Internazionale, puntava sostanzialmente a una revisione del
marxismo capace di riportarlo «al respiro che aveva nel giovane Marx». Il
socialismo doveva cioè opporsi alla «soggettività distorta» dell’era borghese,
in cui gli individui e le comunità erano privati dei fondamenti spirituali.
Centrale nella sua riflessione
era in special modo il concetto di «demoniaco», che influenzò probabilmente il Doktor Faustus di Thomas Mann e la
concezione della dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. Per
accostarsi alla riflessione del teologo, è per questo utile il volumetto Il demoniaco. Contributo a
un’interpretazione del senso della storia, tradotto e curato da Luca Crescenzi
(Ets, pp. 63, euro 10). Per Tillich il «demoniaco» costituiva la «forma
fenomenica» del potere del male, ma era soprattutto l’elemento distruttivo che
lo spirito doveva domare, pur rimanendo costantemente esposto al suo
riaffiorare. Era cioè la stessa storia dell’uomo a essere demoniaca, dal
momento che risultava sempre costretta nell’ambivalenza insolubile tra
creatività e distruttività, tra demoniaco e divino. «L’opposizione dei due
principi», scriveva per esempio il teologo, «attraversa ogni individuo e ogni
istituzione». E sebbene fosse un aspetto del tutto trascurato dall’ottimismo
illuminista, era invece necessario riconoscere i simboli del demoniaco per
comprendere la crisi spirituale del dopoguerra e la forza del nazionalismo.
Per
sfuggire alle persecuzioni del nascente regime nazionalsocialista, Tillich nel
1933 giunse negli Stati Uniti. Le sue opere ebbero subito una buona accoglienza
e furono tradotte dal H. Richard Niebuhr, il fratello di Reinhold Niebuhr, un
pensatore con cui Tillich aveva senz’altro alcuni elementi in comune (oltre che
alcune sostanziali differenze). Almeno alla metà degli anni Trenta, entrambi
erano d’altronde vicini ai movimenti socialisti e conducevano una critica ‘da
sinistra’ del New Deal. E, inoltre, entrambi
esprimevano un approccio morale alla politica, che – radicato nella teologia
protestante – non si traduceva però in un atteggiamento moralistico. Si
trattava, cioè, di una prospettiva che riprendeva la visione ‘realistica’ della
politica, intesa come dimensione segnata inevitabilmente dal conflitto e dal dominio
dell’uomo sull’uomo. Ma che, al tempo stesso, si discostava nettamente dalla
cinica esaltazione del potere del «machiavellismo». Il realismo era piuttosto il
presupposto per tornare ad annodare etica e politica, e per evitare che il
potere asservisse gli esseri umani.
Il
frutto maturo di questa riflessione può essere riconosciuto nelle lezioni sulla
Filosofia del potere, tenute da
Tillich a Berlino nel 1956 e ora tradotte in italiano da Alessandro Gamba (Glossa,
pp. 89, euro 14.00). Per il teologo, la riflessione sul potere doveva
necessariamente partire dalla comprensione delle radici ontologiche del
fenomeno. Ai suoi occhi, il potere era infatti «il primo concetto col quale
dev’essere caratterizzato l’essere in quanto essere». Più precisamente,
l’essere poteva essere definito come «possanza d’essere», «il potere di
essere». A contrassegnarlo era cioè una «volontà di potere» – espressione con
cui Gamba traduce, con una scelta meditata, la formula Wille zur Macht – intesa non come «la volontà di conquistare potere
sugli uomini», ma come «l’autoaffermazione della vita, della vita che spinge
dinamicamente oltre sé e supera ogni resistenza interna ed esterna». Con questa chiave di lettura, Tillich poteva
esaminare le relazioni tra individui e gruppi. E giungeva anche ad affrontare,
sul finire delle proprie lezioni, il nodo dell’«unità del mondo». Proprio in
quegli anni, Carl Schmitt – distanziandosi da Ernst Jünger – escludeva che si
potesse arrivare a uno «Stato mondiale». Pur procedendo da premesse diverse,
Tillich perveniva alle medesime conclusioni. L’ipotesi di uno Stato mondiale,
generato dall’unificazione delle maggiori potenze, era infatti in contrasto con
la concezione del potere che aveva delineato. L’ipotesi di un impero mondiale,
nato dalle ambizioni imperialistiche di una singola potenza, era invece più
realistica. Ma si sarebbe trattato, anche in questo caso, di un assetto destinato
a dissolversi, così come nell’arco di circa un secolo era tramontata la pax augustea garantita dall’impero di
Roma. «Nulla che sia generato in questo forma», scriveva infatti Tillich al
termine del corso, «può durare più a lungo». Perché «il regno dei Cieli non può
essere costruito sul terreno del potere e della possanza d’essere, dove l’uno
sta contro l’altro».
Damiano Palano