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lunedì 9 dicembre 2019

Le bugie che legano. Un libro di Kwane Anthony Appiah



di Damiano Palano 

Questa recensione al libro di Kwane Anthony Appiah, La menzogna dell’identità. Come riconoscere le false identità che ci dividono in tribù (Feltrinelli, pp. 282, euro 19.00), è apparso su "Avvenire" il 23 ottobre 2019. 

Trent’anni dopo aver annunciato la «fine della Storia», Francis Fukuyama ha recentemente riconosciuto che la sua tesi più famosa non è in grado di spiegare le tensioni che oggi percorrono il mondo. Il modello liberaldemocratico ha trovato nuovi critici e nuovi sfidanti. Ma il punto importante è che, a suo avviso, il mercato non si è rivelato uno strumento sufficiente per soddisfare il bisogno di riconoscimento dei cittadini occidentali. E il risorgere dei conflitti sull’«identità» - che assumono anche il volto del nazionalismo, del sovranismo e del populismo – testimonierebbe proprio che la «Storia» non è finita. Al di là della specifica posizione dello studioso nippo-americano, non c’è dubbio che da qualche tempo l’«identità» sia tornata al centro della discussione teorica e politica. Anche se non è sempre chiaro cosa sia davvero l’«identità» e se, soprattutto, non c’è affatto un’unanimità di vedute sul ruolo che essa svolge. Se alcuni ritengono infatti che l’insistenza sull’identità sia una conseguenza della legittima aspirazione a essere riconosciuti, altri si soffermano sull’inevitabile chiusura verso gli ‘altri’ che la rivendicazione di un’identità comporta. E l’aggettivo «identitario» ha così assunto un’accezione negativa, che di volta in volta evoca gli aspetti più deleteri della rigidità ideologica e dell’ostilità verso gli esterni.
Per muoversi tra le varie interpretazioni fornite dalle scienze sociali è utile il volume del filosofo Kwane Anthony Appiah, La menzogna dell’identità. Come riconoscere le false identità che ci dividono in tribù (Feltrinelli, pp. 282, euro 19.00). Per la verità il titolo italiano tradisce quello originale, che suona più o meno «Le bugie che legano». E probabilmente distorce un po’ anche l’intento dell’autore. Appiah, che insegna Filosofia alla New York University, punta infatti a sottolineare come le identità non abbiano nulla di ‘naturale’ e siano costrutti culturali ‘inventati’ o rielaborati. Ciò nondimeno, avverte, queste «menzogne» hanno un posto chiave nella nostra vita, e per molti versi non possiamo farne a meno. Lo studioso sottolinea come la costruzione dell’identità possa trarre alimento da varie fonti. Ma fornisce anche una chiave interpretativa generale, che aiuta a chiarire cosa dobbiamo intendere per «identità». Innanzitutto, osserva, ogni identità si presenta come una sorta di «etichetta», che più o meno consapevolmente siamo in grado di applicare in presenza di determinate caratteristiche. In secondo luogo, le identità «contano per le persone», perché attribuiscono loro un senso di appartenenza condiviso a livello sociale. E, infine, modellano tanto i nostri atteggiamenti quanto i comportamenti che gli altri tengono nei nostri confronti. Ovviamente è scontato che ogni identità possa trasformarsi in un fattore di isolamento, in un muro che cerca di chiudere all’esterno tutto quanto è diverso. Ma secondo Appiah è ingenuo pensare di liberarcene. E, piuttosto, non dovremmo dimenticare che proprio le identità possono fornire «una cornice ricca di senso alla nostra libertà».

Damiano Palano


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