di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Sergio del Molina, La Spagna vuota
(Sellerio, pp. 395, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" del 29 ottobre 2019.
Quasi tutte le lingue europee, per indicare la forchetta, hanno termini
imparentati con la parola latina furca:
fork in inglese, forchette in francese, forquillia
in catalano, forquilha in portoghese.
La lingua tedesca non dispone di una parola di origine latina, ma – proprio
come le altre lingue – per identificare la posata adopera il medesimo termine (Gabel) con cui si indica il forcone,
ossia quella specie di tridente con cui i contadini sollevano il fieno o
smuovono le messi distese sull’aia. Solo il castigliano si differenzia da
questo implicito accostamento tra la forchetta e il forcone. La posata viene
indicata infatti con la parola tenedor,
con cui in origine si indicava una persona, il possidente. Probabilmente,
questa scelta linguistica – almeno secondo la breve storia che racconta Sergio
del Molino nel suo volume La Spagna vuota
(Sellerio, pp. 395, euro 16.00) – tradisce il disprezzo che le classi agiate
spagnole nutrivano per coloro che si limitavano ad affondare il cucchiaio nella
zuppa e che non erano in grado di maneggiare la forchetta. L’etimologia di tenedor è comunque solo la tappa di
avvio di un lungo viaggio dentro la «Spagna vuota». E cioè in quelle zone rurali
lontane dalla costa che, dopo la grande urbanizzazione degli anni Sessanta e
Settanta, si sono sempre più spopolate, specie se considerate in relazione a
città in costante espansione.
Oggi infatti gli spagnoli che abitano nei centri
urbani sono circa l’80% della popolazione, mentre più della metà del territorio
è rimasto rurale. Ovviamente non si tratta solo di una tendenza spagnola. Ma,
secondo del Molino, questo processo è avvenuto troppo rapidamente. Il «Grande
Trauma» ha così originato una sorta di odio nei confronti delle campagne: un
«auto-odio», un sentimento indirizzato contro le proprie stesse origini. Così,
gli abitanti di questa «Spagna vuota» «si sentono abbandonati», «sono
risentiti», «si inventano un passato pieno di vita, di bambini e di gente». Ma
questo passato in realtà non è mai esistito, perché queste zone sono sempre
state poco popolate. Ed è piuttosto il contrasto con le metropoli e la loro
vita pulsante a rafforzare la sensazione di svuotamento, di desolazione, di
abbandono.
La pubblicazione del libro di del Molino ha aperto in Spagna una grande discussione, che ha coinvolto anche i leader politici. Ma evidentemente non si tratta di un reportage o di un’inchiesta volta a sensibilizzare l’opinione pubblica o la classe politica. Il viaggio compiuto da del Molino è infatti soprattutto un viaggio dentro la cultura spagnola. Anche per questo non tutti i riferimenti risultano chiari al lettore italiano. Ma si tratta comunque di una lettura davvero ricchissima, capace di spaziare dai grandi luoghi letterari alla quotidianità e di portare in superficie tensioni profonde. E benché la nostra Penisola sia certo assai più popolata della fascia centrale della Spagna percorsa da del Molino, è quasi inevitabile chiedersi se ci sia anche un’«Italia vuota», di cui (quasi) nessuno parla e di cui ci siamo persino dimenticati.
Damiano Palano
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